“Io adoro il pop”, parla Filippo Timi. “Ricordo ancora la puntata 200 di Love Boat in cui ci sono Andy Warhol e Basquiat, nella parte di Andy Warhol e Basquiat. La trama è stupenda, c’è l’attrice che in Happy Days fa la signora Cunningham (Marion Ross) che ha lavorato come attrice in un film erotico di Warhol, il titolo è tipo La giraffa fucsia. Sulla nave c’è una retrospettiva dell’artista e lei si vergogna di quel suo passato e cerca di nasconderne la visione al marito. Ecco, mi piacerebbe da morire qualcosa del genere. E invece il suo consorte la vede ed è orgogliosissimo! Super puntata”.
Il pretesto di questo flusso di coscienza è che mentre parliamo chi scrive è sul set di Don Matteo. E con Filippo Timi è sempre così, è tutta un’associazione di idee, corrispondenze di amorosi sensi, intuizioni folgoranti, aneddoti che illuminano i passi di una carriera e di un talento che è al contempo indomito e impavido. E che lo rende uno degli attori più bravi del panorama italiano. Anzi, del dopoguerra, anche se nemmeno lui lo sa.
Qualcosa mi dice che Dostoevskji ha un tono vagamente diverso dalla puntata di Love Boat che mi ha raccontato. Chatrian che lo ha voluto la serie alla Berlinale la definisce bellissima, cupa e senza speranza. I D’Innocenzo sono entusiasti e terrorizzati. Lei?
Guarda, avevo 296 scene, quindi immaginati, è un numero talmente estremo, un impegno così totalizzante che non te ne frega quasi nulla di impersonificare un personaggio, sei lui, diventi un elemento narrativo costante. A volte le ho affrontate come fossi un ballerino, usando il mio corpo, a volte anche solo le mani, come strumento di un pensiero, l’estensione di un lavoro complessivo. I fratelli scrivono da Dio, non devo certo dirtelo io, e devi abbandonarti a loro. Anche fisicamente.
Un esempio?
Ricordo una didascalia: “in cielo un temporale feroce come un litigio tra fratelli”. Non lo senti addosso solo ascoltando queste parole, quel temporale? Non è solo una bella frase, è archetipica, è simbolica, è significativa, è potente quanto l’immagine che evoca, quello è un temporale che hai dentro e fuori. Uno spessore, il loro, incredibile. Quindi capisci che io sono stato una figura all’interno di quest’immaginario geniale e gigante, ho interpretato Gesù Cristo nella Cappella Sistina, capito?
Non sarà troppo enfatico?
Ma no, è ovvio che poi il lavoro è fatto di sangue e sudore, è corporeo e concreto, è fatto di resistenza al freddo, di concentrazione emotiva, rinunce della vita quotidiana, la stessa Cappella Sistina è il frutto di dieci anni di impalcatura in cui Michelangelo è stato sdraiato con un pennello a non so quanti metri di altezza e a un metro dalla volta. Per essere artisti devi essere pronto a donare il tuo corpo all’arte. Come ha fatto il direttore della fotografia, Matteo Cocco, tra i più incredibili direttori della fotografia con cui mai abbia lavorato, un cristone di due metri, e lui davvero si infilava dentro ai soffitti. Anzi, alcune volte hanno proprio scavato un altro soffitto per metterlo dentro, perché il punto giusto per la camera era lì. E tutto questo, girato in pellicola.
Torniamo all’essere un ballerino. Chi balla come chi recita usa il corpo come uno strumento?
Certo! Quando ho deciso di fare Amleto, la prima immagine mentale che ho avuto per diventare lui, per approcciarlo, è come tiene il cazzo Amleto quando piscia, come se lo sgrulla. Sono coscientemente ruvido anche nella scelta delle immagini di riferimento, perché parliamo di Shakespeare, il Quentin Tarantino dei suoi tempi. Era uno che ci andava giù duro.
E la parola che fine fa?
Che devo dirti, Goethe definiva l’amore come dialogo. Ma non solo di parola, quando i corpi non si parlano più, come possono fare l’amore? La parola è corpo, soprattutto nel caso dei fratelli D’Innocenzo, che come Shakespeare sono estremi, raffinati e pop, sofisticatissimi e barocchi. Come lui. Con un coraggio pasoliniano, però. Sanno costruire, descrivendoli, degli abissi mentali ed emotivi. Un altro ricordo molto vivido è la frase con cui mi dicevano “immaginati il volto di questo personaggio come un paesaggio”. Quando vedrete la serie capirete che è talmente sproporzionato l’abisso di tutti i personaggi che è come aver fatto Riccardo III. Come lo racconti un viaggio del genere? Un personaggio che è innanzitutto una funzione, quella di umanizzare il male?
Quindi la vera danza è tra gli abissi mentali e il corpo?
L’abisso più grande è la morte, dal mio personaggio a noi stessi la partita è quella. Il corpo è sempre il limite, sfidandolo diventa azione, parola, lingua, mezzo. E il mio lavoro lo si comincia a fare per dimostrare di essere una scatola piena di pennarelli di tutti i colori. Con cui puoi disegnare quello che vuoi.
Ma adesso che sono più maturo, insieme a quell’ambizione eternamente insoddisfatta di essere il migliore, non rinuncerei mai all’equilibrio che è fondamentale tra i pieni e i vuoti.
La maturità quindi è un bene?
Ma certo, ora è come se l’intensità di un casquet superasse il brivido di un salto di rock acrobatico. Invecchiando usi meglio ciò che hai, lo capisci e ne sfrutti anche le mancanze.
E l’ambizione smisurata come si è trasformata? Nella speranza di trovare il ruolo dei sogni?
Ma quanto è presuntuoso sperare in un ruolo che non ti hanno mai offerto? I personaggi arrivano, sono un incontro, dipende da come accadono loro le cose, da ciò che farai. Amleto può stare dentro un ragioniere di periferia o un addetto del supermercato, sei tu, la scrittura, gli eventi che decidete il destino di un personaggio. Anche qui il dialogo è fondamentale: a me spesso arriva una proposta e la successiva dialoga con quella appena precedente. Il tutto mentre sento Ella Fitzgerald, che amo follemente. Quella di Bewitched, Bothered e Biwildered, chi l’avrebbe mai detto che sarei diventato un quasi cinquantenne che amava il jazz! Non esiste il desiderio, esiste il cuore.
Se non avesse fatto l’attore, quale sarebbe stato il suo piano B?
Essere attore era il piano B. Ero uno studente bravissimo a scuola, uscii dall’istituto d’arte con indirizzo di moda e costume con il voto di sessanta sessantesimi. Dopo avermi fatto i complimenti, mia mamma mi prese da parte e mi disse “ora perché non vai a lavorare col tuo babbo?”. Faceva i tubi di cemento e allora, sfruttando il fatto che chi usciva con il massimo dei voti dal liceo non pagava le tasse del primo anno di università, mi iscrissi a Filosofia.
Però da filosofia mi cacciarono perché ci arrivai vestito da donna.
Un attimo, racconti bene. Perché si presentava in aula vestito da donna?
Era un esame su Socrate e Socrate era tipo Malgioglio, basta studiare per saperlo. Andavo ai simposi vestito da donna, col rimmel blu elettrico perché era il colore propiziatore degli dei, di Zeus. Quindi io, coerentemente, vado all’esame con sottoveste e rimmel e alle domande del prof applico il metodo socratico, ovvero a domanda rispondo con domanda. Nel giro di dieci minuti pensa che lo prendo per il culo e mi caccia. Lì avrei dovuto capire che il mio destino era recitare. Io la filosofia la incarnavo! E infatti da lì mi imbarcai in un corso di 600 ore a Pontedera da cui uscimmo in sei e iniziammo a lavorare come attori.
Quel professore poi venne mai a vederla al cinema o teatro?
No, però ricordo la lettera che mi mandò la mia professoressa di storia dell’arte, esordiva con un dolce, commovente “scusa che non t’ho capito”. E questa frase, da lei che mi dava sette in condotta per la mia vivacità, il non stare mai fermo, è forse una delle più belle recensioni che abbia mai ricevuto. E poi m’ha dato una cazzimma che mi ha fatto studiare la sua materia con maggiore determinazione e per la mia formazione è stata cruciale. Inoltre a lei è legato uno dei ricordi più belli a scuola. Mi interroga su Picasso, va bene, poi a bruciapelo, a interrogazione finita, mi chiede a quale artista del passato potremmo paragonarlo, chi aveva avuto la stessa portata rivoluzionaria nel mondo dell’arte. Io, senza pensarci, dico “Giotto”. E lei, senza aggiungere altro, risponde “Otto”.
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