“Ho sempre creduto di zigzagare nella mia vita. Mi ero illuso di aver fatto ogni volta film diversi, senza una coerenza. Mi piaceva l’idea di essere il regista de Il camorrista, ma anche di Nuovo Cinema Paradiso. E che il regista di Nuovo Cinema Paradiso fosse un altro rispetto a quello di Baarìa. A quanto pare mi sbagliavo”. A parlare è Giuseppe Tornatore, al quale la 59esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro ha deciso di dedicare la sua retrospettiva. Lo scorso anno la manifestazione aveva celebrato il lavoro di Mario Martone, riaprendo un discorso critico focalizzato sulla poetica dei maestri contemporanei, volontà confermata dallo stesso direttore artistico Pedro Armocida.
“Leggendo di me attraverso gli altri mi accorgo che, in realtà, ho tracciato una linea retta nella mia filmografia”, spiega il regista riferendosi al volume Giuseppe Tornatore. Il cinema e i film. “In verità volevo una carriera simile a una programmazione cinematografica: un musicarello di qua, un western di là, poi un film comico, uno drammatico. Come se tutto fosse un flusso, che accogliesse il bacino più vasto di pubblico. Invece, forse, era tutto uniformato. Attenzione però: ho detto forse”.
Una “sindrome dell’opera prima” che ha rincorso il regista e sceneggiatore per tutto il percorso artistico. Un po’ come Salvatore Giuliano, film di Francesco Rosi, che cambiò la prospettiva che Tornatore aveva sul cinema: “Lo vidi per la prima volta a nove anni. Aveva un’ambientazione siciliana come non ne erano mai state fatte. Fu questo a colpirmi, il suo tono realistico. Come le donne urlavano o piangevano. Le immagini e le situazioni le avevo già viste nella vita reale. Sullo schermo c’era ciò che accadeva nei miei quartieri, cosa che non mi era ancora mai capitato di vedere in una pellicola. Per questo fu uno shock. Ho capito che col cinema si potevano fare tante cose diverse. Ed è indubbio che l’opera di Rosi influenzò la mia scelta di debuttare con Il camorrista”.
Dal vedere cambiare in continuazione la sua Sicilia (“Ricostruire Baarìa fu un’emozione, era come la ricordavo da piccolo, stessi balconi, stessi vasi”) al non aver mai abbandonato il documentario (“Quando ero giovane inquadravo quello che capitava. Col documentario si è più liberi, nel cinema c’è la sceneggiatura”), Tornatore continua nella sua ininterrotta sperimentazione. La stessa di una Sicilia che cambia sotto gli occhi di tutti. Come anche la sua scrittura, ora incentrata su di un’opera già pensata da tempo, mentre si trova anche alle prese con la pre-produzione di un progetto mai sviluppato prima a causa del Covi-19.
Ma se gli si chiede di andare nello specifico su cosa lo attende nel futuro, si tira indietro: “Ogni volta che ho parlato di un’opera a cui stavo per lavorare, alla fine non si è mai fatta. L’esempio è Leningrado, che doveva fare prima Sergio Leone, poi io. Forse, però, è andata meglio così. Perché se lo avessi fatto avrei saputo che non sarei mai stato al livello del maestro. Ma, in questa maniera, posso mentire a me stesso e dirmi che sarebbe potuto essere un film anche migliore del suo”.
L’intervista a Giuseppe Tornatore
Qui a Pesaro le viene dedicato un volume curato da Pedro Armocida e Emiliano Morreale che ripercorre la sua carriera e visione artistica. Solitamente questi sono lavori che hanno protagonisti autori del passato. Come la fa sentire essere già oggetto di uno studio tanto approfondito?
Non rimango indifferente. Da principio pensavo si trattasse di una pubblicazioncina, quando poi l’ho visto mi sono accorto che era un volumone. Sono rimasto sorpreso. L’ho sfogliato, ho visto tutti gli interventi, gli autori. Mi ha molto colpito. Credo che leggendolo potrò trovare delle risposte alle quali io stesso non ho saputo darmi una risposta negli anni, perché lo sguardo e la riflessione degli altri aiuta a capire bene il tuo lavoro. Sia quello che hai fatto o che ti accingi a fare. Quindi sono molto curioso, ma soprattutto grato a Pedro Armocida di aver avuto questa idea, è un privilegio. Ho sempre seguito a distanza la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, pur non essendoci mai stato fisicamente. Da ragazzo mi compravo i libri Marsilio pubblicati dal comitato e dai direttori, che contenevano le idee inesauribili di Lino Micciché (il leggendario fondatore del festival, ndr). Li conservo ancora.
Seguivo questo evento che mi sembrava diverso dai classici festival, in cui non prevale nessun discorso sulla competizione delle opere in concorso o la presenza di star sul tappeto rosso, bensì si dà spazio all’analisi del cinema e alla conoscenza dei film e degli autori, con un attento approfondimento sulle loro tematiche attraverso i saggi pubblicati. L’ho sempre ammirato per il suo essere un festival dall’animo colto, diverso. Ritrovarmici oggi è un riconoscimento unico.
Le produzioni in Sicilia sono giunte al loro apice. Anche l’America e le piattaforme l’hanno adocchiata, dalla seconda stagione di White Lotus alla serie Netflix su Il Gattopardo. Perché tutti la scelgono per girare?
Le parole di Leonardo Sciascia mi nutrono ancora oggi: la Sicilia è la regione più cinematografica che esista. Quante altre aree così piccole hanno ispirato tanto cinema? La risposta è: nessuna. Mi sono soffermato spesso a riflettere sulla capacità della Sicilia. È una regione in cui il nuovo si aggiunge sempre a ciò che è già esistente, rimanendo da sfondo. È ricca di persone che, di fatto, danno vita a personaggi incredibili. Al di là dei cliché che troviamo. Film come Il traditore di Marco Bellocchio, che trovo un’operazione straordinaria, riescono a superare banalità e preconcetti. Ed è ovvio che il pubblico premi La stranezza di Roberto Andò, il quale ha dato il via a un nuovo cinema siciliano.
Vale anche per altri nuovi progetti?
Spero che saprà farlo anche Il Gattopardo di Netflix, un progetto che è sicuramente un azzardo, ma comprendo il desiderio della serialità di puntare su un’opera così forte, per aiutare il pubblico a guardarsi indietro e andare a scoprire il meraviglioso libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e l’adattamento di Luchino Visconti. Io, come amante del film del 1963, non ne sentivo il bisogno, ma capisco che per avvicinare nuove fasce di spettatori sia necessario anche accedere a formule nuove. Al momento in Sicilia ci sono decine e decine di film e serie che stanno girando. È un continuo fiorire e c’è ancora molto altro da provare.
A novembre Nuovo Cinema Paradiso compirà trentacinque anni. Come si vive un anniversario simile?
Lo confesso: quando qualche volta mi hanno parlato del trentesimo anno di anniversario di Nuovo Cinema Paradiso sono saltato sulla sedia. “Sono passati trent’anni?”, pensavo. Non me ne sono proprio accorto. E non lo dico per citare Shakespeare. Mi sembra di averlo fatto ieri. E, in più, oggi scopro che sono addirittura trentacinque, quindi peggio ancora. Ma la sua attualità mi aiuta a pensare di averlo realizzato ieri, così da non farmi credere siano passati tanti anni.
L’omaggio di Pesaro continua con la proiezione di Ennio, documentario che inquadra il lavoro e la vita di Morricone. L’opera è stata uno dei più importanti successi del cinema italiano del 2021, nonché tra i più amati. Se l’aspettava? Ed è vero che state lavorando a una versione rivista e allungata dell’opera?
Non pensavo che Ennio potesse avere un simile riscontro ed ho delle valide ragioni. Prima di tutto perché la parola documentario, per quanto sto genere stia vivendo una stagione felice da un po’ di anni a questa parte e gli auguro di continuare, tiene sempre un po’ a distanza il pubblico, in particolare quello più vasto. Un documentario non può avere l’ambizione di avere un certo successo in sala. Inoltre Ennio è lungo, dura oltre due ore e mezza, è davvero fuori dai canoni. Mettiamoci anche che usciva in un momento in cui le sale cinematografiche riaprivano dopo che erano rimaste chiuse per mesi a causa del Covid. I conteggi tornavano a impennarsi, tant’è che il distributore era disperato, non sapeva neanche se fosse più il caso di farlo uscire. E, invece, quando arrivò in sala ebbe un successo che non ci aspettavamo: né io, né chi ci aveva lavorato. È stato un momento di grande consolazione, di calore anche, perché tornare dopo tutti quei mesi a presentare il film nelle sale piene di gente mi ha profondamente commosso.
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