Non so quantificare le ore di fiction televisiva che ho scritto negli ultimi anni, tra soap opere e prime serate di tv generalista, ma so che il tempo, infinitamente minore, passato a scrivere tre film con Felice Farina è stato il più divertente della mia vita.
Felice mi aveva conosciuta che stentavo a entrare nel sistema cinematografico, facevo gavetta come segretaria di edizione e stavo per mollare ogni velleità. Ha creduto in me da subito. All’inizio non capivo cosa ci trovasse in me Felice, poi ho capito che aveva intravisto la sua stessa visione tragicomica della vita e quel cinismo surreale che ci ha sempre tenuto uniti.
Dalla nostra iniziale collaborazione nacque Bidoni, il mio primo lungometraggio come sceneggiatrice, che ci vide ricevere un ciak d’oro con mia totale incredulità. Ero giovane e neppure mi ero resa conto, mentre per lui era tutto normale, era già famoso. Il giorno dopo già viaggiava con il pensiero su altri lidi non veneziani.
In trent’anni io e Felice abbiamo lavorato nei posti più disparati, il suo studio nello scantinato di San Lorenzo, le case al mare affittate quando le nostre rispettive figlie erano piccole, i salotti caotici delle mie case che si sono succedute. Scrivevamo sgranocchiando pezzi di pane secco e formaggio, fumando sigarette, bevendo bicchieri di latte avanzato, grattando scatolette di tonno, ma tutto era magico perché Felice riempiva il nostro piccolo mondo con la sua visione ampia, le sue battute sull’esistenza umana, i suoi discorsi che spaziavano dall’arte alla scienza, alla psicoanalisi. Discutevamo ore su cosa volessimo raccontare e non sapevamo mai esattamente dove stavamo andando, ma ci divertivamo.
Io e Felice ci siamo sempre e solo divertiti. A dispetto di chi diceva che il suo nome non gli corrispondeva, se eri minimamente depresso, Felice ti costringeva a ridere perché da lui una cosa la dovevi imparare per forza: solo dalle tragedie nasce la commedia, solo dai guai quotidiani può uscire la verità, come diceva il suo grande e indiscusso punto di riferimento artistico, Billy Wilder.
Ma mi fermo qui, non voglio parlare di Felice come autore e regista. Non sta a me dire quanto fosse geniale perché i suoi film, specialmente i primi, parlano da soli. Non sta a me ricordare gli alti e bassi della sua carriera, di chi lo ha amato e chi lo ha ignorato. Vorrei parlare di Felice come Felix, questo è il suo nome nella mia agenda.
Tra me e Felix la scrittura era una piccola parte di ciò che abbiamo condiviso per trent’anni.
La telefonata serale a Felix per me era l’appuntamento fisso di due insonni in perenne movimento mentale. Tutte le sere si faceva il resoconto della giornata, per ridere dei miei piccoli disastri e delle sue avventure metropolitane in cui aveva puntualmente litigato con qualche automobilista incazzato o qualche burocrate, poi si passava a disquisire dei quesiti scientifici che ci assillavano e di cui parlavamo per ore. Passava nottate a spiegarmi il sistema delle onde quantistiche, discutevamo di virus e batteri, ma anche di come togliere il calcare al rubinetto o aggiustare un pezzo di lavatrice rotta. Lui consultava i tutorial e poi mi spiegava. Io e Felix eravamo un po’ come Cicci e Coccò, da quando ci siamo conosciuti abbiamo sempre fatto tutto insieme anche se a distanza, le nostre figlie sono nate a pochi mesi l’una dall’altra, hanno giocato insieme da bambine e sono tuttora amiche. Eravamo una grande famiglia. Lo siamo stati. E questo è ciò che mi mancherà di più.
Essendo una grande famiglia, tra me e Felix erano impliciti, oltre alle telefonate notturne, altri appuntamenti fissi. Uno era il Natale, passato sempre a casa mia. Io, a differenza di lui, ho sofferto di manie di grandezza e le mie case, man mano che guadagnavo con le fiction, si allargavano per ospitare più gente possibile e amici senza famiglia.
In realtà Felix non era interessato al Natale ma al fatto che arrivassero dall’estero Andrea e Simone, i miei due cugini scienziati. Per lui il massimo della felicità era poter passare ore a parlare con persone di scienza competenti.
Anche io e Felix parlavamo di scienza, forse la passione che ci ha realmente accomunato. Ci eravamo appena conosciuti quando mi consigliò il libro “Dio non gioca a dadi” di Henri Laborit, che lessi d’un fiato in una notte e imparai a memoria. Da quel momento abbiamo letto e condiviso tutta la letteratura scientifica che potevamo. Per un periodo abbiamo avuto il mito di Harari, poi di Siddhartha Mukherjee, e in entrambi i casi avevamo la presunzione innocente di capirci qualcosa.
Un altro appuntamento di routine era la risoluzione dei disastri tecnici delle mie case: il sanitrit rotto, il sistema elettrico in tilt, la macchia creata sulla graniglia dall’acido tamponato. Felix si presentava da me con la cassetta degli attrezzi, dove aveva di tutto. La volta dell’acido tamponato un amico di mia figlia lo prese per un operaio. Lui non fece una piega e iniziò a spiegargli come si poteva bloccare la corrosione del pavimento. Aveva portato del bicarbonato e iniziò a spargerlo sulla macchia, spiegando al ragazzo che la reazione chimica che ne sarebbe conseguita avrebbe reso neutro l’acido divoratore. Da lì seguì un’ora di lezione di chimica con tanto di formule. Felix era in grado di spiegare la scienza a chiunque, nel modo più semplice del mondo.
I ragazzi, amici di mia figlia che gironzolavano per casa, adoravano Felix. E non è un caso se in questo ultimo mese si siano tutti presentati al Policlinico per donargli il sangue di cui aveva bisogno.
A volte i disastri a casa mia assumevano forme più horror. Come quando ospitai una truffatrice albanese con documenti falsi, in una stanza che avevo adibito a b&b. Se c’era qualcosa di folle da risolvere Felix non giudicava, ma agiva e trovava la soluzione. I grattacapi erano il suo pane quotidiano. E non aveva paura di nulla. Era l’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto.
In quell’occasione passammo la notte a inventare strategie per capire come disfarsi della pericolosa criminale senza finire nel mirino della mafia albanese. Alla fine lui scelse l’idea giusta: una grave malattia di mia mamma che mi costringeva a liberare la stanza. Ovviamente non lo dissi mai a mia madre che sta ancora benone. Ripensandoci, la storia della truffatrice sarebbe stato un fantastico film del regista Felice Farina, ma in quel momento a noi interessava solo vivere l’ebbrezza dell’avventura.
Un’altra fissazione che ci accomunava erano le case. Ad un certo punto Felix aveva deciso di investire dei soldi nel mattone. Dopo varie ricerche, visite, attraversamenti della città appresso ad agenti immobiliari, siamo finiti in una casa che nessuno voleva comprare perché era affittata a ragazzi del Bangladesh. Quando siamo entrati il pavimento era pieno zeppo di confezionatori di rose, c’era sporcizia ovunque, ma io feci prontamente la conta delle finestre e gli sussurrai che era un affare. L’unico problema erano gli affittuari: se non fossero andati via? “Vorrà dire che ci staremo tutti insieme” rispose Felix, che si trovava totalmente a suo agio in quella specie di kasba. E così se la comprò. Tutt’ora i giovani del Bangladesh pagano regolarmente un affitto senza aver mai creato problemi.
L’altro appuntamento tra me e Felix era quello delle diagnosi mediche riguardo alle nostre varie forme di ipocondria. A volte passavamo ore a discutere di farmacologia, esaltando le potenzialità dell’acido acetilsalicidico a discapito del truffaldino paracetamolo utile solo alle case farmaceutiche.
Felix mi voleva sempre accompagnare dai dottori, non perché fosse preoccupato per me, ma per chiacchierare di medicina. Una volta decise di venire con me a Milano, per una cosa più seria del solito. Avevamo la visita da un grosso luminare e Felix si presentò con i pantaloni macchiati di calce, la maglietta bucata e un giubbotto pieno di stemmi. Non aveva avuto tempo di cambiarsi perché aveva lavorato fino a quel momento nel laboratorio di falegnameria che aveva con altri amici. Il grande primario lo guardò perplesso, io ero rossa di vergogna, ma appena Felix aprì bocca e fece delle domande, il primario si mise sull’attenti.
Felix aveva dieci lauree, tutte in campo tecnico scientifico. L’arte e il cinema erano solo la sua espressione ma i suoi studi erano terribilmente più vasti.
Felix non era un intellettuale, era un uomo faber. Un uomo seicentesco, e galileiano. Univa arte e scienza con la disinvoltura della completezza.
Spesso sento dire che era un “personaggio”. In effetti è così. La parola personaggio si usa per indicare persone strane, e lui lo era. Era diverso e unico. E un personaggio l’aveva creato, forse per nascondere la sua anima fragile e infinitamente buona. A mio avviso il personaggio di Felix è il mentore, il personaggio che “raccatta” la gente dalla strada e gli dà una possibilità, come dice Nicholas di Valerio, che ha avuto con lui la mia stessa esperienza e con il quale Felix ha scritto e realizzato il suo ultimo film testamento, l’opera che finalmente ha unito le sue grandi passioni: gioco, cinema e scienza.
L’immagine di Felix per me è e resterà sempre quella di un bambino che gioca con il lego. Lo ricorderò sempre così. Un personaggio senza tempo, che continuando a giocare non muore mai.
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