“Zio, che vuol dire sordido realismo?”, chiede la sagace undicenne allo zio tassista alias Jafar Panahi, dissidente regista iraniano, in una memorabile scena del film Taxi Teheran – Orso d’oro a Berlino nel 2015 – in cui lui interpreta sé stesso. La maestra ha assegnato alla bambina il compito di girare un cortometraggio (chi meglio del suo famoso zio regista può darle dei buoni consigli) e ha quindi elencato le regole per un film “distribuibile” in Iran. “Assoluto rispetto del velo e della decenza islamica, nessun contatto fra uomo e donna, non deve esserci sordido realismo”. I due chiacchierano della difficoltà di rispettare le regole, secondo cui la realtà che si vede, che è uno strumento del potere, non può essere rappresentata come appare ma solo con il filtro fabbricato ad hoc da chi il potere in Iran lo detiene, gli Ayatollah.
Mentre Panahi è pluripremiato a livello interazionale, chi detiene il potere in Iran lo ha condannato, incarcerato a intermittenza, accusato di questo “sordido realismo”. Allora come si fa un film quando si è banditi dal cinema? Panahi ne ha prodotti cinque in clandestinità, perché “nessuno ha il diritto di costringere un artista a non vedere”, come ha avuto modo di dire. Questo lo rende un regista “inarrestabile”, per la cui libertà si sono battuti registi come Scorsese, Spielberg, Coppola, Stone. Un regime che imprigiona i suoi artisti e amputa le loro opere non è riuscito a fermarlo, anzi ha offerto al mondo una delle più grandi filmografie del proprio tempo.
Jafar Panahi: esordi di un amante del cinema
Jafar Panahi è nato nel 1960. Figlio di un imbianchino amante del cinema, ha trascorso buona parte della sua infanzia nei teatri di Teheran. La sua creatività lo porta a vincere già a dieci anni un premio per la scrittura di un racconto e a girare i primi filmini in 8mm. Gli iraniani iniziano ad andare al cinema negli anni Venti e producono i primi film dal decennio successivo. Negli anni Settanta, gli studi di produzione della capitale Teheran mettono in scena cabaret fumosi e donne in minigonna mentre si importano persino bobine erotiche. Al momento della rivoluzione khomeinista, nel 1979, le sale cinematografiche più famose vengono date alle fiamme e viene imposto un nuovo modello di cinema. Appena dopo la rivoluzione, costretto al servizio militare, Panahi vive la guerra Iran-Iraq e realizza documentari. Dopo aver studiato regia all’Università di Teheran, incontra il maestro: Abbas Kiarostami.
Jafar Panahi ha girato il suo primo film nel 1995. Il palloncino bianco, un racconto di ispirazione neorealista su una ragazza alla ricerca di un pesce rosso, scritto da Kiarostami. Da quel momento ha inaugurato una serie di classici, premiati nei maggiori festival: Lo specchio (1997), Il cerchio (2000), Oro rosso (2003), Offside (2006). Panahi ha iniziato a scontrarsi con il regime iraniano con Il cerchio, un film sulla condizione delle donne in Iran, tema costante nella sua opera integrale. Vietato in patria, è stato portato di nascosto alla Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto il primo premio.
La critica al regime e l’arresto
Nel 2009, Panahi partecipa al movimento dell’“onda verde”, quando il regime di Teheran esercita la sua violenta repressione su coloro che manifestano contro la rielezione, truccata, del presidente Mahmud Ahmadinejad. Finiscono in prigione migliaia di iraniani e almeno cento persone perdono la vita nelle manifestazioni. Pochi mesi dopo, la polizia si presenta dal regista, alla ricerca di immagini delle proteste, per arrestarlo.
Trascorre così tre mesi nella prigione di Evin a Teheran. Durante la detenzione inizia uno sciopero della fame e importanti personalità del cinema internazionale si schierano per la sua libertà. Una volta rilasciato, il regime impone a Panahi il divieto di fare film, di scrivere sceneggiature, di parlare con i media e di lasciare il Paese. Per vent’anni.
Taxi Teheran è il suo terzo film dopo il divieto, dopo This Is Not a Film (2012), realizzato nel suo appartamento di Teheran, e Closed Curtain (2014), che, come in Taxi Teheran, mescola realtà e finzione. Infine Tre volti (2018) e No Bears (2022).
Il suo nuovo status apre un periodo della sua carriera in cui si mette nei panni di un regista incapace di lavorare ma che lavora nonostante tutto. I film diventano una meditazione sul cinema, un rimprovero alla leadership iraniana, una celebrazione della verve dei cittadini del Paese. Il direttore della fotografia Amin Jafari testimonia le condizioni di ripresa acrobatiche, con squadre molto piccole, senza attrezzature ostentate.
L’ultimo film e il premio a Venezia
L’ultimo film, No Bears, è stato il migliore della Mostra di Venezia del 2022, che gli ha consegnato il Premio speciale della giuria. Un dramma di cuori spezzati dall’esilio. Panahi si trova in un villaggio, vicino al confine turco, dove dirige il suo nuovo film da remoto. Dall’altra parte, in Turchia, Bakhtiar e Zara (Mina Kavani) interpretano i loro reali ruoli di attori che cercano di raggiungere l’Europa. Riprese in cui un regista che non può lasciare il suo paese dirige a distanza un’attrice che non può più tornarci.
Durante l’estate del 2021, Ebrahim Raisi è succeduto ad Hassan Rouhani e l’Iran è passato dal conservatorismo all’ultraconservatorismo. Un anno dopo, le donne iraniane, seguite da padri e fratelli, si tagliano le ciocche dei capelli, urlano la loro rabbia dopo l’uccisione di Mahsa Jina Amini e a luglio le porte di Evin si chiudono di nuovo dietro Jafar Panahi. Altro sciopero della fame e altro rilascio dopo sette mesi. Fino a che l’autorità non decreterà nuove accuse di “sordido realismo”.
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