C’è sempre la voglia, nel maschilismo più soft, di etichettare le donne di successo con epiteti apparentemente innocui come “la fidanzata d’America”, “la ragazza della porta accanto”, “la figlia che tutti vorrebbero avere”.
La sodale appassionata, l’amante folle, il talento travolgente. Raramente troviamo invece espressioni così, accanto a coccodrilli al femminile o profili, eppure l’affermazione delle donne in luoghi artistici ipermachisti – in cui le stesse, da Janis Joplin a Amy Winehouse, sono state raccontate più in funzione della loro disperazione e della tossicità dei loro rapporti con l’altra metà del cielo che per i loro capolavori – passa per le icone pop rock alla Jane Birkin, troppo talento per essere solo muse, troppo poco per essere delle star che brillassero di luce propria.
C’è stato un momento fondamentale dell’arte mondiale in cui la figura femminile è uscita dall’ombra, dalla funzionalità di una groupie o di una moglie devota e abbandonata, perché diventasse, nella musica, nel cinema, nell’arte visiva un satellite, forse, ma tra i più importanti. Perché Urano sarà pure un pianeta, ma canzoni e maree si smuovono per la Luna.
Erano soggetti strani, anticonformisti, altri e alternativi Jane e le sue sorelle, figlie della Swinging London – geograficamente o comunque nello spirito – capaci di costruire sodalizi potenti, innervati d’amore, corpi, dolore, sensualità, visione, provocazione. La Marianne Faithfull femme fatale dei Rolling Stones, figlia di una baronessa e un militare, coautrice di successi clamorosi di Mick Jagger e Keith Richards e soci, è di sicuro la più dotata in termini creativi e artistici. Bruciata solo dalla giovane età e dall’aver terremotato quella che si dimostrerà essere una multinazionale granitica, ha poi mostrato in solitaria di saper dire la sua e persino al cinema, da anziana, di trovare una felicità espressiva con il geniale e provocatorio Irina Palm. Ma è indubbio che il suo non essere musa ma neanche star, ma più diva maieutica, abbia mostrato a tutti che c’era un modo diverso d’essere donna, al mondo e nell’arte.
Così come Nico, la versione dark e più stonata di Marianne, massacrata dai fan dei Velvet Undergound. Christa Päffgen (protagonista del bellissimo Nico di Susanna Nicchiarelli), che poi ha rinnegato quel passato con concerti e produzioni audaci e sperimentali, è decisamente il simbolo più patinato, prima, e destrutturato poi, di quella rivoluzione femminista. Ed è anche il termometro di quanto, in quel make-up culturale e iconico, ci fosse la mano di Andy Warhol che a quell’album fallimentare, Velvet Underground & Nico (ignorato dalle radio per i testi scabrosi, sabotato nei negozi di dischi perché troppo avanguardista e provocatorio, affossato definitivamente dal fallimento della Verve, che per lanciarlo competitivamente sul mercato non resse) diede due elementi fondanti e fondamentali: la mitica banana nella cover e Nico, algida modella tedesca allora, a regalare fascino e carisma.
La Factory e il lavoro warholiano che con la sua post modernità seppe lavorare con persone e immagini in modo sin troppo spregiudicato, fu fondamentale nel bene e nel male per questo passaggio femminile e femminista dell’iconografia pop. Pensiamo alla sua tentata omicida Valerie Solanas, che icona lo divenne per gli eccessi, creativi, patologici, non di rado grotteschi, e che ne scoperchiò luci e ombre, opportunità e contraddizioni. Così come la sua opera incredibile Up your ass.
La donna non è più una pettinatura alla moda e un vestito prevalentemente corto vicino alla rockstar, ma diventa un elemento cruciale della produzione e della creatività, dell’immaginario collettivo, non solo estetico ma anche artistico. Non ancora oltre l’uomo, ma con l’uomo.
Vale anche ovviamente per Jane Birkin: i suoi compagni storici (Barry, Gainsbourg, Doillon) sono stati determinanti nella costruzione del suo personaggio, della sua presenza nel mondo della musica e del cinema, ma almeno per quanto riguarda il buon Serge, vale anche il contrario. Sarebbe certo stato consegnato alla storia dell’arte comunque il cantautore franco-ucraino, ma se ora nonostante la sua produzione alternativa e difficile è (anche) un riferimento popolare lo si deve a Jane, a quell’intesa emotiva e fisica divenuta arte ben oltre la hit che li ha legati per sempre, personalmente e non solo (Je t’aime… moi non plus). Jane, piena di carisma e capace di tirar fuori il meglio da sé e gli altri a livello creativo, non aveva abbastanza talento per conquistare in solitaria musica e cinema, ma di certo non era solo ispiratrice, ma miccia e detonatore delle qualità proprie e altrui. Lo si percepisce in modo decisivo nel bellissimo e coinvolgente documentario Jane by Charlotte (disponibile su Sky Arte e in streaming su NOW), una madre e una figlia che hanno saputo fare lo stesso percorso sia pure con passi radicalmente diversi.
Ancora diversa, ma altrettanto simile, è la parabola di Jane Fonda. Più consapevole – l’essere nordamericana ha aiutato: meno autodistruttiva, decisamente più manageriale – si è affrancata da un padre ingombrante (Henry Fonda) e da compagni invadenti per andare da Barbarella a Tornando a casa (che le valse un Oscar), da Sul lago dorato (dove recita col padre) ai video di aerobica, riuscendo, anche lei con l’arguzia di comprendere i suoi limiti e farli diventare opportunità, a costruirsi un percorso che fosse indipendente pur partendo da chi le era vicino (il padre, Vadim).
Potremmo citarne molte altre, ma per capire quanto fosse trasversale il fenomeno pensiamo a Jean Seberg. Attrice fallita negli Stati Uniti, ha la geniale intuizione di trasferirsi in Francia, diventare una star dei salotti buoni (e non solo) e icona di stile per quei capelli corti meravigliosi accanto a Jean-Paul Belmomdo e diretta da Jean Luc Godard in Fino all’ultimo respiro, che la consacrò come musa della Nouvelle Vague. Subito provarono a incasellarla, ma non ci riuscirono, tanto che tornerà a occupare i nostri sogni e le nostre paure accanto a Clint Eastwood, Dean Martin, Burt Lancaster (ma pure in Italia, recitando per Nelo Risi e Pasquale Squitieri), affermando se stessa con una vita sentimentale tormentata (4 mariti) e una passione politica inconsueta: l’FBI la perseguitò per il suo appoggio convinto alle Pantere Nere determinando, probabilmente, anche la prematura morte per suicidio a soli 40 anni.
Satelliti e non ancora pianeti indipendenti, ma capaci di cambiare il corso della storia, il nostro immaginario e influendo in maniera determinante nella storia dell’arte del XX secolo. Ecco, con Jane Birkin ci lascia probabilmente la capofila di quelle icone femminili pop rock che hanno cambiato il nostro modo di vedere il mondo. E le donne.
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