Kim Rossi Stuart: “Eccovi il mio Lupin. E per il prossimo anno penso a una regia teatrale”

Riservato e appassionato, dall'ultimo bandito gentiluomo Leonardo Notarbartolo che interpreta in Everybody Loves Diamonds (su Prime Video) agli inizi tra kimoni d'oro e Fantaghirò, tra Lucca e Roma il grande attore si racconta. Più del solito. L'intervista con THR Roma

Kim Rossi Stuart, tornato sul piccolo schermo con la serie heist Everybody loves Diamonds (su Prime Video dal 13 ottobre 2023, diretta da Gianluca Maria Tavarelli, nel cast con lui ci sono Anna Foglietta, Gianmarco Tognazzi, Carlotta Antonelli, Leonardo Lidi ma anche Remo Girone, Rupert Everett e Malcolm McDowell), ha più talento di quanto sia bello. E questo dovrebbe darci la misura delle sue capacità, di una carriera che ha sviscerato al Lucca Film Festival, dove ha ricevuto un premio alla carriera consegnato dal direttore Nicola Borrelli nell’ultima giornata dell’ultima edizione, e della statura di un attore che da qualche anno, forse, ha imparato anche a divertirsi. “Lui è sempre molto serio – racconta Gianmarco Tognazzi, che nella serie ha un ruolo irresistibile quanto la sua parrucca – e l’ho provocato molto sul set: a un certo punto si è sciolto e ha tirato fuori quel talento da commedia che ha dentro, è un fenomeno”. Anche Tognazzi non è male e, peraltro, come il vino invecchiando non fa che migliorare (il giorno della presentazione della serie, l’11 ottobre, ha peraltro compiuto 56 anni).

Abbiamo conversato con Kim Rossi Stuart per più di un’ora, sull’asse Lucca-Roma (all’Hotel de La Ville, dove si sono tenute le interviste della serie Prime Video), lottando con la sua garbata riservatezza ma anche approfittando di una grande generosità intellettuale e chiedendogli di questa storia vera divenuta serie tv, una rapina picaresca e avventurosa ideata dal mitico Leonardo Notarbartolo, ladro gentiluomo ora senza un euro che sognava una vita brillante come un diamante.

Kim, ci sta prendendo gusto a fare il criminale…

Ma sì, le tipologie umane sono quelle, una volta fai il ladro, una volta fai il poliziotto: certo i miei banditi sono stati iconici, dal Freddo a Vallanzasca, ma questo mi sa che, senza nulla togliere a Renato, è il più simpatico che ho impersonato, il più umano, quello che fa più tenerezza, perché ha questa inclinazione a vivere un’esistenza dai contorni “fantastici”, ha una fantasia e un candore quasi fiabeschi. E questo lo rende un leader divertente e affascinante. Oddio così sembra quasi che ammiro un criminale, mi sa che non si può fare vero? Però credo che i ladri intelligenti debbano per forza conservare una delicatezza d’animo che lui senz’altro ha. C’era una commedia stupenda, Billy il bugiardo di John Schlesinger (film che ha appena compiuto 60 anni, ndr) che me lo ricorda molto nel suo lasciarsi trasportare nel rivisitare la realtà, credendoci, alla fine, lui più di tutti.

Everybody Loves Diamonds è più Ocean’s Eleven o I soliti ignoti?

Più Lupin, devo essere sincero. Ho pensato molto al fumetto, perché Leonardo è uno che aveva un sogno, della ricchezza gli interessava relativamente, non l’ho mai pensato come un materialista. Il suo mito dei gioielli, dei diamanti, era estetico, simbolico. Poi sì, in alcuni momenti Leonardo, è vero, sembrava un po’ Totò, quando ci spiegava il colpo, come lo aveva ideato e messo in atto, e noi pur essendo concentratissimi capivamo forse il 20% di quello che diceva. Lui è Lupin perché ciò che lo emozionava davvero, che lo muoveva, era l’impresa.

Kim Rossi Stuart alla borsa dei diamanti di Anversa in Everybody loves diamonds

Kim Rossi Stuart alla borsa dei diamanti di Anversa in Everybody loves diamonds

L’impressione è che negli ultimi anni lei si diverta di più, sia meno ossessionato dal dimostrare di essere più bravo che bello.

Vede, non è che lo consideri un problema o l’abbia fatto in passato. Non è spiacevole essere considerati belli, sebbene io non mi ci sentissi più di tanto, me lo dicevano gli altri. Ora aiuta che vado per i 54 (è nato il 31 ottobre 1969) e non è più così importante, ma ricordo bene i provini in cui notavano il colore dei miei occhi e mi definivano “troppo bello per il ruolo”. Marco Bellocchio me lo disse chiaro e tondo, “sei troppo bello, troppo”. E infatti non mi prese. E pensare che ho questi colori chiari, ma io da piccolo sognavo di essere africano, nero. Lo dicevo continuamente, all’asilo, agli altri bimbi e alle maestre. Il punto, forse, è che in Italia non abbiamo un vero e proprio canone di bellezza fisica maschile. Mi viene in mente solo Gassman. Pensa a Mastroianni che di profilo non si capiva dove iniziava il naso, era tutta una riga, la sua avvenenza era nel carisma.

E Gassman se ci pensi dava il meglio al cinema con la maschera dei Mostri o de I soliti ignoti, perché si sentiva più sicuro: senza la bellezza a essere invadente si poteva permettere di essere sopra le righe, mentre assumeva una cifra più autoriale, più in sottrazione, più minimalista quando era “scoperto”.
A meno che non fosse a teatro, ma lì hai un rapporto diretto, fisico con il pubblico, è diverso.

E il suo rapporto con il teatro com’è?

Un rapporto purtroppo lontano, l’ultima pièce in cui ho recitato è di 20 anni fa. Calenda, Ronconi, Cuore cattivo che poi è diventato anche un film. Ci penso spesso, è stato un periodo molto bello e formativo. Potrei tornarci il prossimo anno. Magari con una regia teatrale.

Cuore cattivo, insieme a Senza pelle, nel 1994, sono i film con cui lei, con personaggi borderline, si impone all’attenzione di critica e pubblico. Cosa ricorda di quel periodo?

Ricordo che ero disposto a smettere. Lo dissi al mio agente, dopo gli anni di notorietà ottenuti con Il ragazzo dal kimono d’oro e Romualdo di Fantaghirò, dopo quella fiammata, quel periodo curioso e anche divertente, volevo qualcosa di più. Va bene il pop, però non mi divertivo. Non rinnego nulla, li faccio pure vedere ai miei figli (ora sono tre), semplicemente non era quello che volevo fare da grande. Gli dissi ‘voglio altro e se non arriva, quando finiscono i soldi cambierò lavoro’.

Otto mesi dopo arriva la chiamata di Alessandro D’Alatri, la vera svolta, per Senza pelle. E fin dal provino sentivo che quel ruolo era cucito addosso a me, sulle mie necessità e ossessioni interiori. Alessandro – che dolore la sua morte – me l’ha fatto sudare il ruolo, c’era qualche resistenza produttiva su un nome sconosciuto e anche su quello stile fortemente realistico di racconto.

Tutte caratteristiche lontane dal cinema italiano di allora, che puntava sempre sui soliti nomi e su autori respingenti per il pubblico o su opere commerciali che non di rado andavano sul trash, se si escludeva qualche commedia più elegante.

Ha ragione, Alessandro D’Alatri era un autore dallo stile raffinato ma non certo quel tipo di regista compiaciuto dei suoi silenzi, delle sue immagine statiche, di una farfalla inquadrata a macchina fissa per venti minuti. Uno di quelli che allora andavano per la maggiore, almeno nei salotti buoni. Raccontava storie forti, che sentiva addosso, perché lui stesso era un po’ “senza pelle”. Ricordo che entrai talmente dentro il ruolo – per fortuna e purtroppo sono un attore strasberghiano – che ho rischiato davvero di impazzire: agivo, parlavo, pensavo come Saverio. E mi muovevo come lui, la postura del suo collo, obliqua, innaturale mi ha creato un dolore che non mi ha mai più abbandonato. Quello fu un bivio importante, e pensare che a giocarsi il ruolo con me c’era un altro collega, bravissimo, di cui non dirò il nome. Lì il destino mi ha aiutato.

Da lì è iniziata la sua passione per i personaggi estremi?

Non ho mai capito se li scelgo già estremi o li estremizzo io, perché alla fine credo che solo così diventino interessanti, in fondo in Anche libero va bene c’è un padre che è apparentemente normale e poi si rivela ben più borderline di quello che potremmo immaginare. So solo che sono queste tipologie umane quelle che mi attirano.

Cosa l’ha spinta a passare dall’altro lato della macchina da presa?

Credo sia qualcosa che ho sempre avuto dentro, alla fine il mio agente si occupa soprattutto di registi e se non sbaglio la prima cosa che gli ho sottoposto non è stato un provino, ma un manoscritto, una sceneggiatura, quando ancora non c’erano i computer e passavo le notti a scrivere. La recitazione è arrivata dopo, è stata una scelta, per certi versi, innaturale, che ha sicuramente incontrato qualcosa di nascosto in me ma che non faceva parte delle mie ambizioni. Ma essendo uno molto tenace, mi ci sono dedicato con tutto me stesso. E solo dopo 15 anni ho iniziato a sentirmi a mio agio su un set, passati i 30.

In effetti Francesco Bruni racconta che per Cosa sarà ha preteso di riscrivere la sceneggiatura. Racconta che è stata la prima e unica volta in cui un protagonista ha insistito per togliersi battute e pose, invece che aggiungerne. Lei è da sempre, insomma, un attore autore?

Sono un attore che scrive il suo personaggio, a questo punto non posso negarlo, però non è sempre così. Lo dico perché sicuramente a qualcuno darà fastidio e ci vuole un attimo perché diventi un piccolo marchio. Non tutti hanno l’apertura mentale e la sensibilità di Francesco, che addirittura mi ha messo come collaboratore alla sceneggiatura nei titoli, io non ci avevo minimamente pensato. Ricordo pure che Gianni Amelio che per Le chiavi di casa la sera mi diceva ‘domani giriamo questa scena, questo monologo, scrivitelo tu’. Detto questo, ho incontrato anche tanti copioni che non ho sfiorato, penso al Pinocchio di Benigni in cui ero Lucignolo. Bisogna anche pensare che siamo in un cinema, in un sistema che va velocissimo, non ha mai tempo e spesso sul set si arriva con sceneggiature ancora precarie. Un tempo si scriveva per un anno, anche in 5, e a firmare erano nomi come Suso Cecchi d’Amico, Age e Scarpelli, Ettore Scola e altri geni. Ora c’è tanto, troppo spazio per l’improvvisazione.

Lei ha lavorato con un preadolescente bravissimo in Anche libero va bene. Difficile non improvvisare con loro, come ha fatto?

Alessandro Morace era l’unico che non aveva accesso alla sceneggiatura, gli spiegavamo la scena prima del ciak e lì succedeva qualcosa di pazzesco: la faceva, spesso con le stesse parole, come era scritta. E lì capisci che stai facendo un buon lavoro, se fai sprofondare un personaggio in circostanze date e lui reagisce come hai immaginato, vuol dire che il film sta funzionando.

In un ambiente feroce e un po’ meschino, non si trovato mai nessuno che parli male di lei. C’è chi la ama senza se e senza ma tra i colleghi, come Nicola Nocella. Qual è il suo segreto?

Mi sono appena commosso, non lo avrei mai detto. Di Nicola forse sì, perché ci siamo trovati benissimo.

Le scene tra lei malato e lui infermiere in Cosa sarà sono le più belle sequenze d’amore della storia del cinema italiano moderno.

Lui è un bravissimo attore ed è piacevolissimo lavorare con lui. E mi ha pure incontrato in una fase della mia vita in cui non ci metto, come sul set di Fantaghirò, due mesi a sciogliermi, ma socializzo più facilmente. Spero davvero sia reale quello che tu dici, perché il cinema è un mondo in cui il pettegolezzo è naturale.

Molti hanno parlato di timore reverenziale nei suoi confronti…

Che è un modo elegante per dire che pensavano fossi rompiscatole?

Può essere. A proposito di storie su di lei. Ma è vero che l’ha scoperta Pietro Valsecchi?

Verissimo. Ed è andata proprio come dice lui, mi ha caricato mentre facevo l’autostop, lui in quel momento era un pesce piccolo, non ricordo se fosse assistente di produzione o nel reparto regia come aiuto, ma mi guarda e mi dice che ho la faccia giusta per il cinema. E mi porta da Michele Placido.

L’uomo che la porta a ritrovare la fama di massa con Romanzo Criminale.

Che esperienza incredibile, anche per l’irripetibilità di tanti fattori concomitanti: lui, la storia, il cast, il momento storico.

Michele è una delle poche persone di questo ambiente a cui posso dire di volere proprio bene, ci siamo conosciuti a fondo negli anni. Mi vengono in mente i giorni bellissimi passati nella mia casetta in campagna, a San Giovanni in Tuscia, a scrivere, anzi riscrivere la sceneggiatura di Vallanzasca – Gli angeli del male, che non funzionava. Due o tre settimane in cui mi sono goduto un Placido in purezza. E lui è proprio come uno se lo immagina. Creatività dilagante e animo terrigno, era capace di farsi venire idee geniali e poi ti diceva ‘vado a fare la cicoria nel tuo orto, tu finisci di scrivere’. E mentre tu ti spaccavi la testa per mettere in ordine, domare il suo tsunami creativo, mentre scrivevi, lui tornava con la cicoria, un mazzo enorme, e la cucinava. Un’altra volta era la cipolla. Io sono più metodico, diciamo. Rido ancora ripensando al giorno in cui lui prende un arancio e nel frattempo parla, immagina, girando per il salotto. Il problema è che io a terra ho il cotto non trattato e quindi gli correvo dietro per asciugare, altrimenti rimaneva macchiato perché assorbe tutto. A un certo punto io non ce la faccio più e glielo dico, urlando. Il giorno dopo di arance ne aveva due. Bene, ora quelle macchie le venero e le conservo come opere d’arte. Michele è un bambino geniale e meraviglioso.

Il maestro Orazio Costa diceva che rimanere bambini è il modo migliore per essere attori, per giocare. E a lei piace farlo con i colleghi, è tra i pochi che, alla Christian Bale, non si risparmia neanche nei piani d’ascolto, uno di quelli che si dedicano al compagno di scena quasi più che a se stesso.

Dopo aver partecipato a I ragazzi della valle misteriosa (la serie tv che venne dopo quell’incontro con Valsecchi, ndr) ho fatto una scuola di recitazione teatrale di stampo accademico molto basata sull’egocentrismo, di quelle accademie quasi militari tutte mors tua, vita mea e non mi piaceva per niente. L’ho mollata e sono passato a fare una roba di psicoanalisi, un collettivo tutto basato sul conoscere se stessi e darsi a chi ti era vicino in modo totale. E ho scoperto la meraviglia del lavoro comune, la magia che si crea quando gli attori danno il meglio e il risultato è migliore e più bello della somma dei loro talenti.

Della sua carriera colpisce che recita da quarant’anni, ha interpretato decine di film (e ne ha diretti tre), ma non ha avuto problemi anche a stare a lungo fermo.

Ho sempre protetto la mia libertà di scegliere, anche quando questo ha voluto dire non fare cinema per due o tre anni. E sia chiaro, in una scelta del genere secondo me c’è anche del narcisismo, la convinzione che nel tuo lavoro ci sia un livello di qualità da proteggere, un’aspettativa che non va delusa. Essere selettivi è un po’ presuntuoso. Ora che mi fai questa domanda mi torna in mente un’immagine: io, single, nel mio appartamento che scrivo su un muro con la penna una riflessione sull’essere o non essere riconosciuti e questo mi fa pensare che un’esigenza di introspezione, riguardo me stesso e il mio lavoro, ci sia sempre stata in me. Il fatto di lavorare tanto per lavorare, per me, non poteva essere un tema e mi illudevo, con quel comportamento, di lanciare un messaggio al mio stesso mondo lavorativo. Ma allo stesso tempo ho bisogno che il mio lavoro sia riconosciuto e apprezzato e fare lunghe pause ti disintossica anche da certe logiche velenose. Essere, essere, essere, non apparire. Questo scrivevo su quel muro. Ecco perché non ho i social, ecco perché non andavo alle cene cinematografare degli anni ’80 e ’90, o alle feste in cui tutti andavano per trovare una parte. Un gioco scoperto che tutti conoscevano.

C’è un rimpianto nella sua carriera?

Guarda, tanti e nessuno, alla fine sei il risultato del tuo percorso. Ma avrei dovuto lavorare con Garrone, avremmo voluto e dovuto fare un film su Fabrizio Corona e poi Matteo ha cambiato idea.

Sto immaginando le riunioni di sceneggiatura tra lei, Ceccherini e Garrone. Fare Corona rende bene l’idea di quanto lei sia libero e audace nella scelta dei ruoli.

Con lui mi piacerebbe lavorare in futuro, stimo enormemente il suo lavoro e mi auguro che abbiamo solo rimandato l’appuntamento. Il punto è che io ho sempre aspettato il personaggio che mi chiamasse, che mi dicesse ‘ehi tu, abbiamo qualcosa da raccontarci, siamo connessi oppure talmente disconnessi da attrarci ferocemente’. Come Corona e Vallanzasca. Perché uomini così, interpretarli, ti cambiano la vita, ti costringono a scoprire un bioritmo esistenziale diverso, cose nuove e sconosciute. Ti allargano il raggio d’azione.

Vale anche per le regie? Lei ha sempre rischiato molto dietro la macchina da presa, pensiamo a Tommaso.

Credo di aver fatto il mio per provare a smuovere certi conformismi del cinema italiano, quell’opera, che non è stata molto fortunata – Amelio mi ha detto una cosa bellissima “quel tuo bellissimo film non l’hanno del tutto capito neanche quelli a cui è piaciuto” – ho provato a farla, scriverla, metterla in scena uscendo fuori dalle regole solite e statiche della narrazione cinematografica moderna, la tripartizione in atti, offrendo un protagonista con cui è difficile empatizzare e che ti mette in contatto con la parte più grigia di te, quella più difficile da accettare. Credo che a suo modo sia un po’ rivoluzionario, ma guardate che fine ha fatto. Non è piaciuto neanche a mia moglie.

Posso chiederle perché Ilaria Spada, sua moglie, l’ha stroncato?

Non può.