Sick of Myself, parla Kristine Kujath Thorp: “La gente non vuole essere famosa, vuole solo essere vista”

Per l'attrice norvegese, 32 anni, il tema del film di Borgli è la ricerca ossessiva di attenzione: "Non conta essere brutti o belli, non importa come si appare. Conta solo essere ammirati. Così si confonde la notorietà con l'amore"

Dopo un anno dal suo passaggio in anteprima al Festival di Cannes e la vittoria nella sezione Un certain regard, Sick of Myself è dal 5 ottobre nelle sale italiane. La protagonista è Signe, talmente bisognosa d’attenzione che inizia ad ingerire un medicinale illegale per farsi venire una malattia della pelle. Farebbe di tutto pur di stare al centro dell’attenzione del suo fidanzato e dei suoi amici, anche finire sul giornale locale pur di avere cinque minuti di notorietà.

La stessa cui cerca di sfuggire, invece, la norvegese Kristine Kujath Thorp, 32 anni, protagonista del film del connazionale Kristoffer Borgli e nel cast dell’opera in costume Bastarden di Nikolaj Arcel con Mads Mikkelsen, passata in anteprima a Venezia 80.

Sick of Myself tratta di narcisismo. Pensa sia una caratteristica degli attori?

Chi non lavora nell’industria crede che tutti gli attori e le attrici siano egocentrici o narcisisti. E penso anche che molti lo siano davvero. Ma conosco anche tanti amici che recitano, a cui non piace essere sempre al centro dell’attenzione. Sono persone riservate, me compresa. Ciò che amiamo del nostro mestiere è proprio la possibilità di poterci nascondere dietro qualcun altro, di essere ritratti come persone completamente diverse.

È il motivo per cui ha iniziato a fare l’attrice?

Sì. Insieme al rimanere bambina e al poter giocare come facevo da piccola con i miei amici. Trovo affascinante scavare nella testa delle altre persone, personaggi di cui amo studiare le menti. Soprattutto se non riesco a capirli bene la prima volta che li leggo sulla sceneggiatura.

E dopo che li ha capiti?

Mi sento grata. Perché sono in grado di entrare in contatto con qualcuno diverso da me. Amo la vita e recitare mi permette di viverne milioni. È estasiante.

Una scena del film Sick of Myself

Una scena del film Sick of Myself

Per essere celebri, quindi, non è necessario essere narcisisti?

C’è un’enorme differenza tra chi finge di essere un’altra persona davanti all’obiettivo di una camera da presa e chi, ad esempio, si atteggia sul red carpet. Io odio il tappeto rosso, ma amo recitare davanti alla telecamera. Posso capire l’attrazione per la notorietà, soprattutto in un’epoca come la nostra dove forse, anche grazie ai social media, è diventato più facile diventare famosi.

Ed è un male?

Non necessariamente. La verità, però, è che più che essere famose, le persone vogliono essere viste. Vogliono sentirsi importanti per qualcuno. Il problema di Signe in Sick of Myself è il fatto che è confusa su cosa sia l’amore. E, soprattutto, su cosa non lo sia. Ogni volta che riceve attenzioni si sente amata, ma è un’illusione, oltre che una strada pericolosa da percorrere. Sono sicura che Signe non sia l’unica a sentirsi in questo modo.

Non è nemmeno un po’ vanitosa?

Non mi sento vanitosa. Non sono attratta da quel tipo di attenzione. Voglio essere conosciuta, ma come attrice, non come Kristine in sé.

Non trova sorprendente che Signe, proprio in un’epoca in cui sui social si usano filtri per sembrare perfetti, danneggi volontariamente la sua pelle?

È la cosa più interessante del copione. Non preferisce essere brutta, è proprio che non le importa di come appare. Non si preoccupa di essere bella, non è ciò che vuole ottenere. La cosa più importante per lei è trovarsi al centro del cono di luce. Essere ammirata, questo è il suo scopo nella vita. Un obiettivo che finisce per stordirla, per renderla sempre più incerta.

E così finisce per deturpare la sua pelle. Come è stato recitare sotto tutto quel trucco?

Sarebbe stato impossibile realizzare Sick of Myself senza. La seduta durava ore, ma trasformarmi completamente in Signe, anche nell’aspetto, era fondamentale. Abbiamo girato in estate, non nego che fosse molto scomodo indossare la maschera, oltre che disgustoso. Non potevo toccarmi il viso, mi era impossibile mangiare, non potevo muovere troppo la bocca o le labbra si sporcavano di grasso. Potevo solo bere. Avevo caldo, sudavo, sentivo dolore in tutto il corpo. Ma quel disagio è stato utile, mi ha aiutato a calarmi nel personaggio. Avevo qualche problema con i fluidi corporei prima di girare il film, diciamo che ora li ho superati. Ho iniziato a pensare che siano persino belli.

Come Signe con la sua pelle.

Sì, per lei è un’opera d’arte.

Nonostante il dramma, la sua Signe ha una vena ironica. Anche in Ninjababy mostrava un lato comico. Si sente una persona divertente?

No, non credo proprio di esserlo. Lo sono solo con le persone che conosco davvero, il mio ragazzo o la mia famiglia. Sono molto timida. Devo sentirmi a mio agio con qualcuno prima di osare anche soltanto di tentare di essere divertente. Mi vedo più come una persona stravagante, più strana che divertente. Credo che le persone ridano più spesso di me, che con me.

Quando è sullo schermo le persone ridono con lei?

Di solito, se è così, è merito della sceneggiatura.

Una scena di Ninjababy di Yngvild Sve Flikke

Una scena di Ninjababy di Yngvild Sve Flikke

Che tipo di sceneggiature cerca?

Scritte da sceneggiatori che apprezzo e dirette da registi che ammiro. Voglio sperimentare sempre cose diverse. Mi annoio facilmente, ho bisogno di nuovi stimoli e adoro i processi difficili, quando si tratta di cercare il personaggio. E al momento mi ritengo fortunata, perché purtroppo non esistono tanti ruoli femminili che hanno una simile complessità. Vorrei esistessero molte più anti-eroine.

In Ninjababy la protagonista non vuole avere figli, almeno prima di aver sistemato la sua vita. In Sick of Myself, invece, Signe è alla disperata ricerca di attenzioni. Lei mette prima se stessa davanti agli altri?

È una domanda difficile. Sono appena diventata mamma, perciò sento che una parte egoistica di me si è appena spenta. Ma non dimentico la mia carriera. Penso che per vivere bene si debba trovare un equilibrio tra ambito personale e ambito privato. Va bene essere un po’ individualisti. Prendersi cura di se stessi contribuisce ad avere una vita felice, che porta a sua volta a prestare maggiore attenzione agli altri.

È nel cast di Bastarden, film con Mads Mikkelsen presentato in anteprima alla Mostra di Venezia e papabile titolo agli Oscar come miglior film internazionale. Come ci si sente all’idea di partecipare alla serata degli Academy?

È una specie di sogno d’infanzia che diventa realtà. Lo è già solo il fatto di aver partecipato a un film in costume, in una produzione enorme in cui ogni reparto prestava una particolare e minuziosa attenzione ad ogni dettaglio. Adoro Nikolaj Arcel ed è stato meraviglioso averlo come regista. Quando ho incontrato per la prima volta Mads, invece, mi sono sentita un po’ impacciata, ma dopo che ci passi del tempo insieme gli togli quella patina da divo di dosso e ti rendi conto che è una persona normale, con cui è davvero bello poter collaborare.

È fan dei film ambientati in altre epoche?

Ovviamente. Ho sempre sognato di poter prendere una macchina del tempo e tornare indietro nel Settecento, nell’Ottocento. Anche solo per sapere che odore, che sapore abbia quell’epoca. Di sicuro non invidio la biancheria intima che portavano le donne in quell’era. In Bastarden avevo un corsetto scomodissimo, che mi limitava nei movimenti.

Se Bastarden venisse candidato, sarà obbligata a fare il red carpet. Oppure no?

Fingerei di essere un’altra persona. Proverei a interpretare un personaggio che è lì per essere fotografato. Che strano lavoro, quello dell’attore. Non esistono altri mestieri in cui bisogna fingere di essere qualcun altro, mentre la gente vorrebbe conoscerti per come sei realmente.