“Vittorio De Seta ha girato un documentario come fosse un film. E Roberto Rossellini ha diretto un film come fosse un documentario”. La parola è di Damien Chazelle, anche la “carta bianca”. Una rassegna in tre appuntamenti al Cinema Troisi di Roma, ogni martedì dal 7 al 21 novembre, in cui al regista e sceneggiatore di La La Land è stata offerta l’opportunità di avere uno schermo, una sala e di poter proiettare qualsiasi film – o qualsiasi esperimento – gli passasse per la mente.
Sul pubblico sapeva di poter fare affidamento. Perché a prescindere da cosa Hollywood e dintorni abbiano potuto dire del suo Babylon – e di cose ne hanno dette, eccome – gli spettatori gli sono rimasti sempre fedeli. Anche se il botteghino non lo ha dimostrato (63 milioni di dollari, leggasi anche come: flop).
Chazelle, classe ’85 e originario di Providence, ha portato per il suo ultimo incontro il cortometraggio Isole di fuoco del 1954 del cineasta palermitano De Seta, premio a Cannes l’anno successivo e tesi antropologica sui pescatori della Sicilia e la vita ai piedi del vulcano Stromboli. Quasi un’introduzione al film successivo in programma di Rossellini, che a quel gigante di fuoco ha rubato il nome per il suo titolo.
Un po’ come la bella di King Kong che si trova di fronte alla brutalità della natura selvaggia, stavolta è Ingrid Bergman che deve affrontare la bestia, rappresentata dalla società retrograda dell’isola siciliana (“Questa non è vita da gente civile”, grida nel film), e dalla crosta terrestre da cui fuoriescono fumi e magma. Stromboli, del 1950 e sigillo dell’unione artistica e sentimentale tra il regista romano e l’attrice svedese da cui nacquero capolavori come Viaggio in Italia (1954) e Isabella Rossellini, chiude una lezione di cinema lunga tre settimane. O, forse, un esame.
Dal neorealismo alla Nouvelle Vague, nel segno di Chazelle
Un esame di cinema di quelli che si danno all’università. E Damien Chazelle riesce anche a fare un bel collegamento intertestuale. “Coloro che erano qui due settimane fa sanno che ho sostenuto che il cinema di Eric Rohmer è impensabile senza Stromboli”. Come in un grande cerchio che si chiude, Chazelle ha cominciato la sua tripletta di lezioni dalla Nouvelle Vague, passando per la sperimentazione di John Mekas, lituano nazionalizzato statunitense di cui ha fatto proiettare quattro corti, per finire a quello che, secondo il regista e la storia della settima arte, è l’inizio della grande rivoluzione cinematografica.
Un percorso in avanti per tornare all’origine. Era con Il segno del leone (Le sigle du lion, 1962) che il regista apriva il ciclo di rendez-vous. Ed è a Il segno del leone che Chazelle torna. “È una collisione tra la solita narrazione tradizionale in stile hollywoodiano, fatta di sfarzo e avvenimenti, unita a elementi crudi, disordinati, senza fronzoli. Come è la vita reale – prosegue il regista – In particolare, per Rohmer, si tratta della ricerca di Dio”.
La stessa di Karin (Bergman), mentre cerca di scappare attraverso le pendici del vulcano. Cadendo, disperandosi, inveendo contro il cielo, mentre in grembo porta il figlio di un amore mai sbocciato. “Dio, Dio mio. Aiutami!”, grida Ingrid nella scena finale. “È l’idea che Dio, o in qualunque modo lo si voglia chiamare, può essere e deve essere trovato in mezzo a noi. Rohmer trova questo in Rossellini ed è da qui che scaturisce il suo cinema cattolico, non in senso necessariamente letterale”.
Critici, tra passato (Stromboli) e presente (Babylon)
Mentre Damien Chazelle prova a portarsi a casa il suo trenta e lode affascinando la commissione – cioè, perdonate, il suo pubblico – per l’autore di Whiplash è arrivato il momento di far vibrare la folla, come i tamburi della batteria del protagonista Andrew Neiman, interpretato da Miles Teller. Munitosi di cellulare, il regista comincia a ricostruire il quadro critico che, negli anni cinquanta, aveva scritto di Stromboli – e apostrofando i giornalisti come degli “idiots” anche se, forse per pudore dell’interprete, non è stato tradotto.
Si parte dal The New York Times che definì il capolavoro rosselliniano “debole, inarticolato, poco stimolante e dolorosamente banale”, si passa poi a Variety e ai dialoghi da “scuola elementare” ed è infine il turno del Washington Post per cui Stromboli era “piatto, banale, inetto”. Chissà se è un caso che le stesse testate – molti molti anni dopo – scrivevano di Babylon, suo omaggio alla sgangherata storia della Hollywood classica, che è un film “deludente” (The New York Times), che i personaggi “hanno tutti dei monologhi sul perché i film contano, ma sono scritti quasi tutti in modo scadente” (Variety) e la narrazione del periodo inquadrato è “sontuosa, ma poco centrata” (Washington Post). Un caso. Sicuramente.
Le parole che Damien Chazelle sceglie per descrivere Isole di fuoco e Stromboli sono ben diverse. “Grazia”, “grandiosità”. Un cineasta che è rimasto, prima di tutto, uno studente. Un cinefilo, duro e puro. Quelle due pellicole sono “una sorgente da cui è scaturita un’intera generazione di cinema”, di cui lui stesso si è abbeverato e di cui, pur non notandosi ad una visione immediata, riempie i suoi stessi film. È la formazione di una serie di altri artisti. “E, questo, è il sublime”.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma