“Una vittoria storica”. Così Laura Muccino, casting director, 48 anni, commenta a caldo la decisione dell’Accademia del Cinema Italiano di istituire – a partire dal 2025 – il David di Donatello dedicato alla sua professione, dopo una battaglia di categoria durata 19 anni. L’Italia, grazie agli sforzi della U.I.C.D. (Unione Italiana Casting Directors), diventa così il terzo paese in Europa, dopo l’Inghilterra e la Polonia, a riconoscere istituzionalmente la figura del “cacciatore di talenti”.
“I BAFTA lo hanno ottenuto tre anni fa, in Polonia l’anno scorso – racconta Muccino, incontrata da THR Roma in occasione della proiezione del documentario Bonnie, sulla star dei casting Timmermann – Ma la battaglia per il riconoscimento è in corso in tutto il mondo. Ieri mi ha scritto David Rubin (casting director, fino al 2022 presidente della Academy of Motion Picture Arts and Sciences, ndr), per dirci che era molto contento. Ricevere un David significa anche contare di piu nel sistema produttivo, avere un peso per la richiesta dei finanziamenti dei film”.
Muccino, vita e famiglia nel cinema (i registi Gabriele e Silvio sono i suoi fratelli), è una delle casting director più importanti in Italia, scopritrice di volti oggi eccellenti (solo due esempi: il cast di Romanzo Criminale, quello di Gomorra), al lavoro – tra gli altri progetti – sulla miniserie Netflix Il Mostro di Stefano Sollima.
Lei dove li scova i talenti?
Bisogna conoscere quanti più attori possibili, andare a teatro, nelle scuole di recitazione, al cinema. Una volta individuato un attore, si fa una proposta al regista. Spesso siamo noi a fare i primi provini e il regista torna quando e se li richiamiamo, nel cosiddetto “call back”. Alcuni vogliono vedere gli attori più di una volta. Tipo Stefano Sollima. Con lui i provini sono corsi di sopravvivenza.
Negli Stati Uniti sono popolari i self tape (video girati dall’attore e inviati al casting). In Italia?
Il self tape ci permette di “vedere” più gente, è un vantaggio. Ma non può essere solo quello. Sia il regista che noi abbiamo bisogno di incontrare le persone dal vivo, valutare tutto, anche la loro capacità di muoversi nello spazio. Stiamo cercando di spingere di più per i provini dal vivo. Ma non so se tornerà come prima del Covid.
SAG-AFTRA, il sindacato degli attori hollywoodiani in sciopero, condanna i self tape perché “costosi”. Che ne pensa?
Da noi il problema non esiste. Anzi, suggerisco a tutti di farsi self tape semplici, col telefonino, senza telecamere o luci.
Le IA manipolano l’immagine degli attori: li sostituiscono efficacemente?
È una tecnologia rivoluzionaria. Io penso che alcuni prodotti, un certo genere di prodotti, specialmente commerciali, potrebbero usare molto bene questa tecnologia. Ma un attore in carne e ossa è insostituibile, la magia di un provino imprevedibile: il talento è analogico. Ed è giusto che gli attori protestino, si sentono minacciati.
Le IA toglieranno il lavoro anche a voi casting?
Per noi c’è un tema, quello di broadcast come Netflix o Amazon, che si basano sugli algoritmi per capire quel che – anche nel casting – può funzionare in termini di etnicità. È una cosa piuttosto controversa. Da un lato è giusto battersi per l’inclusività e per prodotti che rappresentino una società multiforme e multirazziale. Ma non deve essere un obbligo: il regista deve essere libero di scegliere chi vuole. In Inghilterra c’è un sindacato che raduna artisti di etnie, genere, abilità e disabilità diverse, che ha imposto una sorta di regola: se cerchi un attore non vedente, per esempio, il primo casting lo devi fare su artisti non vedenti. Se non trovi il volto giusto, puoi esplorare anche categorie senza quella caratteristica.
Le sembra una buona idea?
Sì. Apri delle possibilità, crei un mercato, permetti agli artisti di sentirsi considerati come tali. Ma lasci il regista libero.
Perché in Italia i personaggi di film e serie sono sempre bianchi?
Il cinema e la tv rappresentano la realtà sociale di un paese. E in Italia, rispetto a un paese come la Francia, siamo indietro. La verità: quanti avvocati cinquantenni afroitaliani conosciamo? Ancora troppo pochi perché il casting sia realistico. Quel che possiamo fare è forzare la mano, proponendo un ruolo senza specificare il colore della pelle. Cosa che abbiamo fatto e facciamo con le donne, quando è possibile, proponendo alle attrici personaggi di cui non è specificato il genere. Sul colore della pelle siamo ancora un po’ indietro. E non è che siamo messi bene in questo momento storico.
Fa politica col casting?
Come diceva Michela Murgia, la politica si fa con tutto.
È vero che in Italia lavorano sempre gli stessi?
Un falso mito, un problema dei distributori. Tra l’altro l’attore famoso e bravo non è detto che porti la gente al cinema. Forse Paola Cortellesi, Pierfrancesco Favino, Alessandro Borghi. Ma non è scontato. La serialità tv per fortuna ha smosso le acque: senza l’ansia del botteghino, ha permesso ad attori anche sconosciuti di avere un pubblico.
La polemica di Favino sul casting: gli italiani non vengono chiamati in ruoli, appunto, da italiani nei film americani. È d’accordo con lui?
Esiste un mercato. Se Michael Mann deve fare un film su Ferrari, e lo fa per il mercato mondiale e americano, e se pensa che Adam Driver vada bene, ha tutto il diritto di sceglierlo. Ci sono regole di mercato e regole artistiche. Mettere paletti a chi viene a girare in Italia mi sembra un autogol.
Esiste ancora la “faccia da protagonista”?
Fino a quindici anni fa, se non avevi canoni estetici rassicuranti, o una bellezza classica, non potevi recitare da protagonista. Al massimo facevi il caratterista. La divisione era netta. Oggi il canone è diverso: la bellezza è tale se esprime diversità. Il che vale soprattutto per l’uomo, che ormai ha sdoganato i canoni classici. Per le attrici è ancora difficile. Sa quante volte mi hanno detto: “non è abbastanza bella”?.
E lei che fa, glielo dice?
No. Non lo dico mai. Perché non lo penso. Mai.
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