Luc Besson è il cinema di genere d’azione ed europeo che riesce a colonizzare l’immaginario di una generazione e contaminare quello statunitense, in anni in cui l’impero USA colpiva ancora, ancora e ancora, da Bruce Willis a Steven Seagal, divi che regalavano muscoli e si trovavano sulla bocca battute che diventavano modi di dire, tra gesti iconici ed espressioni che sono rimaste nei racconti di spettatori e appassionati. Lui ha fatto tutto questo con eroine vendicative e purissime, ferite e dolcissime, selvagge e determinate.
E Dogman, nelle sale italiane per Lucky Red dal 12 ottobre 2023, è in fondo il suo manifesto, in cui ha fuso in un solo attore e personaggio le sue identità maschili e femminili, con un protagonista queer, Douglas, monumentalmente interpretato da Caleb Landry Jones, vendicatore violentissimo e al contempo elegantissimo e struggente emulo di Edith Piaf, uomo e donna, emarginato e mattatore di una vita sopra le righe.
Melodramma muscolare e indimenticabile, Dogman ha un interprete a cui non è andata, colpevolmente, la coppa Volpi che meritava all’ultimo Festival di Venezia e più di 100 cani, incredibilmente espressivi e talentuosi.”Anche se sei un bravo marinaio, il mare è sempre diverso ogni mattina. Non sai mai come sarà il mare. Ed è lo stesso con 115 cani, di cui mediamente 80 poi recitavano, a turno, ogni giorno. Vai al mattino, non sai mai come sarà: Caleb ed io arrivavamo sul set un’ora prima di girare per capire chi era più in forma, chi aveva più voglia di esprimersi, chi era più affettuoso. Non è poi così diverso che con gli attori! Devi solo affrontarlo e organizzare le situazioni in modo da essere pronto a tanti piccoli miracoli. Non avrai mai ciò che vuoi, ma spesso avrai qualcosa di magico che non ti aspettavi. E poi conoscendoli ne intuisci il carattere, le inclinazioni. Mickey, che voleva sempre mangiare, è diventato l’elemento comico, il grande lupo irlandese è il cane di mia mamma e in qualche modo ci ha aiutato, visto il reciproco rapporto di fiducia che c’è tra noi. In più il casting è partito da lui, dal rintracciare i suoi fratelli e le sue sorelle”.
E poi, in quanto protagonisti di scene d’azione, ci racconta che “un cane esercita una pressione per centimetro quadrato che è un terzo di quella di uno squalo, quindi in determinate condizioni possono farti davvero male, anche fratturarti un osso con il loro morso. Il fatto che spesso siano docili e fedeli, non vuol dire che non nascondano una forza anche spaventosa. Poi ovvio che per far sì che facessero paura, ho usato qualche artificio: con loro la macchina da presa rallenta, non va a 20 o 24 fotogrammi, ma a 25 o 26, e quel passo diverso li rende meno simpatici e più inquietanti”.
Il lavoro di Luc Besson con Caleb Landry Jones
Miracoli quotidiani che ha vissuto anche con il protagonista straordinario e commovente, una sorta di Joker queer che rimarrà addosso a tutti coloro che vedranno il film, con il suo dolore appassionato, il suo corpo che parla con ogni movimento, il suo viso che si piega a ogni emozione, sentimento, immaginazione.
“Il lavoro con Caleb è stato semplicemente un paradiso. Il suo enorme talento è pari alla sua umiltà e alla sua dolcezza, nella sua vita c’è la sua musica e ciò che interpreta, che recita, quando ci siamo incontrati e abbiamo parlato della sceneggiatura, siamo finiti a discutere della vita e dei massimi sistemi, come vecchi amici. E così è andata per sei mesi di duro lavoro, e non c’era giorno in cui lui non era a fuoco, in cui non era avido di curiosità, di informazioni. E mentre tu pensavi che doveva ricordare troppe parole, toni, sottotesti per una sola persona, lui ti sorprendeva e rendeva quelle migliaia di input qualcosa di eccezionale, unico”.
Il suo Doug è un’orchestra completa di ogni strumento in un solo elemento. “Il primo giorno di riprese aveva tutto sotto controllo e te ne rendevi conto da tanti piccoli dettagli: all’urlo ‘azione!’ ho visto che il suo Douglas era vero, perfetto. Uno shock del genere l’ho provato sul set solo con Gary Oldman in Leon, fanno parte della stessa famiglia di attori, dello stesso tipo di genialità”
Solitudine, emarginazione, rabbia, bisogno d’amore. Sono tutti fili rossi di una cinematografia, la sua, che ha unito action e melò più e meglio di chiunque altro. “Un artista è una spugna, credo che qui ci sia la sofferenza del mondo che ho captato negli ultimi anni e avevo bisogno di parlare di questo dolore, delle persone che per sensibilità e disperazione si caricano la gran parte di queste ingiustizie, quasi come agnelli sacrificali. Mi chiedo spesso come qualcosa di negativo abbia effetto su di noi: diventi migliore? Più cattivo? Se un bravo ragazzo, un’anima bella, viene ferito a morte, dentro e fuori, come reagisce? Doug aiuta la dottoressa che doveva aiutare lui. E alla fine, le fa anche un regalo”.
Sorprende come quest’opera che sembra eccessiva nel suo narrare un uomo che si si fa dog gangster, vendicatore che combatte il crimine con una muta di randagi, artista soave quanto può diventare crudele per difendere gli ultimi, sia ispirato da “una storia vera. La scoprii da un articolo di giornale. E da subito, leggendo del passato di quest’uomo, mi sono reso conto di cosa volevo parlare: nessuno nasce violento, la violenza non è uno strumento o un fine, ma una conseguenza, sempre. E nessuno è delinquente per natura, ma per necessità. Cerco di dare una forma e un colore a ciò che pensano le persone e capisco che di fronte alle enormi difficoltà con cui troppi di noi vivono questo mondo, si può impazzire. E non aiutano elementi esterni come il fanatismo religioso che diventano amplificatori del disagio e maschere che servono a giustificare questa follia”.
L’arte come salvezza, l’arte come ribellione
Ma l’arte, quella sì, può diventare salvezza. Persino per Doug, che prima con il teatro e poi con la musica trova qualche ora di felicità, serenità, diventa se stesso pur mettendo una maschera. “È così, senza la bellezza, la cultura, la creatività saremmo perduti: prima della politica, dell’economia, del potere milioni di anni fa c’era un uomo che dipingeva in una grotta. Tutto inizia con l’immaginazione e l’arte, è la prima forma di scambio e di altruismo. I soldi non salvano nessuno. L’arte sì”.
Certo, a vedere i suoi film, si sospetta che anche la violenza possa essere salvifica, se giusta. “Ripeto, la violenza è una conseguenza, deriva dalla miseria. Se non c’è miseria, allora non c’è violenza. In natura, fondamentalmente, gli animali, quando sono violenti, è perché vogliono mangiare, tutto qui. È una conseguenza orribile, sono d’accordo, ma non puoi ignorarla nel raccontare la condizione umana”.
Luc Besson tocca tanti temi sensibili della modernità, da sempre, rifiutando il conformismo del linguaggio e della rappresentazione che dagli anni ’80 in poi, progressivamente, ha contaminato molti tipi di arte, il cinema in particolare.
Fino ad arrivare al politicamente corretto attuale, spesso paradossale, a una cancel culture ottusa e parossistica. “Trovo amaramente divertente che sia proprio il cinema a esserne vittima, perché l’arte è l’unico paese in cui siamo fondamentalmente liberi, in cui puoi fare un quadro della dimensione che vuoi, usando i colori che vuoi, puoi dire e scrivere e girare quello che vuoi. Credo che abbiamo il diritto e il dovere di andare in una direzione ostinata e contraria rispetto a questa tendenza, gli artisti sono fatti per essere pazzi. Dobbiamo aprire le porte, non chiuderle, dobbiamo far vedere le cose, non nasconderle o edulcorarle. E anche quando pensi di poter essere andato oltre, possiamo affrontarlo. Ricordate quando Picasso mise per la prima volta un naso al posto dell’orecchio? Tutti a urlare ‘non è arte’, a insultarlo, poi ha semplicemente cambiato il modo di dipingere, immaginare, costruire bellezza per il secolo successivo. Dobbiamo rischiare, impressionarci, essere portati fuori dalla nostra vita dall’arte, che ha l’obbligo di farci vedere qualcos’altro. Il bello è che con la creatività non uccidi nessuno, quindi perché dover limitare chi crea?”.
I supereroi di Luc Besson
Dogman, ma anche underdog. Doug è un supereroe quando vuole ribellarsi al dolore, ma è un uomo solo e violato dalla vita e da quasi tutti gli esseri umani che ha incontrato nella quotidianità, dalla sorte che gli ha sempre negato la felicità, se non su un palco o in una fabbrica abbandonata con cani come compagni.
“L’aspetto interessante è che la nostra società finge sempre di essere aperta. Siamo una democrazia. Accettiamo tutti. E in realtà, ogni volta che qualcuno è diverso, viene messo da parte. E ciò che è interessante è che tutte le persone che sono diverse, qualunque sia la differenza, si riconoscono, si alleano. E questo è chiaro nel film. Le uniche persone che accettano Douglas sono le persone che sono diverse. Salma è un’insegnante di teatro e ama il teatro. È diversa. Ed è interessata a questo ragazzo perché legge molti libri. Quando va al cabaret, le ragazze sono diverse. E per questo lo vedono per chi è, non per la sua sedia a rotelle. I cani sono diversi. Lo accettano. Le persone diverse hanno una maggiore capacità di accettare la differenza”.
E Luc Besson non solo li riconosce, ma li ama, li racconta, li rende grandiosi. “Sono stato educato da mia madre e da mia nonna, da donne che mi hanno sempre detto che la differenza è una ricchezza. Era un mondo diverso, ora mettiamo il denaro al primo posto, pure prima di Dio. Alcuni mi hanno detto che Doug sembra un supereroe. Ma non ha soldi per comprare armature e macchine avveniristiche, né poteri soprannaturali. Può fare cose straordinarie solo con il cuore e il cervello. Come tutti gli altri miei antieroi: in fondo da sempre cerco di dire a tutti che possiamo essere supereroi ogni giorno, ognuno di noi”.
Luc Besson, il bambino che non vedeva la tv
Dogman sembra un meraviglioso compendio e moltiplicatore di tutto ciò che ama questo regista che ci regala da decenni favole rocambolesche e adrenaliniche, pazze e commoventi, nere e romantiche. Un insieme armonico di contraddizioni fertili.
“È divertente perché vengo da una generazione in cui si può mangiare sushi mentre si ascolta il reggae. E poi i miei genitori erano sommozzatori, sono cresciuto in Croazia, Grecia, Marocco e Italia, un po’ ovunque, seguendoli. Sono andato a scuola a nove anni per la prima volta, e a nove anni ho indossato il mio primo paio di scarpe. E la prima volta che ho avuto un televisore avevo 16 anni. Niente musica, niente cinema. Non esistevano immagini per me, né ruoli sociali e classi e apparenze. Per me eri importante per quello che facevi e dicevi, non per ciò che avevi. Non ho assolutamente una cultura cinematografica, ricordo che le prime recensioni parlavano di come citassi altri film, che io non avevo visto! Quindi, sì, sono un po’ eclettico e mi piace mettere tutto nello stesso momento, perché la vita mi ha insegnato a non risparmiarmi, a non limitarmi, desidero dare tutto quello che ho a un pubblico che per vedere un mio film prende la macchina, la parcheggia, spende soldi per il biglietto e per la cena, fa la fila, mi regala due ore del suo tempo. Non voglio deluderli. Sono così felice e orgoglioso di loro che è giusto restituirgli il massimo che posso. E poi i miei film sono come la vita. E la vita non è così ben organizzata, è caos, bellezza, dolore, passione, un insieme di cose anche e spesso in contrasto tra loro”.
E quando senti nel film Edith Piaf, quando la vedi su quel corpo sofferente indossato da Caleb Landry Jones, che urla con ogni centimetro e decibel che ha dentro “Je ne regrette rien” pensi che non possa esserci nulla di così bello, ma anche che probabilmente in quelle note e parole c’è tanto Luc Besson.
E ti commuovi anche solo a ripensarci. “Edith era perfetta per Dogman, perché ha così tante canzoni in repertorio e aveva un modo statico di stare in scena. E visto i problemi fisici del mio protagonista, avevo bisogno di lei, di certo non poteva impersonare Madonna. Poi certo con tutti quei capolavori in carriera, trovare le parole perfette per Doug nella sua produzione non è stato difficile. Non mi pento di nulla è il messaggio più bello, il migliore. Un ragazzo ha sopportato tutto il dolore del mondo e sta bene. Non ha rimpianti. Però ti confesso che anche io piango ogni volta che rivedo quella scena. Quindi non ti preoccupare, non sei strano. Sei solo diverso. Come Doug, come me, e questo film ci aiuta a riconoscerci”.
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