Uno dei tanti privilegi della mia vita è stato quello di lavorare con Marina Cicogna, anzi per essere precisi, per lei. Sono stato un suo consulente quando era a capo di Italia Cinema, l’agenzia che aveva la missione di promuovere il cinema italiano nel mondo. Fino a quel momento l’avevo solo incontrata di sfuggita a casa di amici comuni ed ero sempre rimasto colpito da un atteggiamento che appariva brusco, ma rivelava una necessità di dialogo e nell’intimo anche di calore.
Ovviamente ero rimasto affascinato dalla classe della contessa Marina Cicogna Mozzoni Volpi di Misurata, questo il nome completo, così come ero stato sedotto dalla sua eleganza, dalla bellezza, dai racconti delle sue impareggiabili frequentazioni jet set. Tuttavia questi elementi, specie quelli più apparentemente mondani, rappresentavano in realtà l’altra faccia di una personalità che aveva una profonda interiorità ed era segnata imprescindibilmente dal dolore.
Marina Cicogna, bellezza e sofferenza
La ricerca estenuata della bellezza, del piacere esclusivo e persino della forma fisica, era in realtà un modo di trasformare in catarsi il mistero della sofferenza, che la inseguiva da quando era bambina e aveva avuto il momento più drammatico nel suicidio del fratello Ascanio, detto Bino.
Certo, quando raccontava di feste leggendarie a New York o a Venezia, o ricordava gli anni hollywoodiani, dove aveva avuto come padrino Jack Warner, era difficile non godere della superficie dorata, ma anche allora, improvvisamente, in una battuta o una semplice smorfia, ti comunicava che tutto quello splendore era destinato a sciogliersi come l’incantesimo d’aria di cui parla Prospero nel finale della Tempesta. Non posso nascondere che mi divertivo molto a chiederle di raccontarmi tutte quelle esperienze, e non era certo un vezzo citare solo per nome gli amici che aveva frequentato abitualmente: Gianni, con cui aveva avuto una relazione, Orson, Luchino, Federico, Dino, Silvana, Pier Paolo, Audrey, Brigitte, Liz e poi Salvador, Calvin e perfino Ezra, inteso come Pound, che aveva frequentato a Venezia, e Herbert, pronunciato con perfetto accento tedesco, come il cognome von Karajan.
Era più complicato quando gli amici avevano nome comuni, ma col tempo ho imparato che per David intendeva O’Selznick, Charlie era Chaplin, Sergio era Leone, Franco era Zeffirelli e Maria la divina Callas. Sull’importanza che ha avuto come distributrice e produttrice è stato scritto abbondantemente, ma forse non sono stati sottolineati a sufficienza tre elementi che ne definiscono la personalità: l’assoluta libertà intellettuale con cui sposava progetti lontani dalle proprie idee, la caparbietà con cui è riuscita a imporsi come produttrice in un mondo rigidamente maschile, la capacità di divertirsi, direi persino di giocare, ma con quella serietà assoluta con cui giocano i bambini.
Una sintesi di questi tre aspetti è evidente nella decisione di produrre Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, con cui vinse un Oscar che non andò a ritirare, convinta che non ce l’avrebbe fatta. “Sono stata una scema”, diceva, perché non le mancava l’autoironia e la severità la esercitava in primo luogo con se stessa.
Detestava i pettegolezzi, proprio perché spesso ne era al centro
È stato scritto molto sulle sue storie con star del cinema quali Alain Delon e Warren Beatty, e soprattutto sui due grandi amori della sua vita: Florinda Bolkan e Benedetta Gardona. Detestava i pettegolezzi e ne parlo solo per sottolineare un altro aspetto: era infastidita quando veniva definita bisessuale od omosessuale, preferendo invece: una donna che ama con libertà.
Anche la definizione di produttrice le andava stretta, era orgogliosa delle sue fotografie, raccolte in un prezioso volume e detestava essere rinchiusa in un singolo ruolo, anche questo un modo di rivendicare la propria libertà. L’insegnamento più importante che doveva alla sua educazione cosmopolita era che non esiste, almeno su questa terra, una verità assoluta e si impara sempre qualcosa in ogni esperienza, a contatto con qualunque persona, specialmente quelle più distanti dalla propria educazione e tradizione.
Marina declinava questo altro elemento fondante della sua libertà intellettuale in una profonda curiosità che la portava a informarsi costantemente su quanto avveniva, soprattutto in campo culturale.
Era giovane, profondamente giovane, e non credo che si offenderebbe leggendo che era rimasta una bambina. Anche per questo voglio ricordare un ultimo aspetto: era una donna profondamente spiritosa, che non disdegnava la battuta feroce, pronunciata sempre con tono impassibile, perché una donna della sua classe sapeva non c’è mai bisogno di rinforzare i toni e i colori.
Mancherà molto, al nostro cinema e alla nostra cultura una fuoriclasse come lei e sappiamo che è anche grazie a Marina se, per citare ancora Prospero, “per gioco i funghi continueranno a nascere a mezzanotte.” E sottolineo il termine gioco, ringraziandola anche per questo e augurandole che “un gentil soffio gonfi le sue vele.”
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