Nanni Moretti compie 70 anni. Il regista e attore (e sceneggiatore, e produttore, ed esercente) è infatti nato a Brunico, in provincia di Bolzano, il 19 agosto del 1953. Forte del successo di critica e di pubblico di Il sol dell’avvenire, si accinge a debuttare come regista teatrale con lo spettacolo Diari d’amore, composto di due atti unici di Natalia Ginzburg, Dialògo e Fragola e panna (la prima sarà al Teatro Carignano di Torino il 9 ottobre).
Per fare gli auguri a questo splendido settantenne Hollywood Reporter Roma vi propone due testi che fanno parte del nuovo numero, appena uscito, di Bianco e nero, la rivista edita dal Centro Sperimentale di Cinematografia e da Edizioni Sabinae. Il numero 606, curato da Paolo Di Paolo, contiene scritti inediti di numerosi grandi scrittori, italiani e stranieri: Gaia Manzini, Alessandro Baricco, Giordano Meacci e Francesca Serafini, Sandra Petrignani, Marco Lodoli, Valerio Magrelli, Emanuele Trevi, Giuseppe Culicchia, Yasmine Reza, Eshklol Nevo. Vi proponiamo quelli firmati da Rosella Postorino, autrice di Mi limitavo ad amare te, e di Sandro Veronesi, due volte vincitore del Premio Strega con Caos calmo e con Il colibrì (in entrambi i film tratti da questi due romanzi c’è, come attore, Nanni Moretti).
Sandro Veronesi: Moretti, costante universale
“Sono disposto a credere alla teoria del Multiverso. Ma infatti, ma perché no? Infiniti universi paralleli fuori dal nostro spaziotempo, la pluralità dei mondi, il principium individuationis che si piega sotto il peso delle diverse circostanze cosmiche: noi che rimaniamo noi ma facciamo tutto, in un universo siamo ricchi, in uno siamo poveri, in uno riusciamo, in un altro falliamo, in un altro ancora non ci proviamo nemmeno. Sebbene questa teoria divida il mondo scientifico, perché non crederci? Cosa ci rimetterei? La letteratura l’ha già adottata da tempo, del resto, e non solo nella fantascienza. “E così le cose camminano insieme zoppicando verso l’unica possibilità”, dice Samuel Beckett in Murphy: e coglie nel segno – come sempre –, perché la cosa fondamentale, affinché il Multiverso abbia un senso, è che alla fine continui a esistere quell’unica possibilità, cioè che i miliardi di combinazioni possibili siano affratellati da alcune costanti universali. (Dicesi “costante universale” una quantità fisica che resta immutata nel tempo e nello spazio, per chiunque la misuri. Sono esempi di costante universale la carica elettrica elementare e la costante della gravitazione universale trovata da Newton, la Costante dei gas e la teoria della relatività generale di Einstein). Quelle devono rimanere immutate, in qualunque universo ci si trovi. E io sono propenso a credere alla multiversalità, a patto di introdurvi anche questa nuova costante: in ognuno degli universi paralleli, senza eccezioni, Nanni Moretti resta quello che è.
In uno io sono uno studente, in un altro un commesso di ferramenta, in un altro un architetto, o un insegnante di applicazioni tecniche, o un cameriere, o un magazziniere, o un giardiniere, o un infermiere, ma in ognuno di questi universi una sera del 1977 vado (o decido di non andare) nell’unico cineclub della mia città (o in uno dei tanti), in compagnia della mia fidanzata (o del mio fidanzato, o di un mio amico, o di alcuni miei amici, o di mio fratello, o da solo), a vedere Io sono un autarchico. E da lì in poi, proprio come la legge di gravitazione universale e le altre costanti, in tutti gli universi compariranno, uno dopo l’altro, Ecce Bombo, Sogni d’oro, Bianca, La messa è finita, Palombella rossa eccetera, a distanza di 2, 3, 3, 1, 4 anni l’uno dall’altro – eccetera. E non solo: per la completezza dell’equazione che individua questa costante, a un certo punto bisogna che Nanni Moretti, già regista, sceneggiatore e attore, diventi produttore e poi anche esercente, andando a completare quel Grande Slam di ruoli che nel cinema nessun altro mai ha saputo riprodurre. Questa costante, che nel nostro universo ha tenuto insieme il cinema italiano degli ultimi cinquant’anni, contribuirà, insieme alle altre, a tenere insieme anche il Multiverso nell’eternità – al quale Multiverso, lo ripeto, a questa condizione io crederò senza problemi. Diversamente, senza di essa, no: semplicemente, non mi riesce di concepire nessun universo senza il cinema di Nanni Moretti. Sarà un limite mio, che vi devo dire”.
Rosella Postorino: La messa è finita
“Buonasera, don Giulio, eccomi. È un bel po’ che non mi confesso, più o meno una decina d’anni. Sì, esatto, mi sono confessata anche dopo aver perso la fede – così, senza crederci davvero. Certe abitudini sono dure a morire, si sa. E poi, quando una persona si sente in colpa, è bello che qualcuno le dica io ti assolvo. Chi altro può farlo? Non gli amici, non lo psicanalista: può farlo il prete, gratis come un amico, ma con la professionalità tecnica del ruolo.
Perché oggi sono venuta a confessarmi? Non credo di sentirmi in colpa, o non più del solito. Volevo incontrarti.
Scusa se ti do del tu, ma ti conosco da tre decenni e darti del lei suonerebbe ridicolo. Quando ti ho visto per la prima volta, mai avrei immaginato che fossi un prete. Ti sei spogliato, ti sei gettato in mare e hai nuotato come se dall’isola volessi andartene a bracciate. Io ero a scuola, in sala video, e avevo quasi quindici anni. Tu eri sullo schermo. Era stato Luca a portare il vhs, a chiedere: prof, lo guardiamo? Il prof aveva annuito senza batter ciglio.
L’altro giorno ho chiesto a Luca di chi fosse stata l’idea, ma non se lo ricorda. Dice che voleva solo saltare la lezione e che il prof di filosofia era facile da convincere. Sì, ma Nanni Moretti venne in mente a te o a lui? Luca non lo sa, e lo fanno ridere queste domande di prima mattina poste con un ritardo di trent’anni. Io però voglio sapere chi è stato: perché lo avverto ancora, se mi sforzo di tornare in quella stanza, il sottile senso di straniamento davanti alla prima scena de La messa è finita di Moretti, quella lunga nuotata che pare una questione di sopravvivenza, mentre la musica si leva minacciosa.
Finito il film, non ci fu alcun dibattito. Io mi domandavo che cosa c’entrasse con i presocratici quel sacerdote senza risposte e senza pazienza, e mi aspettavo una spiegazione. Il prof non la ritenne indispensabile. Non ho mai parlato del film con lui, neanche quando, qualche settimana dopo, guardammo a scuola Bianca di Nanni Moretti. Neanche quando, un’altra volta, portò al cinema alcuni studenti, inclusa me, sulla sua Twingo viola. Però mi procurai le videocassette e, per tutta l’adolescenza e fino alla laurea, ho guardato a ripetizione questi due film di Nanni Moretti, di solito stirando, fino a conoscerne le battute a memoria.
Quel giorno, a pranzo, raccontai la storia a mia madre e mio padre, una scena dopo l’altra sino al finale, ma loro mi ascoltavano a intermittenza. Ancora non sapevo che quella mia folgorazione, per i miei genitori incomprensibile, fosse un segno premonitore del divario che sempre più si sarebbe allargato fra noi. Quel divario mi fa sentire in colpa da anni.
Sai, don Giulio, invecchiando mio padre è diventato dolce e io a un padre dolce non avrei mai pensato di aver diritto. È un uomo diverso rispetto a quando ero piccola, un po’ somiglia a mio nonno, che aveva paura del terremoto e del temporale, anche se mio padre di paure non parla mai. Nell’anno del lockdown ho capito che non poteva più proteggermi, che aveva abdicato al compito di proteggere chiunque; mi domando se almeno si senta sollevato. Io mi sento più sola. Ora chi ci pensa a me?, mi sono chiesta prima del tempo. Ho sempre avuto problemi con i cambiamenti, forse è questo il mio più grande peccato. Che poi è uguale al tuo. Ti ricordi quanto ti arrabbiavi con tua sorella, rea unicamente di voler mollare un fidanzato che tu stesso consideravi un cretino? Ti ricordi che strazio tua madre da sola, in lacrime, e tuo padre egoista come soltanto chi si è innamorato di nuovo da vecchio? Ti ricordi quanto ti accanivi con i tuoi amici della giovinezza, ognuno al cappio di un ideale o di un sentimento di cui pagava le estreme conseguenze? E tu che non sapevi confortare, che non sapevi perdonare.
Scusa, hai ragione, non devo permettermi di giudicare, il prete sei tu. Sei contento almeno che non ti stia rivelando i miei peccati sessuali, come tutti? Di questo, per quel che mi riguarda, non puoi lamentarti. Dicevi di voler sapere dei peccati contro gli altri – ma quelli è difficile riconoscerli, don Giulio, esplicitarli. E poi chissà se hai davvero voglia di ascoltarmi. Non sempre ne hai, anzi quasi mai. Al confessionale sei distratto, concedimelo, ti annoi proprio. Preferiresti spiarmi dalla finestra, vero?, tipo quello sciroccato del professor Apicella. Per lui le vite degli altri scorrono come storie su uno schermo cinematografico.
Non conosci Michele Apicella? Ma piantala, don.
Sai, a volte mi chiedo se non sia così anche per me. Se non preferisca anch’io guardare scorrere le vite degli altri da una certa distanza. Alla fine sono diventata una scrittrice, come sognavo a quindici anni, e pure a dodici, a esser sinceri – sebbene non lo dicessi, tantomeno ai miei genitori. Scrivere mi consente di stare al riparo dagli altri, e di indagarli con tutte le mie forze. Nello spazio racchiuso di un romanzo nessuno può nascondermi niente, e su quelle esistenze immaginarie, per quanto all’inizio mi sfuggano, se mi incaponisco a seguirle quasi fosse questione di vita o di morte, alla fine ho una forma di controllo. L’ordine che in Terra manca, nei romanzi è possibile. Parziale, sbilenco, ma possibile. Per di più i romanzi finiscono, come le messe. Anzi, sono meglio delle messe, perché il momento in cui finiscono lo decide chi scrive. La vita no, fa quel che vuole lei. Anche per questo è volgare – diceva bene il tuo amico Saverio. A proposito, sta meglio? Si è alzato dal letto o continua a non voler incontrare nessuno? Che fallimento dev’essere per un prete, per un amico, quel dolore incurabile.
Tu non lo sopporti, il dolore degli altri, ti fa arrabbiare, mi è chiaro. La tua vocazione alla felicità è ideologica, tendi a imporla con furia totalitaria, e in questa maniera rendi il mondo concentrazionario – ma a te che importa? Ti basta sedare le tue ossessioni per qualche ora, il tempo che si risveglino e ti schiaccino più di prima.
Continuo a parlare di te e non di me, è vero, scusa. Non mi trattengo. Forse perché anch’io ho cercato di intervenire sulla vita delle persone che amavo, e sono risultata arrogante. Se credi di sapere in che direzione gli altri debbano andare significa che ti reputi migliore di loro.
È che il dolore degli altri è difficile davvero da sopportare, mica solo per te. La vita è fatta per la felicità e non per il dolore, hai detto – verso la fine del film, o della messa. Perdonami, ma non riesco a crederci. E non perché la felicità sia una cosa seria, una cosa che, se c’è, dev’essere assoluta, come dice il professor Apicella: e sì che lo conosci, don Giulio! Il punto è che il dolore è più esteso, più ramificato, più resistente della felicità. La vita somiglia a una partita in cortile con troppi bambini, non trovi? Tipo quella in cui tu sei caduto lungo lungo sul cemento e sei rimasto lì, inerte, mentre loro ti giocavano intorno, e addosso. Non era crudeltà. Erano solo bambini, erano presi dal gioco. La vita ha questa innocenza, è presa dal suo gioco, e si scorda di noi.
Sarà per questo che non ho fatto figli. E non so se mi sento in colpa, di sicuro mi sento arresa. È triste morire senza figli, ha detto Apicella mentre lo portavano in galera, ma la cosa davvero triste, vorrei rispondergli, è che i figli possono morire, perché tutti quanti sono mortali. Se non puoi proteggerli dalla morte, i figli, allora darli alla luce significa condannarli. È un pensiero radicale, lo so, ma sono anni che mi batte in testa e non ho saputo fermarlo. Ci ho scritto sopra dei romanzi, senza nemmeno sceglierlo, tutto qua. Romanzi pieni di figli e di genitori. Potrei essere ciascuno di loro.
Non so se il prof di filosofia avesse figli, non li ha mai nominati. Nominava la barca a vela, invece; spesso alla lavagna faceva disegni per spiegarcene il funzionamento, ma io mi distraevo. Preferivo i presocratici, al contrario di Luca. E non credo che avessero molto in comune con il cinema di Nanni Moretti. Lui mi pareva più interessato agli esseri umani che alle origini del cosmo. Per questo lo sentivo presuntuosamente simile a me.
Il mio prof indossava un lupetto di lana azzurra e la giacca di pelle tutto l’anno, anche d’estate. Certe volte gli facevo una domanda e lui la prendeva per un’intuizione; entusiasta, scriveva sul registro 7+, come un premio. Secondo Luca lo era: mi dava di gomito mormorando che culo, ti ha messo il voto senza interrogarti! Io per quel 7+ mi disperavo, perché mi avrebbe rovinato la media. Il prof non sudava, ma forse in barca a vela il maglione se lo toglieva. No, non credo avesse figli, nemmeno lui.
Da piccola ero sicura che sarei stata madre, però mi figuravo anche suora. Mi piaceva tanto dire messa. Spesso, in piedi davanti al letto, officiavo il rito nella mia stanza vuota, più della tua chiesa all’inizio: neppure un chierichetto a farmi compagnia. La messa mi dava pace. Non so se, nel caso fossi nata maschio, mi sarebbe piaciuto diventare un prete, dividere con tanta nettezza il bene dal male. Del resto tu ci provi e la realtà ti delude, ti sbeffeggia, non puoi negarlo. E poi quella solitudine non l’avrei sopportata, in questo sono peggio di te.
La coppia, don Giulio, è una nevrosi, ma finché la società non la riconosce in quanto tale posso coltivarla senza dovermi giustificare. Ognuno in fondo si difende dal dolore come può.
Che c’è, hai fretta di assolvermi? Ti sei stancato, ho capito. Ah, devi celebrare l’ultima messa. Va bene.
Lo sai che al mio amico Luca piace fare il padre? Non se lo aspettava, e invece lo elettrizza. Quando siamo andati al cinema con il prof, alla Twingo viola mancava il sedile anteriore del passeggero. Lo aveva sradicato lui dopo che per la pioggia era marcito; aveva dimenticato il finestrino aperto e non sapeva più dove aveva parcheggiato la macchina, l’aveva cercata per settimane. Anni dopo è morto, e solo adesso che ci ripenso con te mi chiedo per la prima volta se sia stato felice.
Senti, don Giulio, un’ultima cosa. Ho sempre sognato di ballare in una chiesa. Perché anziché darmi l’assoluzione non esci dal confessionale e balli con me? Magari Ritornerai – te la canto io”.
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