In una scena del nuovo film di Natalie Portman, May December, l’attrice parla con una leggerissima zeppola, mettendo in scena un’interpretazione allo stesso tempo fragile e predatoria. Il personaggio di Portman in questa scena colpisce non solo per il suo disagio, ma anche perché è un’inquietante ricostruzione del ruolo che Julianne Moore ha interpretato per tutto il film fino a quel momento. Nel dramma di Todd Haynes, che sarà presentato in concorso il 20 maggio a Cannes, Portman è Elizabeth, un’attrice che fa ricerche per interpretare Gracie (Moore), una donna al centro di uno scandalo da tabloid vecchio di decenni, sposata con un uomo (Charles Melton di Riverdale) più giovane di lei di ventitré anni. May December è l’occasione per la star di film cupi come Il cigno nero e Léon di scavare ancora in una sua vecchia ossessione.
“Sono molto curiosa riguardo alla performance”, afferma Portman. “È un argomento che mi ha sempre interessato e su cui sento di tornare spesso nel mio lavoro. Mi domando: ‘Può l’arte essere amorale?’ “.
Il film, in cerca distributori al festival, è il primo della nuova società di Portman, la MountainA, con la sua partner produttrice francese, Sophie Mas. Grazie ad Haynes, MountainA debutta con il regista di attrici per eccellenza: il suo film drammatico del 2002, Lontano dal paradiso, è valso alla Moore una nomination agli Oscar; Cate Blanchett e Rooney Mara le hanno ottenute entrambe per il suo film del 2015, Carol; Blanchett ha anche ottenuto una nomination per il suo film del 2007, Io non sono qui.
Il progetto televisivo d’esordio di MountainA è quanto di più lontano possa esistere da May December a livello di tono, ma i due titoli sono accomunati dall’essere incentrati su donne al di fuori dei ruoli tradizionali. Angel City, una docuserie che debutterà il 16 maggio su HBO Max, segue il primo anno dell’Angel City Football Club di Los Angeles, la squadra della National Women’s Soccer League di cui Portman è co-fondatrice. Nella seconda metà dell’anno, la società distribuirà la miniserie Lady in the Lake, parte del suo accordo di prima visione con Apple TV+, in cui l’attrice interpreta una casalinga diventata giornalista.
Ad aprile, durante una lunga intervista a Los Angeles, Portman, 41 anni e madre di due figli, ha parlato con THR degli ideali guida della sua nuova società, di ciò che sta imparando dalla gestione di una squadra sportiva, di ciò che è andato storto con il movimento Time’s Up e del consiglio che darebbe a un altro attore bambino all’inizio della carriera: “Consideralo un gioco”.
Alla fine del film, quando il suo personaggio, l’attrice, interpreta il ruolo per cui si è preparata, lei in realtà sta interpretando Julianne Moore. Come si è preparata per questo?
Non avevamo tempo per le prove e sapevo che avrei dovuto trasformarmi lentamente in Julianne, senza sapere cosa avrebbe fatto. Non ne avevo idea. Mi chiedevo: “Farà qualcosa a cui potrò aggrapparmi, che potrò usare, imitare?”. E grazie a Dio è arrivata con un’idea completa di questa persona, che aveva anche aspetti molto caratteristici, come la zeppola, la sua voce e il modo in cui parlava. È stato davvero utile per avere qualcosa in cui il mio personaggio potesse evolversi.
Quindi non è che le ha mandato un messaggio prima, del tipo: “Puoi mandarmi un memo vocale di come interpreterai questo personaggio, così posso…?”.
Beh, ero decisamente curiosa, ma non la conoscevo ancora così bene. E poi non si può far pressione a un altro attore per farsi svelare tutte queste cose mentre ci sta ancora lavorando.
Quando ho visto che il film si intitolava May December, ho pensato che si sarebbe trattato di una donna più giovane e di un uomo più anziano. Le dinamiche di genere del film, che vedono una donna come aggressore in una relazione con una persona più giovane, erano parte di ciò che la interessava?
È sicuramente interessante vedere crimini generalmente commessi da uomini commessi da una donna. Sono le eccezioni alla regola a essere più interessanti: cosa spinge una donna a fare una cosa del genere? Mentre con un uomo tutti pensano: “Oh, sono tutti così”. È sicuramente una psicologia più specifica e più interessante.
Non potrebbe essere più diverso dalla sua docuserie Angel City in termini di tono, ma entrambi i progetti mettono al centro le donne. Se c’è un principio operativo per MountainA, questo ne fa parte?
Il punto di unione è: come possiamo vedere il maggior numero possibile di versioni diverse di donne sullo schermo? E credo che sia questo il punto in cui si arriva all’uguaglianza, in cui le donne possono essere qualsiasi cosa. Possono essere criminali, atlete virtuose, brillanti, non brillanti. Penso che quando c’è più varietà, più espressione, ci sono più possibilità.
Lei ha co-fondato Angel City con la venture capitalist Kara Nortman, che ha conosciuto grazie al suo attivismo, e con l’imprenditrice tecnologica Julie Uhrman. Come è arrivata a essere co-fondatrice di una squadra di calcio?
È una storia molto strana, ma mio figlio è davvero appassionato di calcio e quando aveva 7 anni, c’erano i mondiali di calcio femminili. E lui era appassionato come lo era stato per i precedenti mondiali maschili. Si appassionava alle donne come agli uomini, e mentre lo guardavo pensavo: “Questa è una rivoluzione, bambini che crescono idolatrando le atlete come idolatrano gli atleti”. Ed è così evidente che abbiamo delle star. Queste donne sono star assolute, e allora perché, quando giocano nelle loro squadre di campionato, nessuno sa che esistono? Abbiamo lo sport più popolare del mondo, le migliori giocatrici del mondo negli Stati Uniti, e sono completamente invisibili.
Ci sono dei parallelismi tra ciò che le atlete devono affrontare nello sport professionistico e ciò che le donne del mondo dello spettacolo devono affrontare in termini di barriere?
Sicuramente. La gente usa la prova del botteghino o dell’affluenza alle partite o del numero di spettatori per dire: “Ecco perché vi pagano di meno”. E ti viene da dire: “Beh, avete fatto la stessa pubblicità? Avete investito allo stesso modo? Avete fatto la stessa promozione? Avete dato gli stessi spazi?”. Per il calcio: “L’avete trasmesso nella stessa fascia oraria?”. Per il cinema: “L’avete distribuito nello stesso numero di sale? Avete speso lo stesso in pubblicità?”. Quando si investe allo stesso modo, allora si può dire: “Ok, metteteli uno accanto all’altro”. Bisogna dargli le stesse possibilità. Quindi mi sembra un mondo molto, molto familiare.
Cosa considererete un successo?
Beh, credo che sia già un po’ un successo. Stiamo facendo il tutto esaurito alle nostre partite. Abbiamo venduto 16.000 abbonamenti. La sponsorizzazione e gli accordi di trasmissione del campionato saranno fondamentali nella nostra definizione di successo. Poi, naturalmente, ci piacerebbe anche arrivare ai playoff e vincerli a un certo punto. Questo sarebbe un obiettivo a lungo termine, vedere la squadra prosperare dal punto di vista atletico. Insomma, il calcio maschile a livello internazionale è uno dei più grandi business al mondo. È la cosa più popolare ovunque si vada. Quindi portare le donne a quel livello di spettatori è l’obiettivo: renderle squadre da miliardi di dollari. È così che le donne vengono valorizzate come meritano, ma credo che ci siano tutti gli ingredienti per farlo e che si tratti del mercato in maggiore crescita nello sport in generale: avere lo sport più popolare, con un pubblico pronto e impaziente, e dare loro ciò che vogliono.
Come si è preparata MountainA a uno sciopero degli sceneggiatori?
Siamo consapevoli che molti dei progetti che stavamo lanciando o su cui stiamo lavorando sono in fase di stallo ora, ma ovviamente appoggiamo la decisione di scioperare. E vogliamo che gli sceneggiatori ottengano ciò che meritano. Speriamo per tutti che non duri troppo a lungo.
In Women Talking, l’anno scorso, Sarah Polley si è impegnata per avere un set che permettesse al cast e alla troupe di avere una vita familiare durante la produzione. Vede l’industria evolversi in questo senso?
È una cosa che vedo spesso in Francia e credo che sia il motivo per cui la nuova generazione di registi francesi è tutta al femminile, perché è concretamente fattibile. Non che tutte le donne abbiano figli o vogliano averne, ma è possibile essere registi, avere figli ed essere buoni genitori. C’è un forte apparato previdenziale che offre assistenza ai bambini e gli orari di lavoro sono normali. Abbiamo girato Jackie in Francia e ho partecipato anche a un film francese intitolato Planetarium. Ero a casa tutti i giorni per la cena alle 18:00, mi ha cambiato completamente la vita. Quando giri un film o una serie negli Stati Uniti, sparisci. Non ci sei più e questo è davvero difficile per tutti i genitori.
Come parlate a casa vostra del cambiamento climatico?
Ne parliamo molto in termini di come viviamo e di ciò che scegliamo di fare. Il mio veganesimo è in gran parte una scelta ambientale, oltre che per il rispetto degli animali. Da vent’anni non compro né uso pelle, pellicce o prodotti di origine animale. Utilizzo un’applicazione di car-sharing con auto elettriche. Compro abiti vintage, solo se strettamente necessario, e ovviamente riparo gli oggetti danneggiati. Quando viaggiamo, cerchiamo di organizzarci in modo da poter andare in treno o, se dobbiamo prendere l’aereo, di fermarci abbastanza a lungo da giustificare il viaggio. Anche la biblioteca gioca un ruolo importante nella nostra consapevolezza familiare: è un luogo in cui possiamo trovare gioia e una maggiore selezione condividendo e non possedendo. Si tratta di un processo, chiaramente imperfetto, ma la consapevolezza c’è.
La sua casa di produzione sta realizzando una serie, Lady in the Lake, basata su un romanzo poliziesco di Laura Lippman, per Apple TV+. Lei interpreta una casalinga diventata giornalista investigativa nella Baltimora degli anni Sessanta. Qual è la sua storia?
Credo che quasi tutte le storie di donne siano incentrate sul tentativo di liberarsi. Quindi lei cerca di liberarsi, ma non si rende conto che il suo processo di liberazione sta calpestando la capacità di un’altra donna di essere libera. Io e Alma Har’el, regista e co-sceneggiatrice, siamo state attirate da questa storia per la tragicità del fatto che le persone oppresse non sono in grado di riconoscere l’oppressione altrui, e che si può essere così presi dall’idea di dire “sono io l’oppresso” da contribuire all’oppressione altrui.
Lei è stata una figura chiave nei primi giorni del movimento Time’s Up, che era partito con tante promesse. Ma ora, a parte il Time’s Up Legal Defense Fund, l’organizzazione si è effettivamente sciolta. Secondo lei, perché è successo e cosa pensa del futuro dell’attivismo di genere a Hollywood?
È stato davvero straziante che Time’s Up si sia dissolta nel modo in cui si è dissolta. Credo che molte persone abbiano commesso degli errori, ma gli errori sono letali per l’attivismo. Si deve essere così perfetti per chiedere il cambiamento che si vuole vedere, e non so, forse riconoscere le nostre imperfezioni come esseri umani e dire che le persone possono fare qualcosa di sbagliato e anche essere brave in qualcos’altro. Avere un po’ più di sfumature di grigio potrebbe effettivamente permetterci di fare più progressi. C’era qualcosa di così forte nel riunire donne con esperienze simili e condividerle. Sono nate così tante cose straordinarie che credo che quelle relazioni siano rimaste e si siano trasformate in altri progetti incredibili, ma è comunque doloroso che Time’s Up non esista più come prima. Se un intero movimento non può esistere a causa di errori individuali o anche collettivi, penso che dobbiamo essere in grado di commettere errori e imparare da essi e permetterlo. È un ottimo meccanismo per mettere a tacere le persone in base a standard di perfezione, perché poi tutti pensano: “Beh, non dovrei dire nulla perché non sono perfetto”.
Come si sei sentita quando hai saputo che alcune donne avevano denunciato abusi sessuali da parte di Luc Besson?
È devastante.
L’ha sorpresa?
Sì, certo. Non avrei mai… Sì.
Ha detto “sì”, ma ha scosso la testa “no”, quindi vorrei solo assicurarmi di capire la sua prospettiva in merito. Luc è stato una figura fondamentale per la sua carriera e per quella di altre giovani donne. Pensa che ci sia stato qualche indizio che…
Non lo sapevo davvero. Ero una ragazzina e lavoravo. Ero una ragazzina. Ma non voglio dire nulla che possa invalidare l’esperienza di qualcuno.
Il modo in cui il pubblico ha accolto il ruolo in Léon è stato complicato per lei come giovane donna.
È un film che è ancora molto amato e la gente me ne parla più di qualsiasi altra cosa io abbia mai fatto. Mi ha dato la possibilità di fare carriera, ma sicuramente, quando lo si guarda adesso, ha degli aspetti a dir poco imbarazzanti. Quindi, sì, è complicato per me.
Nel corso degli anni è stata più volte a Cannes, in giuria, come attrice e come regista. Com’è stata l’esperienza per lei?
Sì, abbiamo presentato Star Wars: Episodio II lì, e io avevo la testa rasata perché stavo facendo V per Vendetta. Quindi quell’anno sono andato a Cannes con la testa rasata. Fu una cosa pazzesca. Avevo anche un film in concorso, Free Zone. È stato divertente. Tutti mi toccavano la testa, come fossi un portafortuna.
Ha qualche rituale a Cannes?
Mi piace andare a La Colombe d’Or e naturalmente al du Cap per bere qualcosa di elegante. E spero di trovare o organizzare una festa per ballare da qualche parte.
Cosa ne pensa della storia di Cannes con le donne?
Penso che sia qualcosa a cui stanno rispondendo ora, e sono felice che abbiano ricevuto pressioni in tal senso. Ovviamente vorrei che fosse molto più avanzato.
Quest’anno c’è il maggior numero di registe donna che abbiano mai programmato. Ma apriranno anche con un film di Johnny Depp, cosa che alcuni stanno criticando. Ha un’opinione in merito?
Non ho letto molto al riguardo. Ma si può sempre fare di meglio. Continueremo a spingere perché migliori.
Qual è la sua opinione sul Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu in questo momento? Cosa ne pensa dello stato della democrazia in Israele?
È terribile. Non l’ho mai sostenuto e sicuramente non è quello che i miei nonni si auguravano.
Ho l’impressione che, dato che è disposta ad affrontare questi argomenti e che sa di cosa sta parlando, le persone pensino che lei sia molto seria. Sono curiosa di sapere se la pensi così.
Spesso le persone mi dicono di essere sorprese dal fatto che io sia una persona un po’ sciocca. Ma la maggior parte delle persone che mi conoscono bene sanno che sono così. Alcuni si stupiscono del fatto che io scherzi prima di recitare in una scena molto seria, ma fa parte della mia natura. Devo lasciare il dramma per lo schermo. Questo non vuol dire che non ci sia un approccio serio al lavoro e attenzione. È solo che l’allegria aiuta il flusso e anche la sensazione di sicurezza e di comfort che mi permette di essere a nudo quando ne ho bisogno.
Quali sono i ruoli che vorrebbe interpretare ma che non ha ancora avuto?
Volevo davvero prestare la voce in un film d’animazione a cui sto lavorando ora e di cui sono davvero entusiasta. Non sono mai riuscita a farlo. E mi piacerebbe fare una commedia.
Quando vede giovani attori che iniziano a lavorare all’età che aveva lei quando ha iniziato, le capita mai di voler sussurrare loro qualche consiglio all’orecchio?
Sì, vorrei sempre dire loro di considerarlo un gioco più che un lavoro, perché non credo che i ragazzi debbano avere un lavoro.
Per lei è stato un gioco o un lavoro?
Era divertente. Da bambina sapevo sicuramente prendere le cose sul serio, ma mi piaceva molto. Mi è piaciuto davvero tanto.
Intervista modificata per ragioni di lunghezza e chiarezza.
Questa storia è apparsa per la prima volta sul numero del 10 maggio della rivista The Hollywood Reporter.
Traduzione di Nadia Cazzaniga e Pietro Cecioni
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