Al Festival du film italien de Villerupt ieri è stato proiettato in anteprima mondiale Zamora. Esordio alla regia di Neri Marcoré, è passato al vaglio di un pubblico appassionato ed esigente, un trionfo secondo chi era nella sala della cittadina francese (a pochi chilometri dal Belgio, dalla Germania e dal Lussemburgo): un tutto esaurito da 700 posti.
“Un trionfetto” dice un soddisfatto ed emozionato Marcorè, reduce da un dibattito lungo e coinvolgente, chiusosi solo per l’esigenza della programmazione di far partire un’altra opera in proiezione e perché di lì a poco lui avrebbe introdotto in un’altra sala il film. Umile, ma felice di quel successo, trionfale secondo diversi spettatori presenti in sala, senza diminutivi, il pubblico ha riso e si è commosso seguendo le vicende di Walter Vismara, che si trova a dover cambiare città e lavoro finendo a dover sottostare ai dettami di un principale ossessionato dal calcio, che lui sopporta a malapena (il calcio, ma forse pure il principale). “Un romanzo di formazione” afferma il regista, “una storia che avevo in testa da sempre”. E che fa sì che un (in)dolente bamboccione trovi un pigmalione in un ex grande portiere ora alcolista.
A sceglierlo, il film, è stata Sandrine Garcia, déléguée générale affiancata dai delegati artistici Oreste Sacchetti e Federico Pedroni. Lei ha una storia di cinema: fresca di laurea a Nancy, una ventina d’anni fa, chiede di far la volontaria per la rassegna. Ora la guida, insieme al polo didattico ad essa legata.
L’attore a Villerupt ha presentato la sua opera prima – tratta dal romanzo omonimo d’esordio di Roberto Perrone, uscito nel 2003 per Garzanti (nel gennaio di quest’anno l’autore si è spento dopo una breve malattia, a lui è dedicata il lungometraggio) – e Quando di Walter Veltroni, di cui è protagonista.
Zamora uscirà poi nelle sale italiane nei primi mesi del 2024.
Come nasce Zamora?
Era una storia che doveva diventare film da molto tempo, poi purtroppo come spesso accade nel cinema il progetto si è perso. Ma non la mia voglia di riprenderlo, così l’ho proposto a Saccà. Pensavo di metterlo su, scriverlo ma non di dirigerlo, immaginavo di darlo a un altro regista. Ma lui, invece, ha insistito e detto che sarebbe stato felice di produrlo se lo avessi diretto io.
Non che ci sia voluto molto a convincermi, sono sincero, era da parecchio tempo che sentivo il desiderio di cimentarmi come regista, ma non immaginavo di farlo con questa storia in particolare.
Vent’anni fa avrebbe interpretato lei Walter?
Ovviamente. Vismara nel romanzo ha circa 30 anni, ora non avrei potuto: ma è meglio così, mi sono comunque ritagliato un ruolo bello e importante ma non così centrale, sarebbe stato troppo difficile gestire un compito gravoso come la regia, oltre alla sceneggiatura e il ruolo di protagonista. E per la mia opera prima invece volevo tenere ben a fuoco il progetto generale.
È stato difficile quest’esordio dietro la macchina da presa?
No, perché ho avuto una grande fortuna. Ho arruolato tutte le persone che più ho apprezzato e ho conosciuto nei vari reparti, in questi anni in cui ho fatto l’attore. La mia fortuna è stata che fossero tutti disponibili, anche perché l’ho detto loro per tempo, e ho girato con la migliore squadra possibile.
E anche coloro con cui non avevo una conoscenza diretta si sono rivelati professionalità eccellenti.
Il casting come l’ha portato avanti? Come altri colleghi che hanno esordito negli ultimi mesi, ha preferito i talenti ai nomi.
Ci siamo confrontati, alcuni nomi li avevo, li avevamo immaginati già in fase di scrittura, come Giovanni Storti, Giovanni Esposito, Giuseppe Antignati, Pia Lanciotti, altri invece li ho scelti con un provino. Nel mio piccolo è una battaglia che combatto da sempre quella di non impigrirsi nello scegliere sempre le stesse persone, lavoro da anni e la porto avanti a nome di tanti attori e attrici con grande talento che sembrano però non avere mai spazio nemmeno per i ruoli più adatti a loro.
Per varie questioni spesso si preferiscono i nomi e le loro bacheche piene di premi rispetto all’aderenza al personaggio e alle qualità del singolo interprete. Il punto è che, soprattutto in un cinema come quello italiano, un brutto film difficilmente viene salvato dal divo e allo stesso modo è difficile che un buon film possa ottenere un insuccesso a causa del cast senza carriere altisonanti. Il problema, ovviamente, non è di chi accetta certe proposte, ma di chi le fa, delle pressioni di distribuzioni e produzioni che poi trattano il regista come se lui non volesse il meglio per un’opera che firma lui stesso!
Una pigrizia propria anche del pubblico?
Penso che lo spettatore tra la certezza del solito volto e la curiosità di scoprirne un altro, propenda per la seconda ipotesi.
Non succede forse così con molti film che vengono dall’estero in cui magari veniamo rapiti dalla bravura di qualcuno che non abbiamo mai visto?
Insomma, non è che ho composto il cast in modo ideologico, ho solo fatto la cosa più logica e semplice: prendere attori e attrici che mi dessero la sensazione che fossero giusti per il ruolo. E così sono arrivati tra gli altri Alberto Paradossi, il protagonista, e Marta Gastini, Anna Ferraioli Ravel, ovviamente il sottoscritto, Giovanni Storti e Antonio Catania, Walter Leonardi. E poi i camei generosi e brevissimi ma di cui sono felice di Giacomo Poretti e Ale e Franz.
La sua grande passione per il calcio – propria anche dell’autore del libro, genoano purosangue – quanto c’entra nella scelta di questa storia?
Guarda, sono sincero, qui il calcio è un pretesto. Certo, parliamo del pallone di cui mi sono innamorato quando ero prima un bambino e poi un giovane uomo, quello che aveva ancora una sua poesia, un suo romanticismo, non quello attuale che a tratti mi appare avvilente e mi entusiasma molto meno, che è più scontato e noioso e sa sorprendermi molto meno.
Qui il calcio serve come luogo di confronto di un mondo prevalentemente maschile nel quale il protagonista non vuole entrare, per un suo rifiuto naturale e per il rapporto con il padre. Mi serviva un agone in cui la competitività tipica dei maschi si producesse in modo naturale, mi servivano certi schemi emotivi e codici narrativi che questo sport ha.
Zamora è un romanzo di formazione di un giovane uomo che non ha ancora passato alcune fasi dell’età adulta, vive in provincia e ancora con i suoi genitori, deve ancora capire molte cose, arrivare a una maturità sentimentale. Non è neanche un’opera sul lavoro, qui raccontato come emblema di un’epoca, di un contesto aziendale in cui si vedono al meglio molti elementi di un’Italia felice, figlia del boom e che va verso il 1968, cosa che mi ha permesso di proporre personaggi femminili diversi, positivi e moderni, motivo per cui rispetto al libro ho spostato di due-tre anni l’ambientazione temporale del racconto.
Però un protagonista portiere non può essere casuale.
Non lo è, la figura dell’estremo difensore, di chi sceglie, in uno sport di squadra di confinarsi lì, da solo, mi ha sempre affascinato. Come il fatto che se fai un errore è irrimediabile e tutti ti puntano il dito contro, ma se pari la palla giusta diventi l’eroe più amato, entri nel mito.
È una figura ricca di spunti e di epica, ha una sua drammaturgia unica. E hai ragione, anche quello mi ha affascinato profondamente del libro.
Un altro suo grande amore è la musica. Come ha lavorato sulla colonna sonora?
Intanto voglio ringraziare il mio amico Gino, Gino De Crescenzo in arte Pacifico. Ha fatto un lavoro meraviglioso sui pezzi originali. Ci sono anche belle curiosità, come un pezzo che un gruppo canta e suona in balera e che io mi sono divertito a doppiare alla maniera un po’ di Bobby Solo e un po’ di Elvis Presley, la canzone si chiama Mamma non sai che disperazione. Ho voluto poi, per i pezzi di repertorio, essere filologico, anche se non tutti quelli usati erano già usciti nel biennio in cui Zamora è ambientato, il 1965-’66. Sui titoli di testa c’è Ma che freddo fa di Nada, l’ultima canzone è invece Il mondo di Jimmy Fontana. E poi, ancora, c’è Genevieve di Giorgio Gaber, Arrivederci di Umberto Bindi e Non son degno di te di Gianni Morandi.
Paola Cortellesi sta spopolando. Anche lei un’attrice, anche lei racconta una storia del passato. È un caso?
Sono felicissimo del suo successo, ho visto appena uscito in sala C’è ancora domani, sia Comandante proprio qui a Villerupt. E mi dicono che anche il lavoro di Claudio Bisio sia davvero buono. Mi riempie di gioia l’idea che escano film italiani che pur diversi tra loro facciano dire e pensare al pubblico che la qualità del cinema italiano sia alta. Non so se quest’attenzione al passato, a storie lontane nel tempo possa essere solo una coincidenza, ma ben venga se serve a sconfiggere i detrattori del cinema italiano.
Potrebbe essere che serva a dare una profondità di racconto e d’analisi, mi viene in mente che entrambi, Paola ed io, ci concentriamo su figure femminili che hanno qualcosa in più.
Lei lo fa meravigliosamente, mostrando una realtà di repressione del femminile, una storia lontana e pure attualissima, perché se allora arrivavano schiaffi, calci e pugni ora invece ci sono omicidi, femminicidi. Due facce della fragilità e dell’idiozia e dell’inferiorità dell’uomo.
Ho amato molto alcune scelte stilistiche come l’allegoria del ballo mentre Valerio Mastandrea, che fa il marito, picchia la consorte, Delia. La curiosità che ti posso raccontare è che anche io ho pensato, inizialmente, di fare Zamora in bianco e nero. Poi la produzione mi ha convinto a farlo a colori e devo dire che grazie a Duccio Cimatti, il direttore della fotografia, non me ne sono affatto pentito, sono così felice del film sotto il profilo estetico, è riuscito, siamo riusciti a restituire perfettamente quell’epoca, anche grazie ai reparti di scenografia e costumi. Hanno trovato un amalgama che ha dato un’identità bellissima e calzante al film.
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