«Un personaggio deve emozionarmi: è la prima connessione che cerco nei ruoli. Tutto parte da lì».
Parola di Patricia Clarkson, 63 anni, una delle attrici americane maggiormente versatili del panorama internazionale e celebrata, com’è successo al 57esimo Karlovy Vary International Film Festival, in Repubblica Ceca, là dove la incontriamo nel suggestivo e storico scenario del Granhotel Pupp. Fa parte della giuria principale del concorso.
È lei a sciogliere il ghiaccio, a ringraziare dell’attenzione. Il resto è un fiume in piena fatto di allegria e sorrisi, di voglia di svelarsi, di ricordi personali, di riflessioni e rimandi a film. Titoli come Monica, il film diretto da Andrea Pallaoro, in concorso l’anno scorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografia di Venezia, e che l’ha letteralmente illuminata. «Che esperienza meravigliosa. Mi piacerebbe lavorare in futuro con lui se me lo richiedesse», ci dice.
Una carriera trasversale quella della Clarkson, che ha attraversato storie, personaggi diversi, collaborazioni, tra gli altri, con nomi come Martin Scorsese, Sean Penn, Woody Allen, Lars von Trier, i fratelli Russo. A questo si aggiunge una nomination all’Oscar, esattamente 20 anni fa, come attrice non protagonista per Schegge di April, due Emmy e un Golden Globe vinti, ma che in fondo sono solo un “piccolo” tassello riguardo, invece, ad una donna di valore e valori.
Energia e curiosità sono le sue doti migliori, è d’accordo?
Sono entusiasta e sempre alla ricerca, perché è davvero quello che sono. Cerco delle sfide, come in Monica, in cui ero una donna morente e che prova ancora a lottare. Ecco, in quel piccolo momento, in quel film, è scattato qualcosa: la storia ha catturato davvero chi sono e cosa ancora voglio esplorare.
Nessun rimpianto se ripensa alla sua carriera?
Una volta che si inizia non ci si pente di aver fatto nulla, dal mio primo film, Gli intoccabili di De Palma, agli altri. Il fatto è che ho sempre cercato di lavorare con grandi registi, abbracciando belle storie, non importava se fossi o meno protagonista, o a supporto, volevo parti che mi portassero ad attraversare dei progetti, anche complessi, e che magari non conoscevo. Ed ogni volta mi sono detta “posso farcela?”
Recitare significa allora farsi delle domande.
Sono assolutamente d’accordo. Penso che decidere di essere un’attrice sia stata una forma di terapia per me.
In che senso?
Beh, sono una persona particolarmente emotiva, è così da quando ero una bambina piccola, il che mi ha portato, credo, ad affrontare la recitazione in maniera empatica. Posso capire i personaggi, il loro viaggio interiore ed emozionale. Guardi a Il miglio verde: lì interpretavo una donna malata, che alla fine rinasce grazie ad un uomo straordinario, capace di succhiarle via tutto il male che ha dentro. È un momento, ma c’è dietro una avvicinamento speciale.
La recitazione è un modo per liberare molto della mia anima. Credo di essere stata in grado di avere finora una vita bella, perché ho scelto anche questo tipo di lavoro, mi ha dato la possibilità di sfogarmi, di esprimere tutte le mie sensazioni, di diventare una brava fidanzata, una brava figlia, una brava sorella, una buona amica. Era nel mio DNA.
Lezioni e grandi Maestri. Uno su tutti è stato Scorsese, in Shutter Island.
Martin mi ha insegnato a non aver paura, a raggiungere le vette, a non avere inibizioni, e che recitare significa libertà.
Quanto è stato difficile ad un certo punto convivere con la celebrità?
La fama fa parte del gioco, l’essere travolti dall’affetto, avere una guardia del corpo solo per te, il che è un aspetto divertente per me, ma effettivamente è difficile perdere l’anonimato, o stare costantemente sotto i riflettori della gente. Io vivo un’esistenza molto aperta, non ho segreti (ride, ndr), non mi importa che le persone sappiano cose su di me, sono molto orgogliosa della vita vissuta, grata per gli uomini meravigliosi che ho avuto accanto. Non mi sono mai sposata, ma ho avuto relazioni incredibili che mi hanno reso una persona migliore, ho amici, sorelle artistiche, tutti coloro da cui sono stata circondata sono stati speciali. E poi ci sono i miei genitori, li ho ancora con me sa, hanno 88 anni.
Se guardo a tutto questo capisco quanto io sia fortunata.
Cosa ha imparato maggiormente dai suoi genitori?
L’amore. Mi hanno amato incondizionatamente, il che è raro. Mia madre era una potenza, ma comunque voleva che vivessimo i nostri sogni, che avessimo successo, mio padre adorava davvero fare il genitore, il padre. Abbiamo passato tutti i fine settimana insieme. Certo non avevamo tanti soldi, io sono nata a New Orleans, nella classe media americana. Non uscivamo la sera, se non per andare però in giro con i vicini, saltavamo sul trampolino, o sull’altalena, passeggiavo insieme ai nostri animali domestici, giocando sotto le grandi querce. È stata un’infanzia fantastica, ogni giorno.
Torniamo al cinema. In uno dei suoi prossimi progetti, Lilly, diretto da Rachel Feldman, interpreterà l’attivista americana Lilly Ledbetter. Che sfida ha rappresentato?
Passare da Monica a Lilly è stato un bel salto, è stata un’altra esperienza incredibile. La Ledbetter è una donna eroica, pochissime volte riesco a interpretare donne di questo calibro, in generale sono invece piuttosto complicate.
Lei ha aperto la strada, si è battuta, quando era in fabbrica, per quanto riguarda la discriminazione sul posto di lavoro e la parità salariale, oggi una legge porta il suo nome. Da allora è diventata una figura che si batte per l’uguaglianza al femminile. È venuta dal nulla, e ha cambiato le cose. Anche Obama, il grande Obama, uno dei miei eroi le ha dato il dovuto. Mi commuove, che alla fine, dopo aver lottato così duramente, abbia ricevuto finalmente il giusto riconoscimento.
La conosceva, immagino.
Sapevo così tanto di lei in anticipo, è un esempio in America per le donne.
Tutte abbiamo sofferto di disuguaglianza sul posto di lavoro, ogni donna ne ho sofferto a Hollywood.
Ci pagavano meno, e alla fine se la sono cavata, ma questo non deve accadere più. Stiamo cercando di trovare la distribuzione, è una pellicola realizzata in modo indipendente, ma non è rivolto a un gruppo specifico: ogni
donna americana, europea, russa, sudamericana, giovane e vecchia che sia, ne capirà lo spirito, la forza del messaggio.
A breve la vedremo in Gray, in passato è stata premiata in Six Feet Under a Sharp Objects. Quanto le piace la serialità?
Ogni personaggio è unico e ha il suo percorso ben distinto. Lilly è radicalmente diversa da Monica, o da Adora Crellin. Sharp Objects mi ha permesso in primis di collaborare con grandi sceneggiatori, per questo sapevo che dovevo essere all’altezza: lì ero una donna complessa, spaventosa, ma dovevo amarla fino in fondo. In Gray sarò una spia della CIA, che dopo 20 anni di clandestinità, aggira gli agenti del governo che la sospettano di essere una traditrice. La verità, nello scegliere, sta in un insieme di elementi, che mi devono coinvolgere sia in maniera creativa, che intellettualmente.
L’ultima battuta è sul cinema italiano. Oltre a Pallaoro, mi dica un altro regista che adora?
Paolo Sorrentino. Siamo stati in giuria al Festival di Marrakesh dieci anni fa, artisticamente “presi una cotta” per lui.
È davvero un regista incredibile. Il fatto è che amo gli uomini italiani. Fine della storia.
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