La star di Insidious: La porta rossa, Patrick Wilson, pensava di aver chiuso con il franchise horror, ma la saga non aveva chiuso con lui e con il suo personaggio.
Nel 2019 Wilson stava cercando un’opportunità per debuttare alla regia. Quando il co-creatore del franchise Leigh Whannell ha avuto un’idea per un quinto film di Insidious che prevedeva il ritorno della famiglia Lambert, l’agente di Wilson ha chiesto alla Blumhouse se l’attore potesse dirigere e recitare. Una cosa tira l’altra, e in un attimo Wilson si è ritrovato a fare brainstorming per la sua prima regia nel giardino di casa, con lo sceneggiatore Scott Teems. Quando la pandemia ha fatto deragliare il mondo e l’industria dell’intrattenimento, Wilson si è tenuto occupato come attore finché il film non è tornato in pista.
La porta rossa però era rimasta nei suoi pensieri: Wilson sognava a occhi aperti il suo debutto alla regia mentre recitava in Moonfall di Roland Emmerich (2022) e Aquaman e il regno perduto del co-creatore di Insidious, James Wan (in uscita il 16 dicembre).
“Non c’è stato giorno negli ultimi quattro anni in cui non abbia pensato a quel film. È la verità. Ogni giorno sul set di questi progetti, compreso Aquaman 2, rielaboravo e riscrivevo il copione”, racconta Wilson a The Hollywood Reporter.
Il film ritrova i Lambert un decennio dopo Insidious 2. Sotto ipnosi alla fine del secondo capitolo, Josh (Wilson) e suo figlio Dalton (Ty Simpkins), ormai diciottenne, non ricordano ancora nulla di ciò che hanno vissuto. Il loro rapporto padre-figlio si è raffreddato anche a causa del divorzio di Josh e Renai (Rose Byrne), oltre che per la loro storia passata. Così, nel tentativo di ricucire i rapporti, Josh accompagna Dalton alla sua scuola d’arte sulla East Coast, mentre i demoni del passato iniziano a riaffiorare.
Wilson ha una considerazione del tutto nuova per i suoi ex registi, visto che ora ha ben presente quanto i compromessi facciano parte della realtà di un cineasta. Ha dovuto battersi per l’inquadratura iniziale del film, perché non voleva fare nulla che somigliasse troppo o ripetesse gli jumpscare (le scene “clou” pensate per spaventare lo spettatore, ndr) maggiori del franchise.
“Non potrai mai riproporre il Demone del rossetto di Joe Bishara dietro la testa di Josh (da Insidious del 2010, ndr)”, afferma Wilson. “Non succederà mai più”.
Il film è partito bene al botteghino, raccogliendo 5 milioni di dollari nelle anteprime del giovedì 6 luglio.
Durante l’ultima intervista a THR le avevamo chiesto se stesse muovendosi qualcosa sul fronte di Insidious. Ha risposto con una pausa drammatica e qualche risata. Quindi la cosa stava prendendo forma da tempo?
Sì, è così. È stato esattamente quattro anni fa. Nel giugno del 2019 mi è stata proposta questa idea. Non avevamo ancora una sceneggiatura, ma avevamo un’idea, una visione. Avevamo solo 20 pagine e un sogno, poi ho iniziato a pensare ad alcuni spunti e al tipo di film che avrei voluto fare. Era un po’ diverso da quello che Leigh Whannell aveva proposto, ma la struttura era la stessa. Dalton (Ty Simpkins, ndr) frequenta un college da qualche parte lontano dalla California, e anche per lui il tema è quello della luce e dell’oscurità. Poi ho iniziato a scriverlo nella mia testa, e abbiamo coinvolto Scott Teems per dargli forma. Scott è venuto da me nell’autunno del 2019, si è seduto nel mio giardino e mi ha chiesto: “Che genere di film vuoi fare?”. Anche lui è un regista ed è una persona dolcissima. È un autore molto abile. Gli ho detto: “Voglio un rapporto padre-figlio e voglio che Dalton frequenti un istituto d’arte”. E così abbiamo iniziato a buttare giù queste prime idee. In tre anni di scrittura ho collaborato con lui in perfetta sintonia”.
Com’è nato il debutto alla regia?
È stato il mio agente a chiedere se ci fosse la possibilità. Mi è stato proposto. Sono venuti da me con un’idea per una storia. Prima di scriverla volevano sapere se i Lambert avrebbero accettato, perché avevo lasciato il franchise. Ma non c’è stato alcun rancore. Era tutto a posto. Aveva solo fatto il suo corso. Volevano che il film fosse incentrato su Dalton, ma mi chiesero di tornare per un paio di scene. In realtà è stato il mio agente a dire: “E se fosse Patrick a dirigerlo?”. Io e lui stavamo cercando dei progetti per una regia, la Blumhouse non lo sapeva nemmeno. Così hanno risposto: “Certo, sì. È un’idea fantastica. Non sapevamo che volesse farlo”.
A quel punto?
Sono andato a Los Angeles per incontrare il presidente della Blumhouse Couper Samuelson. Ho parlato al telefono con Steve Bersch della Sony (presidente della Screen Gems, ndr) e gli ho detto: “Se non vuoi fare questo tipo di film, va bene. Ma se devo dirigerlo, vorrei tornare indietro e affrontare quel che è accaduto alla fine di Insidious 2. Voglio parlare del trauma di questa famiglia attraverso un film horror”. E loro hanno risposto: “Fantastico, fallo”. È stata una fortuna.
Che tipo di film aveva in mente?
Mi piacciono molto le inquadrature simmetriche, che possono rendere una scena davvero inquietante. Lo faccio un paio di volte nel corso del film, lo avevo in mente fin dall’inizio. Mi piacciono i fratelli Coen, Wes Anderson, Steven Spielberg. Tutti autori che amo. Volevo anche un finale sorprendente. E una vasta gamma di emozioni nel film. Mi piacciono gli alti e i bassi, il melodramma. E soprattutto non volevo fare un film noioso.
Al contrario, cos’è stato quello che non aveva previsto?
Sono sicuro che i registi che leggeranno la mia risposta si metteranno a ridere. La quantità di compromessi cui devi sottostare nel realizzare un film ti porta a chiederti: “Ma come faccio?”. Ti senti dire: “La storia ha il via libera. Iniziamo la pre-produzione”. E poi arrivi lì e ti dicono: “Devi tagliare questo, questo, questo e questo”. E tu: “Ma avete dato il via libera al film!”. E loro: “Sì, ma non abbiamo i soldi per farlo”. E tu: “Ma avete autorizzato il copione”. Quindi, fin dall’inizio, non fai altro che compromessi.
A chi si è ispirato?
Ho preso spunto da diverse persone. Sono un attore, la mia regia non può che essere diversa da quella di James. È ovvio che adoro lavorare con lui. Guardo la sceneggiatura da dentro, non come alcuni registi che si limitano a dire: “Fai la scena in questo spazio”. C’erano molte inquadrature suggestive, che avevo in mente fin dall’inizio e che ora sono nel film. Quindi probabilmente mi sento più vicino a Todd Field o a Mike Nichols, molto diversi da me, ma simili per provenienza “sul campo”. Probabilmente ha a che fare con il modo con cui comunico con gli attori, ma anche il modo che ho di interpretare il testo.
Utilizza anche i filmati dei primi due capitoli: ha ottenuto l’accesso ai giornalieri per poterli inserire nelle nuove riprese?
Sì. Volevo utilizzare quell’espediente, ma in modo diverso da come James aveva fatto nel secondo film. Quindi, prima di iniziare a guardare i giornalieri, ho rivisto Insidious 2 e ho notato un paio di inquadrature dietro gli scaffali. Ho pensato: “Quello è il punto di vista di Dalton. Posso farlo tornare in quella stanza e metterci la telecamera. È lui che guarda”. Così ho affidato l’incarico al mio montatore (Derek Ambrosi, ndr), che certamente l’ha dato a sua volta a un assistente, per setacciare ore e ore di giornalieri, alcuni dei quali girati con una Red e una Canon. C’erano filmati di ogni tipo, è stata un’impresa. Derek un giorno è tornato da me e mi ha detto: “Ho trovato un’inquadratura in cui Ty guardava dritto verso la macchina da presa”. Ho pensato: “Oh, è perfetto. Ti prego, dimmi che è in quell’angolo posteriore della stanza”. E lui: “Sì”. E io ho pensato: “Ci siamo”. So che sembra strano usare una ripresa “avanzata” dal secondo film, ma quando ti capita un’occasione del genere? Ho iniziato a comporre la scena da quel momento.
Quando ha proiettato il film per gli autori del franchise, James e Leigh, quali sono state le sequenze che li hanno sorpresi di più?
Quelle del seminterrato e della lavanderia e le scene più drammatiche. Sapevano che avrei scelto un taglio diverso rispetto ai loro film, quindi per loro è stato particolarmente emozionante.
Ora ha il pallino della regia? Non vede l’ora di rifarlo?
Certo. Non l’ho mai pensato come un caso isolato, ma come il primo passo. Sto già pensando ad altri progetti.
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