È come un test di Rorschach: dite “Ryan O’Neal”, e il primo film che vi verrà in mente dirà che tipo di cinefilo siete. Se il film è Love Story probabilmente non siete cinefili – e cinefile – ma cuori infranti che avevano la giusta età nel 1970, quando quel super-strappalacrime incassò più di 100 milioni di dollari in tutto il mondo. Se invece dite subito Barry Lyndon, siete colti e amate il cinema d’autore, avendo apprezzato un capolavoro che all’epoca (1975) fu tutt’altro che un successo.
Se dite Ma papà ti manda sola? – o meglio ancora What’s Up Doc?, il titolo originale – siete cinefili compulsivi, e vi siete divertiti con una strepitosa screwball comedy – che era il remake di Susanna di Howard Hawks e un vero campionario di citazioni. Se scegliete Driver – L’imprendibile, siete cinefili raffinati, perché quel film di Walter Hill è uno degli action-movies più astratti e sofisticati che si siano mai visti. Se citate Paper Moon, avete un animo nostalgico e volete davvero bene a Ryan, che amava quel film anche perché accanto a lui recitava la figlia Tatum, futura moglie di John McEnroe (sì, Ryan O’Neal era il suocero di McEnroe!).
La carriera di Ryan O’Neal, morto all’età di 82 anni, è stata davvero singolare. È abbastanza difficile collegare i film appena citati, diversissimi l’uno dall’altro. Ed è difficile collegare i ruoli a un’unica faccia. Cosa lega il giovane belloccio di Love Story all’autista gelido e super-professionale di Driver? E cosa lega tutti quanti alla storia di Redmond Barry, avventuriero irlandese che nell’Inghilterra del ‘700 riesce a diventare nobile per poi tornare a essere un reietto? Forse è arrivato il momento di dirlo: O’Neal non era un attore con lo spessore interpretativo di un De Niro, o di un Marlon Brando, però era un interprete eclettico, un volto partendo dal quale si poteva andare in mille direzioni diverse.
Barry Lyndon
In Barry Lyndon non recita, agisce: e con lui agisce la Storia, che dà al suo personaggio le opportunità da lui sognate, ma alla fine lo distrugge. E non dimentichiamoci che in quel film O’Neal interpreta in modo toccante una delle tre scene commoventi di tutto il cinema di Kubrick, quella in cui sta al capezzale del figliolo morente (le altre due sono la canzone finale di Orizzonti di gloria, cantata da colei che diventerà la moglie di Kubrick, e la sconnessione di HAL 9000 in 2001, ovvero la morte di una macchina).
In realtà, dovessimo trovare la chiave più giusta per parlare del Ryan O’Neal attore, dovremmo definirlo un light comedian, un attore brillante. In What’s Up Doc? (non riusciamo a usare l’assurdo titolo italiano) rifà sostanzialmente il Cary Grant di Susanna, un uomo intellettuale, imbranato e pacifico la cui vita viene sconvolta da una donna pazza e spaventosamente sexy (Katharine Hepburn nel film di Hawks, Barbra Streisand nel remake di Bogdanovich).
È un ruolo persino ingrato, perché è Streisand a fare le cose folli e a strappare le risate, ma è fondamentale, perché film del genere funzionano solo se il comprimario (apparente) è perfetto, se è il giusto punching-ball per i cazzotti della protagonista. La metafora pugilistica non vi stupisca: O’Neal da giovane era stato un buon pugile dilettante, le sue biografie gli assegnano un record di 18 vittorie (13 k.o.) e 4 sconfitte e la leggenda vuole che una volta Muhammad Ali gli abbia fatto i complimenti per come boxava. La scena di Barry Lyndon in cui, arruolato nell’esercito inglese, sconfigge a cazzotti un commilitone molto più corpulento di lui è assolutamente realistica. Tra l’altro era mancino, quindi era quello che gli americani chiamano un southpaw, notoriamente i pugili più difficili da affrontare.
Mera curiosità: è mancino anche Robert Redford, l’uomo che gli contese il ruolo in Barry Lyndon. La storia di come Kubrick scelse il protagonista è davvero curiosa. Il progetto era assai costoso, come sempre per i film in costume, e la Warner pose come condizione per finanziarlo che Kubrick scegliesse il protagonista maschile fra i dieci attori in testa al box-office nel 1973 (l’anno in cui il film entrò in preparazione).
Ebbene, la classifica di quell’anno diceva: 1. Clint Eastwood. 2. Ryan O’Neal. 3. Steve McQueen. 4. Burt Reynolds. 5. Robert Redford. 6. Barbra Streisand. 7. Paul Newman. 8. Charles Bronson. 9. John Wayne. 10. Marlon Brando. Gli unici papabili per il ruolo sembravano O’Neal e Redford, per età e per fisionomia. Il gossip hollywoodiano racconta che Redford ricevette la proposta per primo, ma la rifiutò. È naturalmente lecito chiedersi come sarebbe stato Barry Lyndon con Redford nel ruolo eponimo, ma in fondo è anche ingiusto: Redmond Barry, poi Barry Lyndon, è un uomo senza personalità, totalmente identificato nelle sue azioni, e la recitazione essenziale di O’Neal risulta, a posteriori, perfetta.
Love Story
Paradossalmente il film in cui l’attore sembra meno a suo agio è Love Story. Anche perché, si può dirlo, O’Neal non era affatto il bamboccio di una famiglia straricca del New England: veniva da una famiglia di cinematografari (è uno dei pochissimi attori NATI a Los Angeles!) di origini irlandesi e di relativo successo, quindi possiamo dire che apparteneva alla piccola borghesia hollywoodiana, qualcosa di non lontanissimo dal white trash, altro che l’aristocrazia East Coast di Oliver Barrett IV! Era sicuramente più “in parte” interpretando un venditore di Bibbie imbroglione (Paper Moon) o il membro di una banda di rapinatori (Driver). E comunque, pur con quella faccia così bella e rassicurante, era sempre credibile. Anche nei tanti, piccoli ruoli interpretati dopo la grande stagione del successo.
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