Tutti sanno che ha fatto Mare fuori, non tutti che ha studiato recitazione all’estero. Molti la vedranno in Romeo è Giulietta di Giovanni Veronesi, ma forse non altrettanti sanno che aspira a scrivere “il mio Amadeus”. Serena de Ferrari, nata a Torino e una formazione tra La Boheme di Puccini con l’Accademia Santa Cecilia e in futuro la serie Belcanto di Carmine Elia sulla Rai, è stata Viola nella serie-fenomeno sui giovani carcerati nell’IPM di Napoli e affianca ora Pilar Fogliati, che le ha insegnato come singhiozzare in modo reale (“Mi ha detto di ridere e aveva ragione”), nella commedia in sala dal 14 febbraio.
E, nel frattempo, aspetta per lo schermo un ruolo da musicista, magari come la Lydia Tár di Cate Blanchett.
Com’è stata la preparazione per diventare Giulietta?
Molto divertente. Per il provino ho dovuto portare un monologo da, sorpresa sorpresa, Romeo e Giulietta. Non avendo mai recitato in una pièce classica mi sono chiesta: da dove devo cominciare? Allora l’ho imparato a memoria e mi sono buttata. Mi sono ritrovata davanti a Giovanni Veronesi che ha colto subito cose di me che è difficile capire nell’immediato. Poi ci siamo fermati e mi fa: non hai tecnica, fai molte cose sbagliate, ma hai istinto, sei un’attrice di istinto.
Le è dispiaciuto sentirsi dire che non ha tecnica?
No, perché so che è vero. Il monologo di Giulietta era molto difficile, oltre che inflazionato. Non ho mai studiato testi classici e non ho l’arroganza di improvvisarmi attrice di teatro in due giorni. Giovanni mi ha subito compresa e a colpirlo è stato il mio fare bizzarro.
Però recitazione l’ha studiata. Tra l’altro a New York, alla Lee Strasberg Theatre and Film Institute.
Sì, ma non abbiamo mai messo in scena Shakespeare, eravamo più improntati sul teatro contemporaneo. Tra i testi più recenti che abbiamo portato sul palco c’era Henrik Ibsen.
Nessuna affinità con il Bardo, dunque?
In verità è dopo una rappresentazione dell’Otello vista durante il liceo al Globe Theatre di Villa Borghese che ho capito di voler recitare.
Ha ripreso in mano i lavori di Shakespeare?
Tantissimo, da quando sono stata presa per il film. Mi sono riletta Romeo e Giulietta, ovviamente, ed è impressionante come la percezione di uno stesso libro può cambiare se lo leggi da ragazzina o quando stai entrando in una fase più adulta. Al momento sono molto più distante da quell’idea del primo amore che senti in maniera forte e incontrollata, quando sei più piccolo e pensi che non proverai mai più gli stessi sentimenti per tutta la vita. Quando l’altra persona è il tuo mondo e poi vieni deluso. Lì diventi grande. Il che, spesso, coincide anche con l’incontro con la disillusione. Per questo per interpretare Gemma ho dovuto ritrovare l’innocenza e la totale fiducia nell’amore, senza pregiudizi e senza malizia.
Ha un drammaturgo di cui le piacerebbe interpretare una storia o un personaggio?
Ho da poco scoperto una passione tutta nuova per Tennessee Williams. Non solo per i classici, provo una fascinazione anche per le opere sconosciute, rimaste di nicchia, come The Case of the Crushed Petunias. Incredibile. Quasi un one woman show. Un dramma sopra le righe su una donna che perde la testa nel cercare di capire chi ha distrutto le sue petunie. Ha dei monologhi difficilissimi, ma se ci entri dentro ci sei. La mia pièce preferita, poi, è Blackbird di David Harrower, scritta tutta come fosse una canzone in rime. C’è anche la trasposizione cinematografica, Una di Benedict Andrews. La storia sconvolgente di un uomo che si innamora di una ragazzina di tredici anni. Uno studio psicologico che ti porta addirittura a empatizzare con i personaggi. Ti fa domandare: si amano davvero? È possibile? Ma è tutto merito dello scrittore e dell’introspezione che riesce a smuovere in chi legge o guarda.
La recitazione, tra l’altro, è arrivata in seguito ad un altro suo talento, ovvero il canto lirico. Come si spiega questa scissione?
Non me la spiego. La vivo come diceva Wagner, che trovava nell’insieme di musica e immagine l’opera d’arte totale. Ho iniziato a suonare il pianoforte a quattro anni, a otto sono entrata in conservatorio e ho cominciato a far parte del coro delle voci bianche. Preferisco far coincidere queste due passioni, non separarle.
Magari provando con i musical?
Per niente. A Broadway magari. Lì sono un’altra cosa. In Italia non penso mi interesserebbe.
Potrebbe interpretare una musicista.
Sarebbe più un sogno che una sfida. Ultimamente ho visto Maestro di Bradley Cooper e ha fatto un lavoro che lo ha portato fuori da sé. Ci vuole coraggio a impersonare un direttore d’orchestra che ha studiato minimo quindici anni prima di aver assunto quel ruolo e che, nel caso di Leonard Bernstein, si è rivelato essere un genio. Ha imparato e imitato la gestualità del personaggio mettendo chiaramente a fuoco ogni suo particolare. Non è una cosa che si può fare da un giorno a un altro. Come se mi chiedessero di fare ora Maria Callas.
Di cui a breve uscirà il film con Angelina Jolie diretto da Pablo Larraín.
Infatti non vedo l’ora di vederlo. Ecco. Se dovessi scegliere, per il grande ruolo della mia vita, mi piacerebbe interpretare una musicista. Magari una direttrice d’orchestra. Come Cate Blanchett in Tár. Sogno di scrivere un film che celebri la musica come ancora non si è fatto. Che crei un ponte tra l’oggi e le melodie classiche, antiche. Sì, un giorno vorrò fare il mio Amadeus.
La musica può essere una valvola di sfogo con cui esprimersi, che può aiutare a mantenere salda la propria salute mentale. Quella del personaggio della sua Viola in Mare fuori era troppo fragile. Perché si arrabbia se definiscono il personaggio “pazzo”?
Perché si dovrebbe andare oltre. Io stessa seguendo la psicoterapia ho capito che ciò che si voleva raccontare con Viola è che ci sono persone che, purtroppo, non riescono a oltrepassare il proprio senso di disagio. Io, fortunatamente, sento che posso guarire ogni giorno di più. Non esiste più il tabù della terapia, mentre molti hanno ancora paura di ammettere che hanno un problema. Viola era l’unico personaggio di Mare fuori che affrontava la malattia mentale, e il fatto che spesso venga trattata con superficialità è visibile dalle diagnosi infondate e in malafede che si sono fatte parlando di schizofrenia.
Eppure non pensa che proprio grazie a personaggi come Viola si stia aprendo un varco verso la consapevolezza della propria salute mentale?
Nelle generazioni giovani tantissimo, purtroppo resta la paura verso i genitori o gli adulti. È ancora molto frequente sapere di un figlio che va dalla propria madre per spiegarle che non sta bene e riceve come risposta: ma no, non hai niente. Dopo Mare fuori sono stata invitata in tv, all’università e in diversi ospedali per parlare di salute mentale. Un giorno, dopo un’intervista su Sky TG24 insieme a un neurologo, ho visto dei ragazzini andare a domandargli come potevano chiedere aiuto. Volevano essere rassicurati, non sapevano come rendere partecipi gli altri del loro star male, non è come quando hai un braccio rotto che basta mostrare.
C’è un film o una serie che l’ha colpita per come affronta un simile tema?
Uno degli ultimi è stato The Whale, l’esempio lampante della malattia mentale, fatto in maniera divina. È un film che ti dice a chiare lettere la verità: la depressione non mente, la depressione è mortale. L’obesità in sé è legata alla malattia mentale, il protagonista è talmente depresso che non ha altri modi di riempire il vuoto se non uccidendosi col cibo. Un film raccontato con tale fastidio e realtà da fare eco al dolore.
Le dispiace aver dovuto dire addio a Viola? Visto il valore che ha avuto per lei e altre persone.
Sono andata in posti bui durante questi anni. C’è stato un grosso lavoro dietro, che non esula dal divertimento, ma che dopo tre anni ti fa capire che è il momento di dire basta. L’importante, per me, è che il messaggio che volevamo trasmettere sia arrivato. L’ho notato poco tempo fa parlando anche con altri colleghi che hanno ammesso di sentirsi più aperti nel parlare e affrontare il loro passato con i disturbi mentali. Poi dovevo cambiare, con un personaggio simile rischi di rimanere catalogato.
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