Taika Waititi e Sterlin Harjo hanno uno stile molto personale, alle feste. L’hanno perfezionato al Sundance, nei primi anni 2000, durante una gara di ballo in un condominio, con due ragazzi Navajo. “Taika assume una posa alla Michael Jackson, con la mano a mezz’aria, e poi si slaccia il bottone che chiude la camicia”, racconta Harjo, il regista Seminole-Muskogee con cui Waititi ha creato la serie comica Reservation Dogs di FX nel 2019. “A quel punto, io simulo il vento che gli scuote il vestito”. Il duo ha anche eseguito una versione karaoke di Under Pressure dei Queen, per la quale continuano entrambi a ricevere notevoli apprezzamenti.
Prima di diventare una star mondiale – attore, sceneggiatore, regista da Oscar e curriculum Marvel – Waititi, artista maori-ebraico della Nuova Zelanda, si era perfettamente integrato negli Stati Uniti all’interno della comunità dei registi nativi americani, proprio come Harjo. “Una delle cose su cui ci siamo trovati subito d’accordo era il comune disprezzo per come venivamo rappresentati al cinema nelle produzioni dei bianchi”, dice Waititi. “Gli indigeni sono serissimi, sempre. Sono persone che parlano con gli alberi e suonano il flauto in cima alle montagne. Non hanno senso dell’umorismo. Non sono normali. Un indigeno non viene mai scelto per interpretare un nerd. O uno sfigato qualsiasi. Dove sono finiti, al cinema, i nativi sfigati?”.
“Mi sono vestito da nativo per te”
È la fine di aprile e Waititi è stravaccato a un tavolo del Mulberry, il nuovo bar chic, di sua proprietà, nel quartiere SoHo di New York. Indossa scarpe da ginnastica Vans con la scritta “Rez Dogs” sul tallone, un cappellino da baseball “You Are on Native Land” (“Sei nella terra dei nativi”) e grandi anelli su quasi tutte le dita. “Mi sono vestito da nativo per te”, dice. Tra pochi giorni si presenterà al Met Gala con un cappotto di raso argentato lungo fino al pavimento, decorato con catene e perle, a braccetto con la moglie, la pop star inglese Rita Ora.
Poche persone a Hollywood sembrano godersi più di lui la vita da star. Adora i bar, quindi se ne è comprato uno. Quando era piccolo sua madre lavorava nei pub di Wellington e lui, dopo la scuola, si sedeva al bancone con una limonata al lampone a scarabocchiare o scrivere storie. “Posti come questo li ricollego a una sensazione di creatività e di affetto. È come ricevere una carezza”, dice. “E poi capita sempre qualche ubriaco che ha storie interessantissime da raccontare”.
Waititi è riuscito a conservare lo stesso spirito disinibito dei tempi in cui ballava nei condomini, anche se la posta in gioco, nella sua carriera, si è sensibilmente alzata. “Ho 47 anni”, dice. “Mio Dio, basta con tutta quest’ansia. La gente è ossessionata dai like, dal dover lasciare a tutti i costi un’eredità, dall’essere ricordata. Il punto è che nessuno si ricorderà di noi. Com’è che si chiama il regista di Casablanca? E sto probabilmente parlando di uno dei più grandi film di tutti i tempi. Ecco, non lo conosce nessuno. Come cazzo posso pensare, io, che qualcuno si ricorderà di me? Quindi: chi se ne frega. Viviamo e facciamo film. Che saranno obsoleti e irrilevanti tra 15 o 20 anni. Poi io morirò, e le stesse cose le farà qualcun altro. Tutta questa idea di dover rincorrere la vita. Ma dobbiamo davvero faticare così tanto? Anche no”.
Da Hitler a Thor, via Oscar
È importante specificare che negli ultimi 20 anni Waititi ha faticato, e parecchio. Ha diretto sei film, due dei quali della Marvel – Thor: Ragnarok e Thor: Love and Thunder – e ha realizzato Reservation Dogs e le serie televisive What We Do in the Shadows e Our Flag Means Death. Nel 2019 è diventato il secondo autore indigeno a vincere un Oscar per la sceneggiatura di Jojo Rabbit, la provocatoria commedia sull’Olocausto da lui diretta e interpretata nel ruolo di Hitler (la prima persona indigena a vincere un Oscar è stata Buffy Sainte-Marie, nel 1982). Sin dall’inizio della sua carriera cinematografica, Waititi ha bilanciato ambizione e autoironia: agli Oscar del 2004, quando la telecamera lo inquadrava mentre il presentatore nominava tra i candidati il suo cortometraggio, Two Cars, One Night, lui faceva finta di dormire.
Il prossimo film di Waititi, Next Goal Wins, un dramma sportivo sulla squadra nazionale di calcio samoana americana, distribuito (in USA, ndt) da Searchlight il 17 novembre, vede il regista tornare al genere che lo ha consacrato, sulla stessa scia della commedia d’avventura del 2016 Selvaggi in fuga – tuttora il miglior incasso per un film neozelandese. Basato su un documentario del 2014 dedicato all’allenatore di calcio americano-olandese Thomas Rongen (Michael Fassbender), chiamato a risollevare le sorti della squadra samoana, con Next Goal Wins Waititi sovverte un gran numero di fastidiosi luoghi comuni. Nel cast c’è una nutrita rappresentanza di attori polinesiani, tra cui Oscar Kightley di Selvaggi in fuga e Uli Latukefu della sitcom Young Rock, che nel film vengono in aiuto di un Rongen in difficoltà, come spiega il personaggio di Kightley, “come farebbero con un bambino bianco che si è perso al centro commerciale”.
Dai blockbuster ad una piccola storia indigena
“Taika ha sempre frequentato quella piccola comunità di registi indigeni cui nessuno prestava attenzione”, afferma il produttore Bird Runningwater, che ha curato la programmazione di Two Cars, One Night per il Sundance Institute’s Native and Indigenous Program. “Adesso ha conquistato Marvel e Searchlight, e punta sempre più in alto. Ma Next Goal Wins è un ritorno alle origini, a una piccola storia indigena”.
Waititi, a sua volta, ha sostenuto il lavoro di altri autori nativi: nel 2014 ha prodotto e diretto l’adattamento televisivo del film What We Do in the Shadows del suo amico e comico maori Jemaine Clement; ha sostenuto, sfruttando il suo accordo di “first-look” con FX, il progetto di Harjo Reservation Dogs, sugli adolescenti indigeni nelle zone rurali dell’Oklahoma; ha prodotto il film Frybread Face and Me di Billy Luther, ambientato nella riserva navajo e presentato in anteprima al South by Southwest. La Piki Films, la casa di produzione neozelandese che Waititi ha co-fondato insieme al produttore di Selvaggi in fuga e Jojo Rabbit, Carthew Neal, sponsorizza i lavori di altri registi maori e pasifika, tra cui Red, White & Brass del 2023, la commedia di Damon Fepulea’i, oltre ai prossimi lungometraggi di Josephine Stewart-Te Whiu e Rachel House.
Ciò che accomuna tutti i progetti di Waititi, indigeni e non, è la leggerezza e la gioia che servono a mascherare temi spesso dolorosi. “Taika scarta immediatamente tutto ciò che gli sembra troppo serio”, afferma il co-presidente di Searchlight Pictures David Greenbaum, che era dirigente in Miramax quando la società acquistò i diritti per il Nord America del debutto alla regia di Waititi, Eagle vs Shark. “Il suo lavoro è sempre divertente, sovversivo e sorprendente”. In Next Goal Wins lo si capisce dal modo con cui Waititi ha deciso di raccontare la sessualità di un certo personaggio. “Non volevamo dare troppe spiegazioni, la tipica scena del cazzo in cui qualcuno te la sbatte in faccia dicendo ‘Ehy, sono uno di voi’. Come succede puntualmente nei film americani”, dice.
Ogni dettaglio è elaborato
Sebbene abbia un’attitudine molto rilassata, i suoi film sono realizzati con grande scrupolosità, sostiene il co-presidente di Searchlight Matthew Greenfield, che ha conosciuto il regista mentre si trovava al Sundance Institute, dove Waititi ha lavorato a Eagle vs Shark. “I suoi film sembrano molto spontanei, ma ogni dettaglio, e il tono generale, sono attentamente elaborati. Fa verifiche continue per assicurarsi che ogni battuta arrivi allo spettatore nel modo in cui è stata pensata”.
L’ironia di Waititi è il cavallo di Troia che gli permette di esplorare temi come l’antisemitismo o il colonialismo. “La commedia è un ottimo strumento per chiamare in causa le persone e dire: ‘Ehi, tranquilli, siamo amici. Mettetevi comodi, razzisti'”. L’umorismo a tema sociopolitico, però, ha le sue insidie. “La gente si chiede se sia autorizzata a ridere di certe cose”, afferma. “Devono cercare su Google se hanno il permesso. Ci sono cose di cui non si dovrebbe ridere, ovviamente. Bisogna usare il cervello”. Con Jojo Rabbit alcuni spettatori si sono sentiti a disagio all’idea di una commedia sull’Olocausto. “Le persone non sapevano se ridere fino a circa 20 minuti dalla fine del film”, racconta. “Avrebbero forse preferito sentirsi dire che potevano farlo”. Oppure “avrebbero voluto sapere che il regista era ebreo, prima di entrare in sala’”.
In Next Goal Wins Waititi si prende gioco della vita nelle piccole isole. “Se vieni da una città microscopica come la mia, dove ci sono al massimo 600 persone, alle feste devi chiedere a ogni ragazza che incontri prima di tutto come si chiami sua nonna, per non rischiare di provarci con tua cugina”, dice. “Se un regista europeo arrivasse su un’sola e prendesse in giro la nostra quotidianità, mi darebbe fastidio. Ma dato che vengo dalla Polinesia, nel mio caso non credo che ci siano problemi”. Waititi considera il sentimentalismo come un limite. “Ci saranno sicuramente persone che si lamenteranno perché non ho mostrato il lato romantico della cultura samoana’”, afferma. “Ma la mia storia parla della peggiore squadra di calcio del mondo. Bisogna che siano pessimi. L’autentico romanticismo della cultura polinesiana sono gli zii e le zie che stanno seduti al pub tutto il giorno facendo battute e raccontandosi storielle”.
Un’icona queer
La presenza nei suoi film di personaggi queer, anche in Thor: Love and Thunder e Our Flag Means Death, lo ha fatto diventare un’icona sulle pagine di Out. Uno dei personaggi principali in Next Goal Wins si ispira a Jaiyah Saelua, la prima atleta apertamente non binaria a partecipare alle qualificazioni della Coppa del Mondo FIFA, interpretata dall’esordiente non binaria Kaimana, descritta con il termine polinesiano “fa’afafine”. “Molte culture indigene usano questo termine”, dice Waititi. “Odio la parola ‘terzo sesso’, che è una cosa molto occidentale. Fa’afafine è molto più di questo. È una condizione normale, accettata e persino sacra”.
Reservation Dogs, un successo di critica che quest’estate tornerà con la terza stagione, è nato da una conversazione a base di tequila e risate tra Waititi e Harjo, nella cucina di Taika, una sera del 2019. Nonostante siano cresciuti a migliaia di chilometri di distanza, Waititi nell’Isola del Nord della Nuova Zelanda e Harjo in Oklahoma, i due condividono background e gusti simili. “Entrambi abbiamo avuto un’educazione indigena rurale, con vecchi padri nativi hippie straordinariamente divertenti che riparavano Harley”, dice Harjo. “È sempre bello incontrare qualcuno che è cresciuto come te, a cui piace Hal Ashby. Ti senti meno solo”.
Il passaggio neozelandese
Waititi attribuisce parte della sua sensibilità artistica al territorio della Nuova Zelanda. “Crescendo, l’unica cosa che vuoi fare è andartene”, dice. “Sei bloccato su un’isola, e il posto più vicino è l’Australia. È piuttosto triste. Siamo l’Islanda del Pacifico meridionale. Infatti siamo bravissimi a raccontare storie cupe con un umorismo triviale. Molto lo si deve alla profonda depressione che deriva dal fatto di sentirci isolati. Si gela, cazzo. Non c’è lavoro. Non c’è nulla da fare, specialmente negli anni ’80. Io pensavo: ‘Non posso fare l’artista qui. E non so come lasciare questa terra. Non riesco ad andarmene'”
I genitori di Waititi si separarono quando aveva 5 anni: suo padre era un artista di origine Te Whānau-ā-Apanui, sua madre un’insegnante che discendeva da antenati russi, ebrei, irlandesi e altri ceppi europei. “Mi sono allontananto dagli adulti e dai miei genitori molto presto”, racconta. “Avrò avuto 11 anni. Decisi che non potevo farci affidamento. Mi sembravano inutili, pensavo che non sarei arrivato da nessuna parte affidandomi a loro. Volevo fare da solo. Ovviamente non è stato il massimo per il nostro rapporto. Ma l’aspetto positivo è che ero molto motivato. Sono stato fortunato a potermi concentrare sui miei problemi, sulle mie storie”.
Da giovane aveva un’incosciente sicurezza che si è rivelata molto utile a Hollywood. “Credo che sia narcisismo: per tutta la vita sono stato convinto che le mie idee fossero eccezionali”, dice. “Ora so che non era così. Era come in The Truman Show. Pensavo che il mondo fosse stato messo a mia disposizione perché potessi divertirmi. Pensavo di poter essere me stesso, e che gli altri facessero tutto esclusivamente per me. Avevo anche l’impressione che la maggior parte della gente fosse idiota, cosa che penso ancora”.
Rimanere fedele alle proprie idee
Questa sicurezza – che, come Waititi sa bene, sfiora l’arroganza – lo ha aiutato a gestire le controversie in fase creativa. “Pensavo di essere circondato da idioti che avrebbero prima o poi realizzato che avevo ragione io. È una cosa piuttosto stupida da dire, ma è un atteggiamento che mi ha aiutato a rimanere fedele alle mie idee. L’unico trucco, nel cinema, consiste nel saper prendere decisioni in fretta e con sicurezza. Se chiedi a qualsiasi regista, nell’85% dei casi non ha idea di cosa stia facendo e spera solo che non lo scoprano”. Il curriculum di Waititi suggerisce che la sua strategia stia funzionando, con qualche occasionale intoppo: la critica ha trovato Thor: Love and Thunder del 2022 sfarzoso ma narrativamente imperfetto, nonostante il film, costato più di un miliardo di dollari, abbia incassato più di qualsiasi altro franchise di Thor.
Waititi è cresciuto nutrendosi ecletticamente di cultura pop, dal comico maori Billy T. James a serie televisive americane come M*A*S*H e Taxi e Benson o commedie britanniche come Blackadder e Fawlty Towers. Anche CHiPs è stata una serie importante per lui, perché “c’era un poliziotto di colore che guidava una moto figa in California”, dice. “Non avevamo mai visto volti di colore in ruoli autorevoli, di responsabilità. Chi aveva la pelle scura finiva sempre in una gang tipo The Warriors o tra i terribili punk di strada dei film anni ’80”. Da bambino, Waititi si identificava con la cultura nera, con personaggi come Eddie Murphy, Michael Jackson o Bob Marley. “Probabilmente non ne ero consapevole. Semplicemente ero attratto da qualcuno che, per via del colore della pelle, sentivo simile a me”, dice.
Alla Victoria University di Wellington ha studiato teatro e ha fatto parte di un gruppo comico con Clement. Per gran parte della sua carriera, Waititi ha continuato a frequentare i suoi amici, scrittori e attori neozelandesi come Clement, House e Rhys Darby. “È come avere una cricca a scuola che si vede ogni giorno”, dice. ” Fa sembrare tutto un po’ meno un lavoro”. Ogni tanto, però, è anche felice di stare da solo. “Ho fatto film e teatro, collaborando con altre persone per tutta la vita”, dice. “Mi piace l’interazione, la cerco. Ma poi finisco col dirmi che c’è troppo rumore, che odio tutti e che voglio andare a casa. Quando ci arrivo, a casa, penso che sto molto meglio. Ma dopo un’ora mi manca la gente”.
L’allegro vampiro ed il pirata vulnerabile
La carriera di attore di Waititi è meno discussa di quella da regista, ma è stato prolifico e originale anche sullo schermo, interpretando un padre distante nel suo secondo film, il dramma Boy del 2010; un allegro vampiro nella versione cinematografica del 2014 di What We Do in the Shadows; il vulnerabile pirata Barbanera in Our Flag Means Death; e l’amabile bestia rocciosa Korg, uno dei preferiti dai fan, nei Thor. Ha un piccolo ruolo come sacerdote anche in Next Goal Wins. “Cerco di trovare un modo per mettermi in scena, mi piace”, dice. “Sto creando un Taika-universe“. Quando alla Searchlight i dirigenti gli chiesero di interpretare il ruolo di Hitler in Jojo Rabbit, Taika rifiutò dicendogli che erano pazzi, ricorda Greenbaum. “Dicevano che Hollywood aveva bisogno di una star del cinema. E che lui ha un potere da star, un’energia da star. Quando è nella stanza, lo senti”.
Anche se ora ha più soldi e popolarità di prima, gli amici dicono che non è cambiato: ha sempre avuto stile, anche quando dormiva sul divano di Runningwater a West Hollywood e lasciava i bagagli nella sala da pranzo. “Aveva sempre una pila di vestiti da parte”, racconta Runningwater. “Si provava gli abiti quattro o cinque volte prima di uscire”. Runningwater ha accompagnato Waititi alla prima di Thor: Love and Thunder lo scorso anno. “C’era la sua squadra glam. Jeanne Yang, la sua stilista. Gli stavano facendo i capelli. Gli ho detto che aveva fatto un salto di qualità, rispetto a quando lasciava la pila di vestiti nella mia sala da pranzo. Lui mi ha detto: “Vai a vedere nella mia camera da letto”. Nell’angolo c’era una pila di vestiti”. Quando i suoi amici di Los Angeles vennero a trovarlo in Nuova Zelanda, Waititi se li portò in giro su una piccola Citroën bianca.
La sua intenzione era quella di prendersi un po’ di tempo libero, ma nel frattempo ha diretto il video musicale di Ora per il suo singolo Praising You, che descrive come “un mix di All That Jazz con Fame e un po’ di 8 Mile. Adoro lavorare con lei”, dice. “È divertente. È bello essere sposati e lavorare con una persona di grande talento. Abbiamo un senso dell’umorismo simile e ascoltiamo le stesse cose”. Adesso è in trattativa per adattare il best-seller di Kazuo Ishiguro Klara and the Sun per Sony, e sta lavorando da tre anni a una sceneggiatura di Star Wars. “Ho un’idea davvero buona”, dice. “Come in tutti i film, c’è una parte centrale in cui ti chiedi cosa succederà. Ma quando guardi tutti gli altri film, che sono stati così grandi, ti rendi conto che non puoi fare molte cose. Tipo mettere insieme un contrabbandiere e un alieno”.
Lo sciopero? Una tregua gradita
Lo sciopero degli sceneggiatori è, per lui, una tregua forzata e gradita. “Mi piacerebbe prendermi una vacanza e seguire Rita in tour”, dice. “Vorrei essere il suo piccolo toy boy, stare con lei, guardarla esibirsi, andarle a prendere una tazza di tè nel backstage”. I due si sono conosciuti, dopo essere stati presentati da Robert Pattinson, a un party organizzato da Waititi nel 2018. Hanno iniziato a frequentarsi nel 2021 e si sono sposati ad agosto, con una piccola cerimonia.
Waititi, che dice di aver speso una discreta quantità di energie in gioventù per cercare di apparire il più intelligente del gruppo, grazie a Ora si sente più rilassato. “Mi pare di essere diventato più onesto negli ultimi due anni”, dice. “Se qualcuno pronuncia una parola difficile, di quelle che ho fatto finta di capire per tutta la vita, ora non fingo più. Sono stufo”. Si entusiasma per i lapsus di Ora e per la sua disinvoltura, quando ci inciampa. “Ha lasciato presto la scuola per diventare una pop star di successo”, dice, “e quindi pronuncia le frasi nel modo più bello del mondo”.
Lo stile di vita di Waititi è nomade, tra Los Angeles, Londra e Nuova Zelanda, dove vivono i due figli avuti dalla ex moglie, la produttrice Chelsea Winstanley, di 10 e 7 anni. Dopo anni di riprese in giro per il mondo, dice, ora vorrebbe lavorare in Nuova Zelanda per stargli più vicino.
Dell’impatto del suo lavoro si rende conto, più che durante eventi come gli Oscar, quando torna in Nuova Zelanda, vedendo bambini come lui che fannno arte usando la macchina fotografica. “Quando dici ‘Maori’ vedi il volto tatuato di qualcuno che fa la Haka, o che indossa un gonnellino d’erba e fa una danza di guerra”, dice. “Per i registi nativi è fondamentale una maggiore rappresentazione, per avere il controllo della nostra immagine. Dobbiamo cambiare lo stereotipo. Quando dici ‘nativo’, devi pensare a uno che sta facendo quello che sto facendo io, seduto al tavolo, con un po’troppi gioielli alle dita, che conversa normalmente”.
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