Non sono molti i luoghi in cui si possono incontrare due Avengers, tre camaleonti e un prete sexy, ma al Georgian Hotel di Santa Monica, a metà novembre, si sono riuniti per la tavola rotonda degli attori di THR. Robert Downey Jr. (Oppenheimer), Mark Ruffalo (Povere creature!), Jeffrey Wright (American Fiction), Paul Giamatti (The Holdovers – Lezioni di vita), Colman Domingo (Rustin) e Andrew Scott (Estranei).
Tra loro ci sono 14 nomination agli Emmy (cinque delle quali hanno portato alla vittoria), sei nomination ai Tony (e una vittoria) e sei nomination agli Oscar. Considerando che gli ultimi vincitori dell’Academy Award come miglior protagonista e miglior non protagonista sono apparsi per la prima volta in una tavola rotonda di THR, c’è una forte possibilità che il meglio debba ancora venire per questi sei grandi attori.
Ci sono molti legami a questo tavolo, alcuni dei quali forse non sono noti perché sono avvenuti molto presto nella vostra carriera. Per cominciare, Paul Giamatti e Andrew Scott, voi avete partecipato entrambi a Salvate il soldato Ryan, 25 anni fa.
PAUL GIAMATTI È vero?
ANDREW SCOTT Io ero “il tizio in verde”. (Ride, ndr) Non lo sapevo nemmeno io! E abbiamo lavorato insieme anche in seguito…
Dieci anni dopo, in John Adams…
GIAMATTI Io ero ” il tizio con la parrucca incipriata”.
Sempre 25 anni fa, Paul Giamatti e Mark Ruffalo, eravate entrambi in Safe Men. Ve lo ricordate?
MARK RUFFALO “Bei baffi, amico”.
GIAMATTI Ecco, quella è la battuta migliore del film.
Un anno dopo, Mark Ruffalo e Jeffrey Wright, voi avete recitato entrambi in Cavalcando col diavolo di Ang Lee.
JEFFREY WRIGHT Vero.
RUFFALO Ho mentito sul fatto di saper andare a cavallo. (Ride, ndr)
WRIGHT Ricordo molto bene di essere passato davanti a te. Eri legato a un palo della recinzione. (Ride, ndr)
RUFFALO È vero!
E dieci anni fa, Giamatti e Colmano Domingo, voi siete apparsi entrambi in All Is Bright...
GIAMATTI Il leggendario All Is Bright. (Ride, ndr)
COLMAN DOMINGO Quella vecchia storia!
Giamatti e Wright, voi avete anche recitato entrambi in Lady in the Water del 2006 e in Le idi di marzo del 2011.
DOMINGO (guardando Giamatti, ndr) Eri in tutto!
ROBERT DOWNEY JR. Sei come il Michael Caine americano! (Ride, ndr)
Robert Downey e Ruffalo, voi invece avete lavorato insieme per la prima volta in Zodiac del 2007, e poi in alcuni film per una piccola compagnia chiamata Marvel…
DOWNEY (guardando Ruffalo, ndr) Sì, dopo che ti ho convinto!
RUFFALO Non sarei qui oggi senza di te.
E infine, non solo Domingo è fantastico in Rustin, ma anche lei, Wright.
WRIGHT Era la prima volta che lavoravamo insieme.
Prima di arrivare al 2023, quali sono stati i punti di svolta della vostra carriera. Downey, per esempio, dal cinema indipendente ad Iron Man. Ha esitato a firmare per un film di supereroi?
No, perché chiunque conosca il regista Jon Favreau non lo farebbe. Ricordo di aver visto Swingers, con quel suo monologo, e mi sono detto: “Questo l’ha scritto lui? Chi è questo tizio?”. Inoltre, ha frequentato il Bronx Science e stava facendo improvvisazione teatrale a Chicago, e siamo entrambi del Queens. Eravamo destinati a fare questa cosa. Tra l’altro, non c’era alcuna certezza che sarebbe decollata. Iron Man era un eroe di secondo piano. Hanno lasciato che i pazzi gestissero il manicomio per un po’, quindi all’inizio si trattava di un approccio indie a un film del genere.
Domingo, restando nel 2005, lei era un attore in difficoltà a New York quando ha deciso di prendere in mano la situazione. Ci parli del suo one-man show che ha dato una svolta a tutto.
Facevo il barista in un posto nel West Village chiamato 55 Bar. Facevo qualsiasi spettacolo che potessi fare, poi correvo dall’altra parte della città e iniziavo il mio turno alle 21 e andavo avanti fino alle 4. Quando le cose si calmavano, verso l’una di notte, suonavo e scrivevo di quello che stava accadendo nella mia vita. I miei genitori soffrivano di diverse malattie, vivevano in Virginia.
Io vivevo in una situazione terribile, un subaffitto illegale. Mi arrangiavo. Non avevo una grande agenzia, quindi non potevo avere opportunità. Così ho iniziato a scrivere della mia vita e della musica che mettevo in scena. Il proprietario mi disse: “Ehi, Colman, voglio fare qualche progetto teatrale la domenica. Hai qualcosa?”. E io: “Sì, fammi provare questa roba”.
Facevo cose strane, come servire pollo fritto, mettere musica e fare una specie di salotto, e poi leggevo dei pezzi. Gli amici mi dicevano: “Credo sia uno spettacolo personale. Sei tu l’evento”. Così ho iniziato a lavorare con un regista, ed è diventato uno spettacolo intitolato A Boy and His Soul. Alla fine i miei genitori sono morti, ma lo spettacolo è stato un dono inesauribile.
Ho trovato la mia voce come autore e l’ho messo in scena al Vineyard Theatre di New York, a Londra e in Australia. Ho interpretato i membri della mia famiglia e me stesso, in conversazione con il pubblico. Come si fa? Come ci muoviamo attraverso il lutto? Come si costruisce quando non c’è niente?” La gente ha iniziato a vedermi come l’artista che ero e questo mi ha dato una nuova base per la mia carriera.
Scott, molti si sono innamorati del prete sexy della seconda stagione di Fleabag. Ma lei ha recitato al cinema e in tv per 25 anni. Com’è stato arrivare a quel momento?
Ho iniziato molto giovane. Avevo 17 o 18 anni quando frequentavo l’Abbey, il teatro nazionale di Dublino, e ricordo che mi fu offerta una parte dopo aver fatto forse due spettacoli, e pensai: “Non mi va proprio di farlo”. Vivevo ancora a casa dei miei! Così, abbastanza presto, ho avuto il coraggio di dire: “Non voglio recitare la stessa parte, se non è necessario”. Perché mi è sempre sembrato che l’importante fosse essere in grado di interpretare il maggior numero possibile di voci diverse.
E così, ogni volta che non ero più riconoscibile, non mi sono mai sentito come se stessi fallendo. Ero sempre felice di lavorare. Mi piace la cosa che dice Meryl Streep – che è una mia grande eroina – e cioè di fare la valigia: anche se non ricevi opportunità, decidi cosa mettere nella tua valigia, così quando l’opportunità si presenta: “Lo conosco, posso farlo. Ho fatto le valigie per questo”.
Giamatti, molto prima di sfondare con American Splendor e Sideways, di vincere un Emmy per John Adams e di recitare in Billions, era un ragazzo appena uscito dalla Yale School of Drama, a cui venivano offerte solo piccole parti come un orango ne Il pianeta delle scimmie. È stato frustrante?
No, era la strana realizzazione di un sogno profondo. Essere una scimmia ne Il pianeta delle scimmie? Se per me fosse stato tutto lì, sarei morto felice. Non potevo credere di poter interpretare un orango parlante! I miei agenti mi dicevano: “Non vuoi essere un umano, così possono vedere la tua faccia?”. E io: “Se gli dici che voglio essere un umano, do fuoco all’agenzia”.
Chi vuole essere un umano? Non potevo credere che mi avessero permesso di uscire dal seminato in quel modo. Avevo appena frequentato una scuola di teatro, che mi era sempre sembrata terribilmente limitante. Voglio dire, guardatemi, non sono un tipo da Shakespeare. Sono uscito e ho avuto l’opportunità di fare qualcosa di assolutamente folle.
Wright, lei è apparso per la prima volta sul radar di molti a metà degli anni Novanta con Angels in America a Broadway, per il quale ha vinto un Tony, e poi con Basquiat di Julian Schnabel. Ma nel giro di cinque anni ha detto che il suo atteggiamento è cambiato. Perché?
La cosa che ho imparato a valutare più tutte in questo lavoro è la collaborazione. All’inizio c’erano alcune partnership che avrebbero potuto essere migliori. Un paio di volte mi sono trovato in posizioni che ritenevo molto ciniche. Il modo in cui sono riuscito ad articolare la cosa all’epoca è che si trattava di ambienti che aspiravano a essere più stupidi di quanto fosse possibile.
Pensavo fosse tutto un po’ strano e mi sono tirato indietro. Ma c’erano anche altre priorità e altre considerazioni, la mia famiglia prima di tutto. E c’era molto lavoro in Africa che mi attirava, avevo interessi che risalivano all’università.
Ruffalo, sembra che anche lei abbia avuto un periodo di interrogativi. Cosa l’ha spinta ad allontanarsi dalla recitazione per un po’? E poi cosa l’ha fatta tornare?
Sì, in relazione a ciò di cui parlava Jeffrey: hai i tuoi sogni, e poi cominciano a realizzarsi, ma non è come pensavi che sarebbe stato, e a un certo punto ti allontani, e la cosa successiva che capisci è che si tratta di affari e dell’idea che qualcun altro ha della tua carriera, che non ha molto a che fare con quella che era la tua idea.
Mi sentivo già così, e poi mio fratello è morto (Scott Ruffalo è stato ucciso nel 2008, ndr) poco prima che dirigessi un film a cui lavoravo da tempo (Sympathy for Delicious del 2010, ndr) e durante la lavorazione mi sono detto: “Non so se voglio tornare a recitare. Mi sento molto più a mio agio qui alla regia”.
Poi ho ottenuto una grande parte, il tipo di parte che volevo fare, e ho pensato: “Questo sarà il mio ultimo lavoro da attore”. Ed era I ragazzi stanno bene. Quando sono arrivato sul set, ho pensato: “Fanculo. Farò quello che voglio. Non ci sono più regole. Non devo essere nessuno per nessun altro”. E così ho fatto quello che volevo, ed è stata una sensazione davvero liberatoria. Poi sono andato al Sundance. Il film che ho diretto è stato presentato in anteprima, e due giorni dopo è stato presentato I ragazzi stanno bene, e io ero seduto tra il pubblico e pensavo: “Questa esperienza è così autentica. Questo film parla di qualcosa di molto importante”.
Venendo al mondo mentre la gente votava sui matrimoni gay, il film diceva: “Siamo uguali e non c’è differenza tra matrimoni etero e matrimoni gay”. E lo faceva in modo divertente. Era una storia umana in cui tutti potevano immedesimarsi. L’ho sentito nelle risate – le risate dicono tutto. Ho sentito tutti ridere, che fossero etero o gay o altro, qualunque fosse la loro religione, il loro background, tutti ridevano della stessa cosa. E mi sono detto: “È quello che voglio fare. È per questo che sono venuto qui”.
E poi nessuno mi ha detto: “Ehi, vuoi dirigere un altro film? Vuoi un contratto di cinque film come regista?” Così ho trovato la mia strada.
Entrando nel merito delle vostre performance del 2023. Wright, lei lavora in modo molto selettivo. Come ha fatto Cord Jefferson – uno straordinario autore televisivo – a convincerla a recitare nel suo debutto alla regia?
Era chiaro che Cord conosceva bene la storia che voleva raccontare (un autore nero “accusato” di non scrivere per un pubblico nero, ndr). È brillante, è satirico, è fantastico. Ma ciò che mi ha davvero attirato è stata la storia di quest’uomo che all’improvviso si ritrova a dover gestire la responsabilità di prendersi cura di sua madre.
Mia madre è morta non molto prima che io ricevessi il copione. Quindi per me è stato questo a convincermi. Ho detto: “Conosco questa storia. Conosco quell’uomo. E conosco le difficoltà e i sacrifici che richiede, non solo a livello professionale ma anche personale.
Posso interpretare quella musica. E forse può essere utile a me e a qualcun altro”. Credo che per certi versi questo sia l’aspetto più sovversivo del film, perché è un ritratto di cui non mi era mai stato chiesto di far parte: una famiglia strampalata, folle, a volte disfunzionale, a volte funzionale, amorevole, frustrata ma unita, che si dà il caso sia nera. Quindi sì, è stato facile dire di sì.
Giamatti, sono passati 19 anni da quando lei e Alexander Payne avete realizzato Sideways – In viaggio con Jack. The Holdovers – Lezioni di vita, è stato un sì automatico perché era un film di Alexander?
Avrei fatto praticamente qualsiasi cosa per lui, anche se mi ha mostrato la sceneggiatura mentre la stava ancora scrivendo, immaginando questo uomo che puzza di pesce e ha i palmi delle mani sudati (ride, ndr). Ma la stava scrivendo per me, ed è stata una cosa straordinaria poter lavorare con un amico, la storia mi tocca da vicino e credo lui l’abbia intuito perché mi conosce.
Attingeva al mio passato, il che mi ha fatto sentire come se non fosse un lavoro, in un certo senso. È tutto molto familiare. La cosa che mi è sembrata davvero straordinaria è che si tratta di una storia di Natale: in definitiva, parla di altruismo. Tutte queste persone agiscono altruisticamente l’una verso l’altra per poter fare un passo successivo verso qualcosa. E non si risolve. Alexander non fa film che si risolvono facilmente. Non sappiamo cosa succederà. Ma si va un po’ avanti.
Ruffalo, in Povere creature! si è unito a una squadra già affiatata da La favorita (2018), il regista Yorgos Lanthimos, lo sceneggiatore Tony McNamara ed Emma Stone. È stato spaventoso?
Sì! Mi sono detto: “Yorgos, non credo di essere la persona giusta per questo”. Ho cercato di dissuaderlo e lui mi ha riso in faccia. Nel mondo del cinema, a volte ci si sente come in una casella. Non avevo mai interpretato niente del genere e avevo paura. Voglio dire, avevo visto i suoi film precedenti e ne ero entusiasta, ma lui mi ha riso in faccia. Allora ho pensato: “Ok…”.
Downey, la situazione non era poi così diversa con lei e Oppenheimer. Christopher Nolan ha detto di volerle far fare qualcosa di diverso, qualcosa che un’intera generazione di più giovani non conosceva ancora. Cosa ne pensa?
Mi ha chiamato, e una chiamata da parte di Nolan è una cosa importante, direi che siamo d’accordo. Mi ha chiesto di leggere la sceneggiatura, su carta rossa con caratteri neri (per non essere fotocopiata, ndr), il che è stato come fare il sudoku mentre si guida, ma l’ho letta e ho pensato: “È magistrale”.
Per me è stata una conseguenza logica di Sr. (il documentario che Downey Jr. ha realizzato su e con suo padre, ndr), per arrivare a “Cos’è questa cosa contro cui la generazione di mio padre si è ribellata?”. Il bello è che era come se un centinaio di persone costruissero un orologio insieme ogni giorno.
Domingo, dopo essere apparso nel film Ma Rainey’s Black Bottom (2020), Wolfe le ha chiesto di interpretare Bayard Rustin, un leader nero dei diritti civili gay, principale organizzatore della Marcia su Washington del 1963. Cosa ha significato per lei questa opportunità?
Essere al servizio della storia è ciò che ogni attore impara. Non si tratta della grandezza del ruolo, ma di “Come posso aiutare a svolgere una funzione?”. A teatro di solito sono sempre io quello che si prende cura degli altri attori e mettere insieme le persone. Così, quando è arrivato Rustin, ho capito che dovevo assicurarmi di prendermi cura dell’insieme e di assumere un ruolo di leadership.
E questo ruolo ha richiesto tutte le mie capacità, tutto quello che ho fatto in 32 anni di carriera, dai teatri regionali all’off-Broadway, dalla scrittura alla regia, tutto quello che ho fatto, è in questo film. Più di ogni altra cosa, ha fatto appello al mio spirito che crede veramente nel servire e nel cercare di fare in modo che le persone si sentano ascoltate e viste, perché questo è ciò che ha fatto il personaggio, Bayard Rustin. La sua vita è stata al servizio degli altri, ma poi la storia lo ha messo nell’ombra. È stata la mia occasione per farlo emergere.
Scott, in Estranei interpreta quasi un versione fittizia del regista Andrew Haigh. Che sfida è stata?
Non ho mai pensato di dover interpretare Andrew. Mi è sembrato che avessimo una sorta di co-genitorialità del personaggio, visto che questo è uno dei temi del film. Ho sicuramente guardato a lui. Sento che è stato un compagno nella narrazione della storia. Ma credo che la sfida per me sia stata quella di non fingere di essere qualcun altro, ma di tornare indietro al punto in cui ero io nella mia vita.
Quindi è stato un matrimonio tra le nostre due personalità. È stato difficile perché il film è diviso in due parti e una riguarda il ritorno ai sentimenti infantili, mentre l’altra riguarda l’innamoramento molto adulto, fisico, quindi come si fa a farlo senza renderlo infantile, volgare o, non so, indorare un po’ la pillola? Ma Andrew è stato molto generoso nel girare il film nella piccola casa di periferia della sua famiglia con una sola macchina da presa – una cosa così delicata da fare – e ho capito che tutta la brutalità che nasce all’interno delle famiglie, accidentale o meno, fosse davvero dura per lui da affrontare.
E credo che lui l’abbia visto anche in me. Eravamo molto attenti l’uno all’altro e riuscivo a capire se lo stavo influenzando.
Una delle scene più belle di Estranei è quella in cui il personaggio di Andrew riesce a dichiararsi ai suoi genitori, anche se non ha mai potuto farlo quando erano in vita. Scott, Domingo voi siete attori apertamente gay che interpretano personaggi apertamente gay al centro di film importanti. Credete che le cose siano migliorate nel corso dei vostri decenni di carriera?
DOMINGO Fin dall’inizio sono sempre stato esattamente quello che ero. Non c’è mai stato un coming out. Ma ho anche sempre voluto essere protagonista nelle sale con la mia intelligenza, la mia gentilezza e quello che faccio. Non era una cosa che fosse realmente in discussione. All’inizio ti senti in difficoltà perché ti guardi intorno e ti sembra di essere un caso raro.
Le altre persone nascondevano questo aspetto e io ho pensato: “Perché?” Ricordo che anni fa qualcuno mi ha fatto una domanda stranissima, dopo che avevo lavorato con un regista molto noto, che è etero, un intervistatore mi ha chiesto: “Cosa ne pensa il tale e quale del fatto che tu sia gay?”. È stata una domanda stranissima. Ho pensato: “Cosa? È come se fosse mio fratello. Ma di cosa stai parlando? In che mondo vivi? Che importanza ha?”.
E mi sento ancora così. Sento che essere gay è solo un aspetto di me, ma non è tutto. E non ho mai posto limiti a ciò che faccio. Ho sempre creduto che se non mi pongo limiti, l’industria non mi porrà limiti. Se vado in giro con un segreto e nascondo qualcosa, penso che lo si capisca. Ho bisogno di essere pienamente me stesso per accedere a tutto.
Un’altra cosa che sta cambiando nel settore è il film a medio budget. È sempre meno presente ma ha contribuito a far affermare molte delle persone presenti a questo tavolo. Sembra che si sia spostato verso la televisione: questo vi rende più interessati a fare televisione di quanto non lo foste in passato?
RUFFALO Una delle cose positive che sono venute fuori dallo sciopero di Hollywood è stata la creazione di progetti indipendenti provvisori. Ne ho fatto uno. Si trattava di 10 episodi di televisione indipendente per 5 milioni di dollari. Sono sei ore di televisione per meno di quanto abbiamo speso per Conta su di me, o più o meno la stessa cifra. È stata una faticaccia, e non lo facevo da molto tempo, ma era fattibile, e la produzione è riuscita dare agli attori tutto ciò che la SAG (sindacato degli attori, ndr) aveva chiesto. Non era impossibile.
Quello che è successo con lo streaming è stato che tutti siamo corsi a farlo perché era un altro tipo di libertà, ma ha creato un vuoto nel mondo indie. Ora sento che c’è la possibilità di risorgere. Guardo a un film indipendente in modo molto diverso rispetto a due o tre anni fa. So che abbiamo realizzato un buon prodotto televisivo, e so che non è stato grazie al budget, ma alla storia, al cuore e all’impegno. Quindi non è necessario fare un film da 60 o 70 milioni di dollari perché sia buono.
Non mi è dispiaciuto accettare una parte, non mi è dispiaciuto lavorare a basso budget. Voglio dire, posso permettermelo. Ma non mi è dispiaciuto.
DOMINGO Credo che il modello debba cambiare. Di recente, io e i miei soci abbiamo prodotto un film intitolato Sing Sing, presentato in anteprima al Toronto Film Festival. Abbiamo mantenuto un budget molto basso, ma ci siamo assicurati che fosse equo per tutti.
In chiusura, qualche domanda a raffica. Qual è stata la peggiore audizione che avete fatto?
DOWNEY Ho fatto un provino per una pubblicità della Dr Pepper (bevanda analcolica, ndr). Sono usciti in corridoio e mi hanno detto: “Ok, sei il pifferaio magico e tutti vogliono essere come te”. Mi sono alzato e me ne sono andato.
GIAMATTI Una volta ho fatto un’audizione per un musical, A Funny Thing Happened on the Way to the Forum. In teoria dovevi “esplodere” in una canzone. Ho iniziato a ridere, non ce l’ho fatta e sono uscito dalla stanza.
Con quale attore vivente con cui non avete mai lavorato vorreste lavorare?
DOMINGO Penso subito a Emma Stone. Sento che è inventiva, gentile, generosa, eccentrica e strana, e che ogni giorno può darti un regalo.
RUFFALO Sì. Ottima scelta. È un’artista preziosa.
GIAMATTI Avrei voluto lavorare con Robert Duvall. Ora è molto vecchio. Ma avrei voluto farlo.
WRIGHT Dustin Hoffman. Era l’uomo giusto, da Papillon a Midnight Cowboy, ruoli trasformativi.
Se non foste diventati attori, cosa fareste oggi?
GIAMATTI Volevo fare l’animatore.
DOMINGO Sono entrato alla Johnson & Wales University per fare il cuoco, in realtà. Era quello che volevo fare. Ma sto pensando che per il terzo atto della mia vita voglio studiare architettura. Sono un nerd dell’architettura e penso sempre: “Forse tornerò a scuola per impararla e farla a 70 anni”.
RUFFALO Ho iniziato a frequentare corsi di scultura all’Art Students League di New York, e mi piace molto. Mi dà molto di quello che ottengo dalla recitazione. E se fosse una possibilità, mi ci butterei a capofitto. Sarebbe un buon secondo atto. Oppure insegnare. Mi piacerebbe insegnare.
SCOTT Mia madre era un’insegnante d’arte. Ho fatto il mio primo film a 17 anni; era un piccolo film irlandese. Esattamente lo stesso giorno, ho vinto una borsa di studio per studiare come pittore per cinque anni – una grossa borsa di studio – e ho scelto il cazzo di show business.
DOWNEY Se non fossi stato un attore, sarei in carcere. (Ride, ndr)
WRIGHT Se non facessi questo, sarei un avvocato – forse, non so, forse un avvocato penalista. Sarei l’avvocato di Robert.
Traduzione di Pietro Cecioni
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma