Tinto Brass: “Il cinema erotico è stata la mia ribellione, le femministe mi stanno rivalutando”

Il regista rivendica il suo cinema come atto di sovversione. “Lo capiscono di più le giovani generazioni che la vecchia critica. Ho ancora tante sceneggiature". L'intervista con THR Roma

“Io ho fatto il cinema erotico perché il potere non lo considerava, è stata la mia ribellione”. Tinto Brass, 90 anni, conserva tutta la sua irriverenza nonostante le pantofole di feltro ai piedi. Siede all’angolo del divano di casa sua. Il sigaro consumato in bocca, gli occhiali rossi calati sul naso. Un colpo di tosse e uno sbuffo di fumo. La stanza è dominata dalla immagine di due glutei appesi al muro. È il manifesto elettorale di Brass, che nel 2010 si presentò alle elezioni con i Radicali: “Meglio un culo che una faccia da culo”, c’è scritto. Ogni spazio è occupato da libri, molti su Venezia, la città dove è cresciuto. Dietro di lui, un grande fallo di legno campeggia sul tavolo da pranzo. Davanti, una fotografia di Caterina Varzi, la sua seconda moglie dal 2017, avvocata, psicanalista e attrice, con i seni scoperti in un gioco di luci e di ombre. Dopo l’emorragia cerebrale che lo ha colpito nel 2010 è lei ad avergli ricostruito la memoria, raccontandogli il suo archivio. E adesso, con tenerezza, lo aiuta a terminare le parole quando non arrivano.

“Ho fatto sempre quello che volevo”, dice Brass. “Oggi c’è una maggiore attenzione al mio cinema”. Formato dalla francese Nouvelle Vague, voluto da Umberto Eco a dirigere corti per la Triennale di Milano, esaltato da Alberto Moravia, attaccato da Elvira Banotti. Negli ultimi anni gli sono state dedicate diverse retrospettive, in Italia, in Francia, in Spagna. Nel rendergli omaggio per i 90 anni, il Centro Sperimentale di Cinematografia ha acquisito il suo archivio personale. “Anche alcune femministe mi stanno riscoprendo”.

Un premio della Giuria nel 1971 e quarant’anni di messa al bando. Qual è il suo rapporto con la Mostra del Cinema di Venezia?

Non ho più rapporti con la Mostra di Venezia. Ho presentato dei film e sono anche andati bene. Nel 1971 La Vacanza con Vanessa Redgrave e Franco Nero ha vinto il Premio della Giuria. Nerosubianco del 1967 mi ha però bandito. Mi sono divertito poi con qualche trovata provocatoria, come nel 2005, quando per la promozione di Fermo Posta mi presentai in gondola con le mie attrici. Questa vicenda mi è costata un processo per atti osceni in luogo pubblico e una multa. Ma con Nerosubianco sono anche tornato, dopo 42 anni. Nel 2009, sotto la direzione di Marco Müller, il film è stato inserito nella sezione “Questi Fantasmi – Cinema Italiano ritrovato”, e ho presentato il mio nuovo Hotel Courbet, un corto con protagonista Caterina. Considero quel momento come uno sdoganamento dell’erotismo. Ma io ero sempre lo stesso.

Alla fine del film Miranda (1985), con Serena Grandi, appare una lapide con i nomi storpiati dei critici di cinema. Li vorrebbe ancora vedere “morti”? Che rapporto ha oggi con la critica?

Ogni volta che un critico diceva qualcosa di male sui miei film io sapevo che la direzione era giusta. Le critiche mi facevano bene, mi rinvigorivano. E non ho mai messo in discussione il mio lavoro a causa della critica. I critici non capivano niente. Perché non volevano capire. I miei film erano inammissibili per i canoni degli anni Ottanta. Oggi non conosco la critica. Mi ha lasciato nell’oblio anni fa e lì sono rimasto.

Monella di Tinto Brass

Monella (1998)

Però negli ultimi anni c’è una riscoperta del suo cinema.

Sì, e mi fa piacere. Finalmente c’è una maggiore attenzione per il mio cinema. Qualcuno ha iniziato a guardare al mio lavoro anche oltre l’Eros e a considerare l’erotismo un genere. Soprattutto vedo un interesse da parte dei giovani. Anche dei giovani artisti. Ho sentito la canzone Cinema di Francesca Michielin e Samuel in cui vengo citato. E Achille Lauro mi ha proposto di comparire nel suo ultimo videoclip ma per me ormai è complicato muovermi. So che si parla dei miei film all’università. Qualche giorno fa ha bussato alla porta un ragazzo cinese che studia a Parigi. Aveva fatto delle ricerche. Mi ha detto: “Non posso andar via da Roma senza aver conosciuto Tinto Brass”. Sono stato contento.

Qualcuno potrebbe prendere in eredità il suo cinema?

No. Non penso di avere eredi cinematografici.

Lei ha detto di essere stato deluso dal ‘68. Questa delusione ha contribuito all’esplorazione della sessualità nella sua produzione?

Sì, molto. Il ‘68 mi ha deluso perché non mi ha dato la libertà che aspettavo e in cui credevo. Non c’è stata nessuna rivoluzione libertaria. Io ho fatto il cinema erotico perché l’autorità non lo considerava tale e mi metteva i bastoni tra le ruote. L’erotismo è diventato uno strumento anarchico, come dal mio primo film è stato il mio cinema. Proprio nel 1968 ho pensato che ci fosse bisogno di un linguaggio di ribellione accessibile a tutti.

Oggi l’abbiamo fatta la rivoluzione libertaria?

No, non è ancora accettata. La libertà di una persona si misura innanzitutto in relazione alla sua libertà sessuale. E oggi il sesso è scomparso dal cinema o viene mostrato solo in apparenza, stereotipato, non vero.

Recenti studi dicono che i giovani non fanno più sesso. Che ne pensa?

Se non fanno sesso non conoscono la vita. Forse sono depressi e senza desiderio. Di sicuro la sessualità in passato era mistificata, può darsi che loro l’abbiano de-mistificata. E forse è anche per questo che i giovani mantengono un interesse per il mio cinema, perché ha un alone di magia. Credo che oggi il mistero della sessualità, il gioco, si è perso. Il sesso è diventato un bene di consumo come gli altri.

Tinto Brass

Tinto Brass, ritratto.

C’è differenza tra erotismo e pornografia?

No. Trattano lo stesso oggetto. Il punto è la mediazione estetica. Se c’è una differenza è quella sul piano formale. La pornografia di facile accesso è diversa da quella d’autore: è robaccia su internet, senza bellezza. Mi incuriosisce invece il mondo della soggettività, la rappresentazione personale, l’assenza di mediazione nel mostrare il proprio corpo, come su Onlyfans.

Tra poco uscirà su Netflix Supersex, una serie su Rocco Siffredi, interpretato da Alessandro Borghi. La serie è stata scritta e ideata da Francesca Manieri. La vedrà?

Non guardo le serie tv. Rocco Siffredi lo reputo bravo, l’ho sempre considerato, gli ho anche proposto dei ruoli. Le donne sono più preparate per questi prodotti.

Le femministe non hanno amato i suoi film.

Io rivendico che i miei film sono femministi. Da Nerosubianco la donna è soggetto, non oggetto. Vive in maniera consapevole la sua libertà sessuale, sceglie il suo diritto al sesso. Da questo punto di vista le donne sicuramente si sono emancipate. Anche alcune femministe mi stanno riscoprendo. Michela Murgia voleva scrivere di me.

Si tratta sempre di un regista uomo che “muove” le donne.

Un regista “usa” gli attori.

Oggi sui set c’è il coordinatore di intimità. Un ruolo che serve a far sì che tutti si sentano a proprio agio nelle scene di sesso.

Una specie di psicologo? È inutile. L’intimità non si spiega, è qualcosa di naturale. Anche quando si filma.

Quindi a Stefania Sandrelli ne La Chiave non ha spiegato niente?

Già aveva capito tutto lei. Certo, poi devi saper tirare fuori la sessualità e l’erotismo dalle attrici. Ma era una cosa naturale, non dovevo spiegare niente.

E come faceva a tirar fuori la sensualità?

Veniva da sé. Il copione deve essere scritto in modo che gli attori entrino nel personaggio. Quindi non c’è bisogno di dire altro, si sa tutto nei minimi particolari quando si arriva sul set. La sceneggiatura è fondamentale, si deve già respirare l’eros, come l’atmosfera. E poi il montaggio. Io ho sempre montato i miei film. E mentre giravo, con tre macchine da presa, avevo già in mente il film completo.

Le manca stare sul set?

Sì. Ho ancora tante sceneggiature inedite che vorrei girare. Continuo a revisionarle con Caterina.

Ci sono delle attrici di nuova generazione a cui proporrebbe un ruolo?

Non so se ci sono. Non guardo tanto il cinema di oggi. Se ci sono, io le aspetto qui.

 

L’articolo originale è stato pubblicato sul magazine The Hollywood Reporter Roma di agosto.