Tutto, ma proprio tutto Gabriele Muccino: “Gli inferi dell’anima sono il filo rosso del mio cinema”

"Siamo definiti dalla sopraffazione, ci piaccia o no, ed è il motivo per cui la guerra è l’orologio a pendolo della storia". Il regista parla a THR Roma dei suoi successi, dei suoi fallimenti, della paura di sbagliare, di Hollywood, del sogno di tornare a lavorare con Will Smith. E confessa: "C'è un pregiudizio verso i miei film, da sempre"

Gabriele Muccino è uno degli autori più importanti del cinema italiano. E internazionale. Te ne rendi conto dalle reazioni forti che suscita tra i critici o i colleghi e il pubblico (molto più tra i primi, l’affetto degli spettatori è quasi unanime) da decenni.

Da L’ultimo bacio – che nel 2006 ha visto anche un remake Usa, diretto da Tony Goldwin, The Last Kiss – fino al suo ultimo successo, la seconda stagione della serie A casa tutti bene, andata in onda su Sky Italia, ispirata a un suo film campione d’incassi (come gli accade quasi sempre). È uno dei pochissimi autori italiani ed europei ad aver avuto successo negli Stati Uniti, lavorando nell’industria nordamericana e non solo esportando i propri capolavori, ha lanciato almeno tre generazioni di attori: Pierfrancesco Favino, per dirne uno, fa un pugno di pose ne L’ultimo bacio, Stefano Accorsi diventa un divo grazie a lui. E l’elenco è lunghissimo. A The Hollywood Reporter Roma racconta la sua carriera, quest’ultimo successo, i suoi anni a Hollywood, il suo rapporto con Will Smith e l’idea di un altro film insieme dopo il bellissimo La ricerca della felicità.

Dopo aver visto A casa tutti bene 2 hai l’impressione di essere davanti a Ettore Scola che gira Festen, il tutto mixato a un Succession fatto meglio.

La prima parte della frase mi piace molto, sento forte l’eredità di un grande regista che ha saputo raccontare la famiglia, le relazioni, il dolore di vivere e sopravvivere a sé stessi e a tutto ciò che ti succede nella vita, le nostre contraddizioni. Da C’eravamo tanto amati a La terrazza. E sì, le famiglie che racconto io, e in particolare le due di A casa tutti bene, potrebbero tranquillamente sedere al tavolo del film di Thomas Vinterberg. Su Succession ho intuito subito che potevano esserci punti di contatto e quindi ho deciso di vederlo solo dopo aver finito la prima stagione. E mi sono fermato quasi subito per non farmi contaminare. Peraltro Scola, insieme a Umberto D. di Vittorio De Sica, è citato in questa seconda stagione. Esplicitamente.

Il suo stile è così riconoscibile che basta una scena per capire se un film è diretto da lei o meno. E soprattutto chi ha provato a imitarla o emularla ne è uscito con le ossa rotte. Come mai?

Quando qualcuno ha provato a fare il Muccino è stato un disastro, ma non farmi essere così arrogante. Lo so di avere un linguaggio molto personale, e so che nasce anche da errori. Quando ho iniziato in tv le troupe, i capireparto non erano sempre all’altezza e se non mi fidavo del montatore, ad esempio, ecco che facevo i piano sequenza. E un problema lì si è trasformato in opportunità. Il punto però è che devi sempre avere una visione, altrimenti cadi nel compito a casa, nel cinema sotto dettatura. E forse è per questo che molti mi hanno imitato senza successo.

Guardando la sua carriera, ha sempre avuto le idee chiarissime su cosa raccontare e soprattutto come.

Ha ragione, fin dal mio esordio io portavo sul set un elenco inquadrature precisissimo, con tanto di obiettivi da usare, indicazione di dove, come e quando fare i carrelli. E questo è uno dei motivi per cui quando sono arrivato, con il mio cinema, ho fatto sbandare un po’ tutti. Ricordo il mio primo montatore per il cinema che chiama il produttore di Fandango, Domenico Procacci, e urla che il film non c’è, che non può montare ma solo incollare una scena all’altra. E pochi giorni dopo scopre che, facendolo, il film c’è, esce fuori. Ma quello più clamoroso è stato lo sbandamento dei critici, me lo ricordo bene, soprattutto dopo L’ultimo bacio, il primo successo non comico al botteghino per un film italiano dopo diversi anni. Lì iniziai a fare paura. E sono passato da Bertolucci che mi diceva “mi ricordi me da giovane” a essere antipatico a tutti. A Hollywood sono stato più classico, perché loro devono poter mettere mano sul montaggio. Ho girato alla Vittorio De Sica, un modo moderno e che non invecchia. Però ho un po’ raffreddato il mio stile, altrimenti mi avrebbero cacciato.

È diventato più noir, più scuro, più “cattivo” con gli anni?

Il thriller è un linguaggio che mi è sempre appartenuto, anche se non ne sono stato del tutto cosciente fino ad ora. Ma entrare negli inferi dell’animo, nella zona oscura presente nella natura umana quando l’uomo è davanti a un enorme stress davanti al quale può solo fuggire o combattere, fly or flight, in fondo è una costante del mio cinema. Possiamo soccombere o uccidere, è la dinamica implacabile connaturata alla storia dell’uomo fin da quando è comparso sulla terra. Siamo definiti dalla sopraffazione, ci piaccia o no, ed è il motivo per cui la guerra è l’orologio a pendolo della storia, disegnata da conflitti a tempi regolari.

Lei è più uno che fugge o che combatte?

Io sono più attratto dalle sfide difficili che da un film facile, in quel caso mi annoio e finisco per sbagliare: devo aver paura, devo provare emozioni forti. Non ho mai la tentazione di fuggire, se qualcosa è complessa mi attrae, le vado incontro, mi dà stimoli. Devo sempre dimostrare a me stesso di riuscire a fare qualcosa che sembra impossibile. Però fuggo dal passato. I miei film non li rivedo mai, al massimo se li incrocio in tv e ne ho un bel ricordo rimango 5 o 6 minuti su quelle immagini, poi basta. Non mi compiaccio mai, anzi mi assale la paura: di non saper rifare ciò che mi piace o di trovare qualcosa che trovo tremendamente sbagliato. Fuggo dal passato perché ormai è archiviato, fuggo verso il futuro. Ho sempre l’animo di chi è in panchina e sta per esordire nella finale del mondiale. Perché io l’ho giocata e so cosa vuol dire.

I segreti del successo di Gabriele Muccino?

La paura di sbagliare. E mettersi sempre in discussione, rimanendo un leader che sappia guidare anche 200 persone. Visione e leadership sono necessarie per dare certezze a chi lavora con te.. Non ti devi mai rilassare, devi coltivare il dubbio e saper prendere decisioni difficili, non devi mai pensare di aver fatto abbastanza. Altrimenti ti rilassi e fallisci. Ovunque tu arrivi, non hai mai fatto un cazzo. L’unica volta che non ho avuto leadership, con troppi produttori a strapparmi il film dalle mani e quindi a sabotarmi, è stato sul set di Quello che so sull’amore. Il cineasta lì era solo uno shooter, un ostaggio. Sono arrivato persino a dubitare del mio talento, quell’impostazione di lavoro era l’antitesi di ciò che io considero cinema. Venne male quell’opera perché finisci per essere come uno chef a cui spengono il forno mentre cucina. Ce ne sono anche altri che ricordo come complicati: d’altronde alcuni lungometraggi si spiegano davanti a te come un’autostrada libera, altri sono più tortuosi, con trame meno felici, scritture meno brillanti. Ma poi li rendi belli, lavorandoci tanto e li ami un po’ di più. Per fortuna in quel caso arrivò Padri e figlie con Russell Crowe che mi riconsegnò un po’ di fiducia in me stesso.

Quali sono stati i suoi film più sottovalutati?

Sette Anime. Ma solo negli Stati Uniti, per colpa del marketing che lo vendette per ciò che non era, un thriller tout court. E poi uscì nel 2007, nel pieno della prima crisi finanziaria della bolla immobiliare in cui chiedere a qualcuno di empatizzare con chi regala i propri organi per redimersi non era il massimo. In Europa fece 100 milioni anche perché la crisi non era ancora arrivata e si era più disposti a vedere un dramma di quel tipo. E poi Gli anni più belli, perché C’eravamo tanto amati era solo un’ispirazione e molti l’hanno invece confrontato con il mio film, come se avessi voluto fare un remake: un’operazione squallida da parte dei critici. C’è un pregiudizio verso i miei film da sempre, un pregiudizio che poi alla fine mi ha portato a uscire dai David di Donatello come giurato e competitor. Non volevo stare più male perché venivo ignorato nel mio Paese, dagli addetti ai lavori. Ho capito che dovevo smettere di giocare in quel campionato.

Lei ha detto che in Italia perdonano tutto e tutti, tranne i vincenti.

Quella fase di vittimismo l’ho superata. C’è stato un momento in cui mi sono sentito messo all’angolo da chi faceva cinema. Ma devo riconoscere che anche io ero snob, non volevo essere in nulla simile a chi girava film quando ero io giovane, per me erano l’anticinema, io guardavo all’epoca che andava dai Sonego a Scola, da Risi a Leone. Ma allo stesso tempo nel mio immaginario, nel mio bagaglio visivo c’erano Oliver Stone e Woody Allen, lo stile appassionato e barocco del primo, l’uso della steadycam che con James Cameron divenne arte. Amare Allen poi vuol dire conoscere Bergman e Fellini, di cui il buon Woody, nelle sue opere migliori, riproduceva molti stilemi declinati dalla sua visione particolarissima. C’era in me quindi un certo cinema italiano investito da tante molecole del cinema pop americano. Ma è Oliver Stone che mi fece capire cosa volevo dal cinema, Assassini nati è stato una rivelazione per me, di questo cineasta mettevo qualcosa persino quando facevo per il servizio pubblico televisivo Ultimo minuto. In Assassini nati c’è un momento di definizione per me, l’uso di inquadrature oblique, cartoni animati, quell’esplosione di visionarietà, potentissima, ha portato nel mio cinema la voglia di essere dinamico, non volevo una ripresa distante dall’azione, ma interna a ciò che accadeva. Da allora ho iniziato una danza con gli attori, le scenografie, gli spazi che non si è ancora fermata.

E Hollywood? È una grande opportunità o una trappola?

Hollywood per me è stata solo una grande opportunità. Non è un mondo facile: La ricerca della felicità arrivò dopo vari tentativi collassati. Due progetti con Harvey Weinstein, mai andati in porto, uno con Al Pacino che finì male per vari motivi. Quando si propose Will Smith avevo perso fiducia nella possibilità di realizzare il mio sogno americano e di farlo in quel sistema. E mi avevano cercato loro! Fu Miramax che volle mettermi sotto contratto per due film. Ricordo la prima settimana di lavorazione: girai al meglio, ma con il trasporto emotivo che avrei potuto mettere in una pubblicità, ero talmente pronto a essere licenziato e disarcionato che ci misi un po’ a capire che stavo facendo un film con la movie star del momento, con un budget enorme e per la Columbia, nei luoghi in cui avevano camminato Buster Keaton e Clark Gable. E che quel film l’avrebbero visto in tutto il mondo.

Poi cosa è successo?

È diventato il mio film più conosciuto. Ovunque vada, vengo riconosciuto e ricordato per La ricerca della felicità. Dalle stelle alle stalle è una formula perfetta se sai cavalcarla, è così ispirazionale da averlo reso iconico. I film che ti commuovono, che ti cambiano la visione delle cose, che diventano parte di te, li ricordi. Sono quelli che diventano quelli che chiamiamo classici e capolavori, da Ladri di Biciclette a Kramer contro Kramer per pescare in generi radicalmente diversi. Noi siamo i film che ci hanno realmente emozionato, non i blockbuster che abbiamo visto. Quelli sono belli e piacevoli, ma per sciacquarti la testa. Però dopo due ore già cominciano ad andarsene.

Mi commuove ancora la scena nel playground tra Will Smith e il figlio…

Pensare che quella scena era stata scritta in modo diverso. Ma non mi convinceva: ne parlai con Will e gli dissi che farla finire con lui che dice al bambino che deve capire in cosa eccellere e ciò per cui non è portato non basta, rende la narrazione, la carica emotiva monca. Ne parliamo, e ci diciamo che quel film è impregnato sì di realismo e di dolore, è fondato sull’idea del lavoro come ricchezza, ma è fatto anche e soprattutto di sogno. E allora penso, pensiamo a quella frase. “Non permettere a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa, nemmeno a me”. E lì forse entrambi capiamo il senso profondo, irrazionale del film, che non è solo la storia di un reborn, di uno che ce la fa, ma anche un romanzo di formazione che vede al centro quel bambino eccezionale. E poi disincantare il figlio e basta non faceva che replicare il modello crudele con cui la moglie lasciava il protagonista: infatti in quella scena c’è anche la frase “ti dicono che non lo sanno fare perché loro non riescono a farlo”, la grande regola per cui i perdenti tutelano il loro esserlo. Vogliono che tu non ce la faccia, perché loro non ce l’hanno fatta. E mi colpisce che ti commuova ancora così tanto, ti sono venuti gli occhi lucidi mentre lo raccontavi. Ecco questo è quello che cerco dal cinema.

In quel bambino c’è un po’ di Gabriele Muccino?

Certo, c’è mio padre che continuava a ripetermi “uno su un milione riesce a fare il cinema, fai qualcosa di più sicuro” e poi “magari fallo in tv” e io che gli dicevo “no, farò cinema, fra 20 anni vincerò un Oscar”. E questo mi ha permesso di non mollare mai, finché non ho esordito a 30 anni, dopo 8 o 9 di esperienza televisiva e dopo che Gianni Minoli, giornalista che per primo credette in me, mi mandò in Africa e lì riflettei sulla mia arte e sulla natura umana. Un viaggio fondamentale.

Poi arrivò Ecco fatto. Come riuscì a esordire?

Portai a Domenico Procacci e Leo Pescarolo un corto, perché tanto sapevo che centinaia di pagine di sceneggiatura sono una condanna alla persona a cui le dai. Il secondo esitava (ironia della sorte. Pescarolo è stato un produttore geniale che però non credette in un altro autore: Oliver Stone, che gli aveva portato Platoon, ndr), il primo voleva farlo per la tv forse perché non sembravo un autore serioso come quelli che facevano cinema in quegli anni – era il 1997 – ma un ragazzo che considerava il cinema suo modo di esistere.

Il cinema è così importante per lei?

Lo è sempre stato: fin da allora mi ha aiutato a definire chi fossi, anche perché da adolescente la socialità mi era inibita dal fatto che balbettavo. Con il cinema io dicevo: eccomi, io esisto, io penso, io sono.

Si ricorda la prima emozione provata nel vedere il suo esordio in sala?

Quando vidi il mio film che partiva davanti alla sala vuota, mi mancò il respiro. Fu durissima. E quando dopo qualche giorno la rividi piena, perché al Quattro Fontane (una storica sala al centro di Roma, ndr) il passaparola aveva funzionato, ho capito che il cinema non è solo un’arte, ma che ha connaturato in sé la necessità di essere fruito, di non poter prescindere dal pubblico. Ecco perché la visione nordamericana per cui il marketing è il 50% del film per me non è un minus, ma è parte della natura del cinema. Lì girano scene che non sono nel film per metterle nel trailer, e allo stesso modo io fin dal set penso a come promuoverlo. Devi pensare al pubblico, non ignorarlo. Anzi, il pubblico devi proprio amarlo.

Come costruisce il suo rapporto con gli attori?

Il mio rapporto con gli attori è ombelicale, senza di loro non posso segnare, loro sono i giocatori e  io l’allenatore. No, a dir la verità il mio ruolo è meno passivo, sono sempre in campo con loro, ma senza gli attori non posso vincere. Faccio loro i raggi X, mi interessa il loro talento ma ancora di più la loro natura, che mi porterà a disegnare il loro ruolo in un modo o nell’altro. Loro mi suggeriscono le passioni, le fragilità dei loro personaggi. Io sento emozioni e sensazioni, anche fisiche, attraverso di loro. Gli sono sempre addosso, se devono soffrire io li porto a provare dolore, non mi basta la simulazione della realtà, anche se fatta benissimo. C’era un’osmosi meravigliosa tra me, la scrittura e il cast. Ecco perché quasi tutti sono stati letteralmente posseduti dal personaggio.

Per questo non di rado le sue scelte di casting sono “inusuali”?

Io fortunatamente vedo poco di quello che fanno in Italia, guardo tanto cinema internazionale. E così sono molto più sereno e lucido nella scelta, vedo solo ciò che mi attrae per argomento o talento dell’autore nel nostro Paese. Non so molto di ciò che succede attorno a me in Italia, è da quando sono tornato dall’America che è così, mi sono centrato su un’attenzione diversa sul vero star system, su ruoli come quello del produttore fortemente diverso dal nostro. Dopo anni oltreoceano, tornato qui sembravo venire da Marte, erano cambiate troppe cose, a partire dai nomi, e avvicinandomi non ho avuto una buona sensazione. E allora sono rimasto più in una dimensione internazionale, amo più certi film norvegesi che i film italiani che si pensano per un campetto di quartiere e non per il Maracanà. E io ci ho giocato al Maracanà.

Negli Usa, fossi in lei, tornerei proprio con A casa tutti bene.

A una versione statunitense ho pensato, ma non so se la farò. Nel caso, dovrebbero essere ebrei, che assomigliano a noi italiani, per convivialità, nel verbalizzare le loro emozioni. La comunità wasp è più riservata, tende a implodere.

Oppure potrebbe dare la parte del protagonista a Will Smith che agli Oscar 2022 ebbe nei confronti di Chris Rock una reazione molto mucciniana, con quel famoso schiaffo…

La comunità nera è perseguitata dallo stereotipo di essere sanguigna, di usare le mani facilmente e quello di aver confermato questo pregiudizio non glielo perdonano. Magari qui non lo immaginiamo, ma la reazione più dura a quel gesto è venuta proprio dalla comunità degli afroamericani. Will ha fatto una cosa terribile, ci penso da allora, anche perché so da dove viene quello schiaffo. Non posso parlarne e non lo farò mai, ma so il dolore che l’ha generato e la penitenza e la flagellazione che sta patendo. Lui non è così ma ci è diventato, perché quel sistema ti fa uscire fuori di testa. E per Hollywood ciò che ha fatto è una cosa gravissima, e Hollywood non perdona. Sa essere smemorata se dopo un grande successo fai un flop, ma ha una memoria da elefante quando sbagli, a quel punto dimentica tutto ciò che di buono hai fatto. Adorano metterti una lettera scarlatta addosso.

Tornerete a lavorare insieme?

Io mi commuovo ancora al pensiero di quanto lui si sia ostinato a credere nella mia visione anche quando non la capiva del tutto, quanta fiducia abbia avuto in me e quanto mi abbia sostenuto. Per me è comparabile a una storia d’amore la nostra, c’è un legame molto forte, non ultimo perché condividiamo il film più importante delle nostre carriere, entrambi credo siamo riconosciuti nel mondo per La ricerca delle felicità. Sì, credo proprio che un giorno faremo un film internazionale insieme, non con soldi hollywoodiani ma sono sicuro che accadrà. Quello che abbiamo vissuto insieme è speciale, continuo a stimarlo tantissimo e a volergli bene. E il suo talento è raro e non deve andare perso.

Ultima domanda. Il film e la serie tv che quando si ritrova davanti non riesce a fermare.

Vado a istinto. I film sono Otto e mezzo, Il Padrino, Amadeus e Una giornata particolare. La serie, Breaking Bad.