Visi bruciati, impastati di sudore, sguardi disfatti, appena coscienti. Un inferno di polvere e fuoco, dove uomini svuotati di vita e respiro separano la pietra dal carbone. Una miniera di carbone: l’inferno. Siamo in Mongolia Interna, una regione a nord-est della Cina. Terra infranta dalle cave, dal siderurgico, dai metalli rari. Avvelenata nel suolo, nell’aria, nell’acqua e nelle anime. È questo il mondo che racconta il film documentario Behemoth di Zhao Liang. Uscito nel 2015, è stato presentato in anteprima alla 72a edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Zhao Liang censurato in patria
Zhao Liang è un regista di poesia e disperazione. È nato nel ‘71 nella Cina nord-orientale, a Dandong – città industriale affacciata sul Mar Giallo, con la Corea del Nord appena oltre il fiume Yalu, a quasi 900 km da Pechino – si è laureato a ventidue anni alla Lu Xun Academy of Fine Art e solo un anno dopo, nel 1993, si è trasferito nella capitale per lavorare prima come fotografo, poi anche come videomaker e documentarista. Vive ancora lì, nonostante i suoi film siano censurati in patria (e guardati però sottobanco da un buon numero di compatrioti). Film duramente critici, che raccontano un’autorità tesa a spegnere ogni scintilla.
In Farewell Yuanmingyuan del ’95 narrava gli ultimi giorni dell’omonima comunità artistica, la prima sorta spontaneamente e dal basso in Cina, in cui dall’89 si riunivano centinaia di poeti, pittori e musicisti con una libertà che quell’anno, il ’95, fu giudicata ampiamente eccessiva dalla polizia di Pechino: fu chiusa e molti artisti furono arrestati. Paper Ariplane del ’97 invece segue un gruppo di amici punk che cerca spazi di libertà nella Cina degli anni Novanta e ne trova sempre meno.
Nel 2009 arriva al Festival di Cannes Petition: un documentario che racconta l’odissea legale di un gruppo di cittadini che vogliono sporgere denuncia verso funzionari statali corrotti e per farlo devono viaggiare fino a Pechino e lì vivere in baraccopoli nell’attesa che il Castello risponda, che si trovino i documenti, che il processo faccia il suo corso.
Attesa infinita, tempi sospesi, fino a perdere i contatti con le proprie motivazioni, con la vita precedente, la famiglia, gli amici – come in un libro di Kafka, dove spesso non c’è finale perché non c’è fine. La versione integrale del film, per rendere al meglio questa sensazione, durava ben cinque ora, ma venne proiettata interamente solo nel 2013 al MoMA di New York durante l’espoizione Chinese Realities/Documentary Visions.
Petition termina nel momento in cui la costruzione di una nuova una stazione metropolitana per le Olimpiadi del 2008 porta le autorità a radere al suolo l’accampamento dei firmatari di questa petizione: ecco che nella visione di Liang consumo di vita umana e di suolo cominciano a incontrarsi.
Città fantasma, pulite e senza vita
Sei anni dopo arriva Behemoth, una “meditazione critica sulla società moderna in cui si accumula ricchezza mentre l’uomo perisce”, dice Liang in un’intervista. La pianura edenica della Mongolia Interna è frantumata da una miniera di carbone e acciaio, vediamo esseri umani spostati come pedine per costruire altrove un insensato “sviluppo umano”.
Materiali ed energia saranno usati per creare città fantasma, pulite, ordinate e senza vita: città in cui gli esseri umani, vivi e liberi, non sono previsti. Behemoth è raccontato come una Divina Commedia, un viaggio in un girone dell’inferno fatto di polvere nera che ricopre tutti, di frastuono delle macchine, di terra sventrata, camion che trasportano avanti e indietro il materiale estratto, uomini sottoterra come fantasmi nelle miniere.
E poi gambe gonfie, malattie polmonari e un’infinita, infinita stanchezza. Quella che svuota insieme alla terra le persone. “Non c’è mai un momento di pace per un uomo stanco”, dice la voce narrante, dolce e triste, che accompagna le immagini, fra il nero infernale e il ricordo di prati verdi, pecore e pastori.
Radiazioni nucleari senza fine
Dal carbone e dall’acciaio Liang passerà a raccontare il nucleare. I’m so sorry è del 2021. È sempre un documentario, e la chiave è sempre quella della poesia, di immaginari letterari evocati, toni pacati e profetici, la disperazione come costante protagonista. Con poesia Liang raccoglie immagini reali: operai che smantellano centrali nucleari per seppellire nelle profondità di Onkalo, in Finlandia, scorie che resteranno radioattive per 100.000 anni; e poi persone che dalle loro terre irradiate non vogliono andarsene.
Racconta i paesaggi apocalittici in cui si sono propagate radiazioni, da Fukushima a Chernobyl, fino alla segreta Semipalatinsk, in Kazakistan – dove i Sovietici hanno condotto per quarant’anni test nucleari tacendo l’impatto delle radiazioni su abitanti e ambiente. Una sorta di assaggio nel presente degli effetti che in futuro potrà avere il mantenimento dell’attuale sistema di sviluppo, velenoso e letale.
Fuoco d’inferno e burocrazia per Zhao Liang
Zhao Liang racconta il potere opprimente del suo paese, senza lasciarlo, un po’ come non si può lasciare questo pianeta di cui svela gli inferni attivi e paventa quelli futuri. Tutti i film, pur descrivendo situazioni concretissime e presenti, da quel suo sguardo delicato e letterario, onirico e mitologico insieme, vengono elevate tanto all’assoluto quanto al futuro. All’assoluto, perché quegli inferni si possono ritrovare se non nella realtà almeno nelle paure e nell’immaginazione di ogni tempo.
Al futuro perché questi inferni presenti non sono solo denuncia ma anche monito: più intensamente si svuota e si svuoterà la terrà delle sue risorse, più profondamente e interamente si svuotano e si svuoteranno di vita gli esseri umani. Coincidono, nella visione di Liang, il fuoco dell’inferno, la lavorazione incandescente dell’acciaio, la burocrazia fredda e lontana del potere, l’esistenza sospesa ed estenuata di chi ne è in balia.
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