William Friedkin, il regista premio Oscar per Il braccio violento della legge e nominato alla statuetta per L’esorcista, uno dei più amati registi emersi dal gruppo di brillanti cineasti che lasciarono il segno negli anni ’70, è morto lunedì. Aveva 87 anni.
Friedkin è morto a Los Angeles, come ha dichiarato la moglie, ex produttrice e responsabile dello studio, Sherry Lansing. I suoi film, che comprendono anche Il salario della paura del 1977, Vivere e morire a Los Angeles del 1985 e Bug – La paranoia è contagiosa del 2006, sono stati caratterizzati da una potenza visiva eccezionale, dalla volontà di prendere un soggetto di genere e trattarlo con grande serietà, e dall’uso del sonoro come elemento in grado di aggiungere un livello ulteriore di terrore, mistero e dissonanza alle storie – una qualità infestante e ossessionante che trasportava le sue opere viscerali in un altro territorio, trasmettendo un senso di “paura e paranoia, entrambi miei vecchi amici”, come disse nel suo libro di memorie del 2013, The Friedkin Connection.
Friedkin ha fatto parte di una brillante generazione di registi che ha messo in crisi il sistema degli studios, realizzando film provocatori, individualisti e antiautoritari. Molti di quegli artisti si unirono per creare la Directors Company, nel tentativo di garantirsi quell’indipendenza cui tendevano. Ma i disaccordi interni portarono presto al suo scioglimento.
Si potrebbe discutere su chi tra questi registi fosse il più talentuoso, ma nemmeno il più coraggioso di loro avrebbe potuto competere con la volontà di Friedkin di andare contro l’establishment. Quando Alfred Hitchcock lo rimproverò per non aver indossato la cravatta sul set (aveva ingaggiato il giovane regista nel 1965, per un episodio de L’ora di Hitchcock della NBC), Friedkin si vendicò: la sera in cui vinse il Directors Guild Award per Il braccio violento della legge (1971), incrociando Hitchcock mentre usciva dal podio gli strappò il papillon dicendo: “Ti piace la cravatta, Hitch?””.
Non avrebbe sorpreso lo stesso Hitchcock sapere che Friedkin venerava comunque la sua opera, così come quella di Orson Welles. Vide Quarto Potere per la prima volta a 25 anni. Fu un vero cineasta, a sua volta venerato da una generazione più giovane: poco prima che Damien Chazelle diventasse il più giovane regista a vincere un Oscar (per La La Land), si recò in pellegrinaggio a casa di Friedkin, a Bel-Air, solo per incontrarlo.
Anche in opere che avrebbero potuto essere film di serie B se le avessero girate altri registi, Friedkin riusciva a stupire per la sua abilità e originalità. L’esorcista (1973), uno dei suoi film più amati, inizia in un deserto del Medio Oriente, dove un anziano si imbatte in un sito archeologico che ha attirato l’attenzione degli altri. La sequenza è terrificante, non solo per le immagini desaturate e le interpretazioni naturalistiche che catturano l’atmosfera del luogo, ma anche per una colonna sonora in cui un ronzio insistente che ricorda le mosche – forse il signore delle mosche in persona – diventa sempre più forte e minaccioso.
È ironico che né Friedkin né William Peter Blatty, autore del romanzo da cui è stato tratto il film, abbiano considerato L’esorcista come una storia dell’orrore, ma piuttosto come un dramma, da raccontare in modo completo e ricco come qualsiasi altro genere. Friedkin è rimasto affascinato dall’argomento per tutta la vita e vi è tornato nel suo ultimo film, un documentario sul più vecchio esorcista vivente, The Devil and Father Amorth (2017), in cui ha personalmente governato la macchina da presa durante un esorcismo.
Il braccio violento della legge (che valse a Friedkin l’Oscar) avrebbe potuto essere un film di routine; invece lui riuscì a trasformare il freddo pungente di un inverno newyorkese in una presenza tangibile come lo spirito maligno de L’esorcista, e ineluttabile per gli antieroi del film, due detective di New York interpretati da Gene Hackman e Roy Scheider, che attraversano un luogo urbano disseminato di macerie e detriti umani quasi indistinguibili le une dagli altri. Il male si annida in queste strade malfamate proprio come nell’elegante casa abitata dalla dodicenne Regan (Linda Blair) ne L’esorcista.
Il bene e il male incuriosivano Friedkin, ma in molti dei suoi film la linea di demarcazione tra i due era molto sottile. Ciò che separava i suoi eroi dai cattivi erano spesso le intenzioni piuttosto che le azioni. Il personaggio interpretato da Hackman ne Il braccio violento della legge lo terrorizzava, anche se si basava su un detective realmente esistito – Friedkin dovette spingere con forza l’attore a impersonare quell’uomo e i suoi modi rudi, prepotenti e bigotti.
Un profondo pessimismo permeava le sue opere – persino L’esorcista e Il braccio violento della legge, i suoi film più commerciali, si concludono non con un trionfo ma con un parziale fallimento, con la morte di un giovane prete in uno e la fuga del genio del narcotraffico nell’altro – anche se nella vita il regista era spiritoso, divertente e molto impegnato, fino alla fine. La complessità etica dei suoi film li ha resi simili a Chinatown (Roman Polanski), Il Padrino (Francis Ford Coppola) e L’ultima corvé (Hal Ashby), altri capolavori degli anni Settanta, tutti nati dal cinismo della guerra del Vietnam e dal Watergate.
William Friedkin è nato a Chicago il 29 agosto 1935, figlio unico di un’ex infermiera che lui definisce “santa” e di un padre che passava da un lavoro all’altro, un uomo che “sembrava non avere alcun senso se non quello della sopravvivenza quotidiana”. Entrambi provenivano da famiglie ebree fuggite dall’Ucraina in seguito ai pogrom dell’inizio del XX secolo.
La famiglia era povera e a un certo punto ha vissuto di sussidi ma, scrive Friedkin, “non me ne sono mai accorto. Tutti i miei amici vivevano come noi”. Crescendo in mezzo a loro, non aveva alcuna conoscenza di libri, film, musica e nemmeno della morale. “I ragazzi che frequentavo, come me, non avevano una bussola morale”, ha scritto in The Friedkin Connection. “Non conoscevo letteralmente la differenza tra giusto e sbagliato”.
Dopo essersi diplomato alla Senn High School nel 1953, Friedkin rispose a un annuncio pubblicato da un’emittente televisiva locale che cercava qualcuno che lavorasse alla posta. Si presentò all’emittente sbagliata, ma fu la cosa migliore che potesse accadere: fu assunto da WGN, dove finì sotto l’ala di un gentile scrittore ed editorialista, Fran Coughlin, che riconobbe il suo talento e gli aprì gli occhi su un universo più ampio di arte e artisti, insegnanti e politici.
Promosso a responsabile, Friedkin divenne presto regista di dirette televisive, guadagnando l’allora inimmaginabile somma di 200 dollari a settimana. L’occasione successiva fu, una sera, l’incontro con un cappellano della prigione. L’uomo gli parlò di Paul Crump, un condannato a morte che credeva innocente, ma la cui esecuzione era prevista entro sei mesi. Il documentario che Friedkin realizzò in seguito su di lui, The People vs. Paul Crump (1962) – completo di una ricostruzione del presunto crimine e di un montaggio che mostra la sedia elettrica in un sogno febbricitante – non solo portò Crump a ricevere la grazia, ma anche a una nuova carriera per Friedkin, che si trasferì a Los Angeles e iniziò a realizzare documentari per David Wolper.
Lavorando per il famoso produttore, Friedkin imparò ad affinare il suo stile. Era impavido, persino spericolato nel suo sforzo di fare il miglior lavoro possibile. Per conquistare la fiducia del soggetto di un suo documentario, accettò di lasciare che il figlio dell’uomo sparasse alla sigaretta che teneva in bocca a 50 passi di distanza; per mettere in scena la storia vera di un circo, entrò in una gabbia con un domatore di leoni (che in seguito sarebbe stato sbranato da uno dei suoi felini).
Lasciato Wolper, Friedkin realizzò l’episodio de L’ora di Hitchcock intitolato Fuori stagione, su un poliziotto della grande città (John Gavin) che uccide per sbaglio un uomo ì, e dopo poco realizzò il suo primo film, Good Times (1967), con Sonny e Cher. Il regista considera Sonny uno dei pochi autentici geni mai incontrati, anche se la commedia musicale fallì.
Seguirono altri tre lungometraggi, ognuno di stile e genere diversi: l’adattamento di Harold Pinter Festa di compleanno (1968), la commedia burlesca Quella notte inventarono lo spogliarello (1968) e Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970), uno dei primi film mainstream con un cast gay. Tutti i film furono un fiasco e il regista, un tempo promettente, sembrò arenarsi. Finché non incontrò Phil D’Antoni nel famoso bagno turco della Paramount.
D’Antoni, produttore del thriller di Steve McQueen Bullitt (1968), aveva appena opzionato un libro su due detective della polizia di New York realmente esistiti, che avevano sgominato un raket internazionale di eroina. Friedkin lo lesse e non ne rimase colpito, ma quando incontrò i poliziotti ne fu affascinato. La loro personalità, la loro disponibilità a usare metodi discutibili per perseguire la giustizia, le loro battute e la loro ossessione per il lavoro lo affascinarono. Friedkin accettò.
Due anni più tardi, dopo essere stato rifiutato da tutti gli studios tranne uno, realizzò Il braccio violento della legge con la 20th Century Fox, con un budget di 1,5 milioni di dollari. Dopo aver preso in considerazione attori come Paul Newman (troppo costoso) e Jackie Gleason (inviso alla Fox) per interpretare uno dei poliziotti, Jimmy “Popeye” Doyle, Friedkin scelse Jimmy Breslin e passò diversi giorni a lavorare con lui. Ma l’attore sparì. Con il tempo che stringeva, Friedkin accettò a malincuore di assumere Hackman, con il quale litigò per tutta la durata del set.
I problemi del film si aggravarono quando si presentò l’attore sbagliato per interpretare il cattivo principale, Alain Charnier. Friedkin aveva incaricato qualcuno della sua squadra di prendere “quel tizio che interpretava il gangster in Bella di giorno di Buñuel”; per un malinteso, fu invece scritturato l’attore spagnolo Fernando Rey (un habitué di Luis Buñuel). Rey era elegante, sofisticato e molto diverso dal gangster che Friedkin aveva immaginato. “Ho guardato [il nuovo ingresso nel cast] con incredulità”, ha ricordato. “Volevo strangolarlo. Ero convinto che il film sarebbe stato un disastro. Hackman non era adatto e ora, che Dio ci aiuti, [il film aveva imbarcato] Fernando Rey, che sembrava uscito da un quadro di El Greco”.
Il casting, in effetti, si rivelò miracoloso, capace di suggerire anche un conflitto di classe tra l’eroe e il cattivo. E il film seguì la suggestione, evidente nella sequenza di inseguimento probabilmente più memorabile della storia del cinema, quando Doyle – in un acceso inseguimento del killer Pierre Nicoli (Marcel Bozzuffi) – requisisce una Pontiac LeMans e corre attraverso le strette strade di Brooklyn per catturare il cattivo – che viaggia in un semplice vagone della metropolitana.
Friedkin stesso per girare la scena quasi uccise un passante, mentre l’auto sbandava tra gli isolati. Ripensandoci, ha detto di essere terrorizzato da ciò che lui stesso era disposto a fare per l’arte. “Non rischierei mai più, come ho fatto, la vita di altre persone”, ha osservato, “ma i momenti migliori di quell’inseguimento sono stati ripresi proprio nella lunga corsa con tre telecamere; pedoni e auto si scansavano, messi in guardia solo dalla sirena in arrivo. … Ho messo a rischio la vita delle persone. Lo dico più per vergogna che per orgoglio: nessun film ne vale la pena. Perché l’ho fatto? … Forse ho condiviso la stessa ossessione [dei poliziotti]”.
Ha portato lo stesso senso dell’estremo nel film successivo, L’esorcista, adattamento del romanzo best-seller di Blatty. Friedkin ottenne il lavoro solo dopo che altri registi, tra cui Mike Nichols e Stanley Kubrick, lo avevano rifiutato. La Warner Bros. nel frattempo era diventata sospettosa: Friedkin aveva la reputazione di essere un uomo difficile.
“Ci sono momenti, nel cinema, in cui essere considerati una persona pericolosamente psicotica paga”, ha spiegato Friedkin. “Blatty ha cercato di coltivare questa reputazione e, a volte, l’ho fatto anch’io”. Tutti condividevano l’opinione che fosse “era una storia unica e originale. Non l’ho mai pensato come un film dell’orrore; al contrario, lo immaginavo ‘trascendente’, come Blatty”.
Inizialmente Friedkin aveva cercato Audrey Hepburn per interpretare la madre di Regan, una ragazza preadolescente che viene posseduta dal demonio; Hepburn accettò, ma solo se il film fosse stato girato a Roma, dove viveva con il marito. Anche Anne Bancroft voleva partecipare, ma disse che avrebbe dovuto aspettare un anno prima che fosse disponibile. Jane Fonda rifiutò categoricamente il ruolo. “Perché qualcuno dovrebbe voler fare questa stronzata capitalista?”, avrebbe detto.
Alla fine Friedkin scelse Ellen Burstyn e poi Blair, un’esordiente dagli occhi grandi, per il ruolo di sua figlia. Con Lee J. Cobb, Max von Sydow e Jason Miller a completare il cast, le riprese principali iniziarono a New York, dove si susseguì una serie di disastri. La produzione andò oltre i tempi previsti, un set fu distrutto da un incendio e a un certo punto, quando un attore non professionista (William O’Malley) faticava a trovare il giusto tono emotivo per la scena dell’estrema unzione, Friedkin dovette ricorrere a tattiche estreme, come raccontò nel suo libro di memorie.
Afferrando l’uomo per le spalle, gli chiese:
“Mi ami?”.
“Sì”, rispose O’Malley, tremando.
“Dillo!”, urlò Friedkin.
“Sì, ti amo Billy, lo sai”, rispose l’uomo.
Poi “gli ho dato uno schiaffo in faccia più forte che potevo, e l’ho spinto in ginocchio, accanto al corpo prono di Jason Miller. Ho urlato ‘Azione!’. O’Malley scoppiò in lacrime e recitò la scena”.
La troupe era sconvolta, ma la Warner era entusiasta; L’esorcista uscì il 26 dicembre 1973 e divenne uno dei maggiori successi al botteghino di tutti i tempi (nel 2000, lo studio pubblicò una versione rimontata con 15 minuti aggiunti; quando Friedkin tornò sull’argomento con un ritratto del più vecchio esorcista vivente, Gabriele Amorth, in The Devil and Father Amorth, non dubitò mai dell’autenticità di ciò che aveva visto).
L’esorcista avrebbe dovuto segnare l’inizio di nuovi successi per il regista, ma la sua carriera aveva raggiunto l’apice. Il suo film successivo (il suo preferito), Il salario della paura (1977) – un adattamento grintoso dell’omonimo thriller di Henri-Georges Clouzot su un gruppo di rinnegati che tenta di guidare due camion carichi di nitroglicerina attraverso la giungla sudamericana – fece fiasco. Come ha osservato Friedkin, “Sarebbero passati anni prima che provassi di nuovo [la stessa] fiducia in me stesso sul set di un film, la convinzione di essere oggetto di una sorta di intervento divino”.
Continuò a lavorare regolarmente, ma senza ottenere gli stessi risultati economici. Tra i suoi film successivi figurano Cruising (1980), che suscitò grandi polemiche per la sua rappresentazione negativa del mondo gay sadomaso – con attacchi da parte di membri della comunità LGBTQ, gli stessi che un tempo avevano lodato Festa per il compleanno del caro amico Herald -, nonché L’affare del secolo (1983), Vivere e morire a Los Angeles (1985), Blue Chips – Basta vincere (1994) e Le regole dell’amore (2000).
Friedkin si è dedicato anche ad altri percorsi creativi, in particolare come regista di opere liriche è stato ammirato a livello internazionale e in televisione, ottenendo una nomination agli Emmy nel 1998 per il suo remake di La parola ai giurati con Jack Lemmon, per Showtime.
Alla fine dei 70 anni, ha provato l’ebbrezza di un classico di culto con Killer Joe (2011), basato su un’opera teatrale di Tracy Letts, il drammaturgo vincitore del Premio Pulitzer che aveva scoperto off-Broadway. (nel 2006 Friedkin aveva diretto Bug – La paranoia è contagiosa da una sceneggiatura di Letts).
Killer Joe è un classico di Friedkin, come ha osservato The Guardian, un “connubio tra materiale estremo e oscuro e rigore estetico controllato”. È stata anche una meravigliosa resurrezione per un uomo che da tempo si era allontanato dall’epicentro del potere hollywoodiano, un dolce ritorno al successo di critica per un regista che conosceva bene gli alti e bassi della fama.
Friedkin era ironico riguardo alle sue disavventure e ai suoi errori. Ricordando di aver gettato una tela di Basquiat nella spazzatura e di aver rifiutato la possibilità di dirigere un video per Prince, ha detto: “Ho bruciato ponti e relazioni al punto che mi considero fortunato ad essere ancora in circolazione. Non ho mai rispettato le regole, spesso a mio discapito. Sono stato scortese, ho pensato male della gente, ho sprecato la maggior parte dei doni che Dio mi ha dato e ho trattato l’amore e l’amicizia degli altri come ho fatto con l’arte di Basquiat e la musica di Prince. Quando si è insensibili ai sentimenti altrui, si può essere un buon padre, un buon marito, un buon amico? Se ho dei rimpianti? Ci potete scommettere”.
Ha incolpato la propria arroganza per la sua caduta in disgrazia, ma non ne è rimasto amareggiato e, di persona, era sempre allegro, soprattutto negli ultimi anni, dopo il matrimonio del luglio 1991 con Lansing. La donna gli sopravvive, così come i suoi figli, Jack Friedkin e il montatore Cedric Nairn-Smith. In precedenza è stato sposato con le attrici Jeanne Moreau e Lesley-Anne Down, e con la giornalista Kelly Lange. Il suo lavoro più recente è stata una nuova versione de Gli ammutinati del Caine, passata alla Mostra del Cinema di Venezia.
Nel corso della sua carriera non ha mai perso la passione per il lavoro. “Non ho fatto il mio Quarto Potere“, ha amesso nella sua autobiografia, “ma c’è ancora tanto da fare. Non so quanto, ma mi piace farlo”.
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