“Mi sarebbe piaciuto molto essere un regista europeo, magari svedese o italiano. Sono riuscito ad avere finalmente l’opportunità di realizzare il mio primo film in lingua straniera. È il cinquantesimo, ma ce l’ho fatta”. Accolto da un bagno di folla all’esterno e da applausi scroscianti in sala, l’anteprima italiana dell’ultimo film di Woody Allen, Coup de Chance, appena sbarcato dalla Mostra del Cinema di Venezia, è l’ennesima conferma dell’amore che l’Italia – e l’Europa – prova per il regista statunitense.
Ottantasette anni (“ne farò 88 a breve e non sono mai stato ricoverato in ospedale”, ama puntualizzare), Allen ha presenziato alla proiezione, in francese con sottotitoli in italiano, al cinema Quattro Fontane di Roma, collegato in diretta con altre sale aderenti all’iniziativa (che hanno lucrato e parecchio in alcuni casi: il critico Filippo Mazzarella ha testimoniato che una sala milanese ha alzato il biglietto fino a 15 euro) – che si è svolta venerdì 15 alle 20.30 in centinaia di cinema in tutto il paese del circuito The Space Cinema e UCI Cinemas -, per una serata-evento attesissima e immediatamente sold out.
Decine i fan accorsi solo per salutarlo prima dell’ingresso al cinema – i più speranzosi con una copia di uno dei suoi libri da autografare. Il regista, però, insieme ad Andrea Occhipinti, fondatore di Lucky Red, distributore italiano del film, e accompagnato da Vittorio Storaro, autore della cinematografia di Coup de Chance, non ha avuto modo di soffermarsi tra le persone.
I colpi di fortuna di Woody Allen, da Match Point a Coup de Chance
All’interno, tra i fortunati che sono riusciti ad accaparrarsi un biglietto o un invito, spiccavano Nicola Borrelli, direttore generale Cinema e Audiovisivo del Ministero dei Beni Culturali e, a sorpresa, Damien Chazelle e la moglie Olivia Hamilton, fresco dalla sua esperienza come presidente della Giuria alla kermesse appena conclusa al Lido di Venezia.
Introdotto dal presidente della Festa Del Cinema di Roma, Gian Luca Farinelli, il più europeo tra i grandi registi americani ha ripercorso la genesi del film che, come suggerisce il titolo, mette al centro il ruolo del caso e della fortuna nella vita di tutti, e la sua esperienza da regista in lingua straniera. Un aspetto, quello legato alla buona sorte, che secondo Allen ha “avuto un ruolo fondamentale nella mia vita”.
“Posso dire di essere stato fortunato tutta la vita. Vengo da una buona famiglia, ho avuto due genitori amorevoli e premurosi, sono stato e sono in buona salute. Tra qualche mese compirò 88 anni e non sono mai stato ricoverato in ospedale. Sono stato fortunato anche nelle cose che ho fatto: cinema, libri, teatro. Sono stato bravo, ma fino a un certo punto. Essere bravo non basta, se si è sfortunati. Credo che alla fine sia meglio essere fortunati prima che bravi”.
Coup de Chance racconta la storia di Fanny e Jean, una coppia parigina apparentemente perfetta. Ma quando Fanny incontra Alex, ex compagno di liceo, bohemien e scrittore, i due si ritrovano a vivere emozioni adolescenziali quasi dimenticate, tanto da mettere in discussione il rapporto che Fanny ha col marito. Una storia decisamente alla Woody Allen – lui stesso ha dichiarato in precedenza che il film ricorda un altro suo film, Match Point – che ha permesso al regista di ripescare dal suo personale bagaglio di ricordi da giovane appassionato di cinema.
L’amore per il jazz, la nouvelle vague e gli attori
“È stato così per tutti quelli cresciuti come me. Alla fine della guerra – ha ricordato Allen – negli Stati Uniti i film europei erano molto apprezzati e ne arrivavano tanti. Quindi io, che ero più o meno adolescente, ho avuto modo di conoscere e amare il cinema francese, italiano e svedese. Sono stati tutti film e registi che hanno esercitato una grandissima influenza su di me e su di noi”.
Stando alle parole del regista, tutto nel film rimanda alla nouvelle vague, musica compresa: come Cantaloupe Island di Herbie Hancock, che accompagna – quasi accarezza – Coup de Chance. “Ho voluto usare la musica che sceglievano i maestri francesi che amo: Godard, Truffaut, Chabrol. Nei loro film si sentiva tanto jazz di quel periodo, ma non quello che sentivamo noi americani, almeno non è quello che uso io nei miei film. Ho scelto personalmente tutte le musiche, lo faccio sempre: inizio sovrapponendo brani dalla mia collezione direttamente sopra le scene girate, se l’effetto mi piace ci lavoro fino a trovare lo spezzone giusto, altrimenti scarto quella canzone. È un lavoro che faccio a casa, da solo”.
Un processo creativo, il suo, che lascia tanto spazio all’intuito, ma anche al colpo di fortuna, appunto. “Sono fortunato, perché sono capace di riconoscere il talento di un attore appena lo vedo – ha spiegato – e questo mi succede anche se sento un interprete recitare in una lingua che non conosco. Una volta scelti, li lascio fare, non sono uno di quei registi che parla molto agli attori, raramente do indicazioni, mi faccio da parte. E loro recitano. Per questo dirigere un film in lingua straniera per me è stato esattamente come farlo in inglese. E comunque tutti gli attori parlavano inglese, quindi non ho mai avuto bisogno di usare le poche parole che so di francese per comunicare con loro”.
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