Alessandro D’Alatri era uno di quei cineasti che non ti lasciavano mai indifferente, depositario di una leggerezza pensante sorprendente, ma anche di toccare le corde del dramma. Sempre con delicatezza, perché anche nelle scene più dure e laceranti – pensiamo a Senza pelle con Kim Rossi Stuart, uno dei suoi film più belli e complessi, che parlava, di fatto, di stalking quando nel nostro immaginario rappresentava la normalità – non perdeva mai la capacità di accarezzare l’immagine e lo spettatore.
Anche quando con i suoi contenuti mai banali – il suo esordio ambientato in un fascismo cupo e cialtrone, il dittico più scuro e quasi trascendentale con Kim Rossi Stuart, il momento più pop e lucido su un’Italia che ballava tra precarietà e le ultime luci degli anni Ottanta – in realtà il pubblico lo schiaffeggiava.
Alessandro D’Alatri, gli inizi
Mentre il cinema italiano si suicidava, tra film finanziati dal ministero che intendevano il cinema d’autore come qualcosa che si ostinasse a disprezzare chi lo guardava, chiudendosi in linguaggi criptici che spesso e volentieri rasentavano il parossismo, mentre la commedia dei Nuti, dei Verdone e dei Troisi raccoglievano l’eredità della commedia all’italiana, c’era una nuova generazione di cineasti che si formava su una grammatica diversa, per certi versi figlia sia dei padri nobili del cinema italiano che della New Hollywood, che come Alessandro D’Alatri si allenava nella durissima palestra della pubblicità.
Esordi che non rinnegava, ma che anzi rivendicava – ma che probabilmente in quella Settima Arte salottiera e snob gli costarono i galloni di autore – stessa sorte toccata a Carlo Mazzacurati, anche lui scomparso prematuramente – e che lo portò a dirigere più di cento spot pubblicitari per poi arrivare, maturo e con una poetica ben chiara, ad affrontare il grande schermo. E i suoi inizi al cinema sono clamorosi: David di Donatello e Ciak d’Oro per Americano Rosso, selezione alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes.
A Venezia ci arriva a fine decennio, nel 1998, con I giardini dell’Eden con Kim Rossi Stuart, il Gesù nascosto (tra i 12 e i 30 anni), una di quelle sfide che ha spezzato le reni di molti autori che l’hanno affrontata e da cui ne uscì ammaccato ma offrendo un’opera che sarebbe ora di rivalutare.
Alessandro D’Alatri, gli anni 2000
Uno stop di quattro anni lo riporta al cinema con un genere e uno sguardo diverso. Uno dei suoi talenti, forse proprio mutuato dalla pubblicità, era quello di cambiare pelle senza perdere la propria identità d’autore, di uomo, di narratore di storie. Garbo, delicatezza, un velato cinismo divertentissimo, la capacità di entrare nelle nostre fragilità e accoglierle, senza giustificarle ma con la capacità di capirle erano doti che riscontravi nella persona e nell’artista.
“L’ho conosciuto a vent’anni – racconta Carolina Crescentini, che con lui ha lavorato ne I bastardi di Pizzofalcone – e non per lavoro, ma perché un mio caro amico era sul set con lui. Nacque subito un’intesa e ci siamo frequentati tanto, soprattutto nelle sue cene. Con quel baffone che si piegava in su disegnando quel suo sorriso che chi l’ha conosciuto non può dimenticare e che si tramutava non di rado in una risata irresistibile. Di quelle cene conservo le sue battute, quel cinismo romantico che aveva solo lui e la curiosità di un uomo colto e delicato”.
In Casomai e poi La febbre, dittico che gira con un Fabio Volo in grande ascesa, disegna un’Italia sentimentalmente sconfitta, afflitta da un conflitto generazionale mai (ri)partito che schiacciava i giovani senza neanche farli essere della partita, farli scendere in campo. Casomai è una storia d’amore dolce e impietosa nelle sue fragilità, ma anche un richiamo alla responsabilità collettiva della società nella felicità individuale.
La febbre è un romanzo tra Kafka e Elia Kazan, ma in salsa uberpop, con una meravigliosa Valeria Solarino scovata come protagonista dopo pochi ruoli da comprimaria e un’indimenticabile colonna sonora fotografata dal clamoroso successo dei Negramaro, di cui lui girò il videoclip di Tutto scorre.
Andò peggio il pur interessante e argutissimo Commediasexi, con la scommessa Paolo Bonolis: più per colpa nostra che non ne intuimmo alcune visioni profetiche e altre apocalittiche, che per colpa loro.
La tv come ritorno al successo
Gli anni Dieci sono quelli della delusione. Sul Mare è di sicuro il suo film meno riuscito, alla ricerca di una narrazione giovanile che scade nel giovanilista, l’incapacità di capire una generazione forse troppo lontana. Sette anni dopo, con la produzione di Luca Barbareschi, riprova una nuova resurrezione con The Startup, un biopic su un Jobs de noantri che è onesto, ma anch’esso debole.
Arriva però la televisione e lui, come ci ricorda ancora Carolina Crescentini “si rimbocca le maniche e l’affronta con serietà e talento. Parlava spesso del fatto che il cinema lo avesse allontanato, questo è un lavoro strano in cui non mancano i momenti difficili. Lui li ha affrontati da par suo, portando in tv un elemento di cura e novità sconosciuti sul piccolo schermo”.
Il segreto del suo successo è l’incredibile capacità di capire quali volti potessero bucare lo schermo, quali attori fossero adatti e quali giovani talenti potessero emergere. Su questo i due protagonisti de I bastardi di Pizzofalcone sono d’accordo.
“La sua morte è una notizia terribile. Sto girando la seconda serie di Un professore, la prima l’aveva diretta lui. Un grande successo anche per la sua capacità di scovare talenti ovunque, soprattutto giovani. Aveva una sensibilità eccezionale che gli faceva intuire immediatamente chi avesse quel qualcosa in più”, racconta Alessandro Gassman, Giuseppe Lojacono nella serie. E ribadisce Carolina Crescentini, che lì vestiva i panni di Laura Piras, “adorava gli attori, era appassionato del nostro lavoro, non amava solo dirigerli sul set e a teatro ma anche andarli a vedere. Era ossessionato dalla verità, spesso rifaceva la scena lui per me e con me, pretendeva che capissimo profondamente i personaggi, era straordinariamente empatico”.
I bastardi di Pizzofalcone e Un professore diventano subito dei cult, D’Alatri ha la capacità incredibile di intuire subito l’immaginario di Maurizio De Giovanni, tra il noir e il folk, e di restituire una Napoli bella, sporca e cattiva da romano. “L’ha amata subito – rivela l’attrice – tanto che ha finito quasi per trasferirsi sul Golfo. Ogni pretesto era buono per lavorare a Napoli per lui, dove non a caso ha fatto tanto teatro. Se penso a quel set, penso a quanto fossero luminosi insieme lui e quella città, a quante difficoltà abbiamo affrontato con il sorriso, grazie al clima meraviglioso che lui sapeva costruire, come regista e come persona”.
Il ricordo
La sua eredità emotiva e artistica è potentissima. Lo intuisci da chi, come Valeria Solarino, non riesce a parlarne per l’emozione profonda che la morte di D’Alatri le provoca e dalle parole ancora di Alessandro Gassman, che ha affidato in un tweet molto bello, ma anche a The Hollywood Reporter Roma. “Alessandro è un amico, un uomo buono, un uomo di cultura – non riesce a non parlarne al presente – oltre che un grande regista e sceneggiatore. Eravamo uniti da un destino curioso, condividevamo nome e data di nascita, il 24 febbraio. Mi rimane di lui lo sguardo, quegli occhi bellissimi pieni di luce e di energia, una luminescenza che accendeva chi gli era intorno. Mi mancherà tantissimo”.
E un’emozionata Crescentini chiosa: “Se penso a quanto lui amasse le sue figlie mi si spezza il cuore. E non riesco a credere che non manterrà la promessa che mi aveva fatto nel nostro ultimo messaggio. Ritorno più forte di prima, mi aveva scritto. Ero certa che l’avrei rivisto”.
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