Bisogna fare un passo indietro. Bisogna tornare al Lido di Venezia sul finire dell’estate del 2021 e calarsi durante i giorni della Mostra del Cinema. È in quel contesto, giorno 3 settembre, che tutti aspettano trepidanti la prima parte di uno dei blockbuster più attesi della stagione cinematografica.
Tra un film d’autore di qua e un papabile vincitore del Leone d’oro di là (fu l’anno della vittoria di La scelta di Anne – L’Événement di Annie Ernaux), Denis Villeneuve porta in anteprima fuori concorso Dune.
Opera sci-fi ad alto tasso di budget e di CGI, che come il precedente (flop, seppur bellissimo) Blade Runner 2049 univa l’aspetto imprenditoriale della Hollywood dei blockbuster alla poetica intimista e introspettiva del regista e sceneggiatore canadese.
Tutti gli adattamenti di Dune
Dune aveva alle spalle un passato più o meno rispettabile. I libri di Frank Herbert, la parte più amata. L’adattamento fallimentare – ma a suo modo caratteristico – di David Lynch, scelto da Dino De Laurentiis dopo il forfait di Ridley Scott, che trovava gli studi di Città del Messico troppo fatiscenti per poter girare.
La pellicola del 1984 è sceneggiata dal regista con lo stesso scrittore, che aveva cercato di rendere lo straboccante contenuto il più coinciso possibile, riducendolo ulteriormente al montaggio passando da cinque a due ore, tagliuzzando ogni avvenimento per un esito sconclusionato e veloce.
Al di sopra, il progetto partito nel 1975 e mai realizzato di Alejandro Jodorowsky, diventato nel 2013 un documentario, Jodorowsky’s Dune. L’autore cileno fu il primo a vedere nel ciclo di Dune un potenziale filmabile, a convincere Orson Welles, Mick Jagger e Salvador Dalí a prendere parte al cast, chi nel ruolo dell’Imperatore (il pittore spagnolo), chi del Barone Vladimir Harkonnen (il regista di Quarto potere).
Furono i produttori a mettere un fermo a Jodorowsky, che non avevano intenzione di affidare un colossal a chi, un colossal hollywoodiano, non lo aveva mai fatto – come se l’enorme successo de La montagna sacra non valesse. Eppure gli storyboard pronti e fatti circolare fecero da caposaldo all’immaginario della fantascienza oltreoceano, tanto da aver influenzato anche Guerre stellari e essersi trasformati nei fumetti della saga L’Incal – oltre che diventare i riferimenti di un video del 2020 di Lady Gaga, 911.
Come dice nel documentario suddetto Nicholas Winding Refn, se il regista cileno avesse potuto realizzarlo ora i termini creativi e produttivi di riferimento dei blockbuster e della Hollywood mainstream sarebbero stati dettati dal suo Dune e non, come accadde, da Star Wars. Sarebbe, insomma, cambiata la storia del cinema moderno.
Dal mondo immaginario di Frank Herbert al grande schermo
Il film doveva uscire di nuovo, per sé e per i tanti fan lì fuori. Doveva farcela, punto e basta. Torniamo perciò al Lido. Torniamo al giorno in cui fu presentato, il medesimo di Spencer di Pablo Larraín e Il buco di Michelangelo Frammartino, in cui sul festival di Venezia calò una scure grigia come la fotografia di Greig Fraser e martellante come la colonna sonora di Hans Zimmer.
La ricezione fu buona, non eccellente. Il film venne accolto con soddisfazione, ma il dubbio che fosse solo sabbia del deserto di Arrakis buttata negli occhi non era poi così infondato. La visione di Dune alla sua première mondiale, a suo modo cambiata quando arrivò nelle sale italiane il 16 settembre, è l’idea di un enorme sforzo produttivo e autoriale – mettiamo anche emotivo, comprensibilmente – sotto un unico imperativo: non poter assolutamente sbagliare.
Non poteva permetterselo né Villeneuve col “disastro” del sequel del cult di Ridley Scott, né un’opera letteraria idolatrata dai fan che, altrimenti, avrebbe confermato la sua insuperabile intolleranza per il grande schermo.
Dopo la tiepida accoglienza iniziale, Dune – Parte uno cominciò a racimolare consensi. Del tutto giustificati, ma che non possono dimenticare completamente l’effetto soporifero che ebbero in un primo momento nelle sale Darsena e Grande di Venezia78.
La messinscena era sbalorditiva. I dettagli regolati al millimetro. Il mondo immaginario di Herbert aveva trovato il proprio corrispettivo scenografico, dagli esseri viventi e mitologici che lo abitano (“Abbiamo impiegato almeno un anno di lavoro per progettare e trovare la forma perfetta per i vermi, abbastanza preistorica”, raccontava il regista), agli ornitotteri volanti pilotati dai protagonisti.
Cosa aspettarsi da Dune – Parte due
In attesa della Parte due in sala dal 28 febbraio, la sensazione vissuta nella parentesi veneziana della Mostra rimane la stessa. Rivedendo il primo Dune, l’opera si avvale di un’epica a posteriori che si è andata a costruire attorno al film, segnata da un ammirevole incasso (402.027.830 di dollari al botteghino mondiale) e dalla previsione del ritorno della storia in sala.
A distanza di tempo, Dune riconferma la sua magnificenza produttiva, che non sempre in simili giostre hollywoodiane equivale ad un accompagnamento narrativo. Forse tolto dal contesto festivaliero, rivisto a mente fredda e sapendo più o meno a cosa le sue due ore e trenta di durata portano, allora il film qualcosa lo acquista.
Sapendo cosa aspettarsi dai fondali e le architetture di Dune, la gravitas di Paul Atreides e del suo destino da eletto (il messianico Kwisatz Haderach) sgomita facendosi dominante, conquistando un posto centrale nel coinvolgimento dello spettatore e dando al corpo mingherlino di Timothée Chalamet un nuovo peso.
Lo stesso ruolo della madre Lady Jessica (Rebecca Ferguson), strega dell’ordine delle Bene Gesserit, risalta in relazione alla fine funesta del resto dei personaggi “adulti” della prima parte. Alla luce del cast della seconda – e della promozione che sta fruttando – con l’addio di Oscar Isaac, Jason Momoa e Sharon Duncan-Brewster, la Parte due è pronta ad accogliere Florence Pugh, Austin Butler e Léa Seydoux.
La chiusura di un incipit per l’apertura di un altro capitolo: è comunque sempre questo che, più di ogni altra cosa, resta nel rivedere il film di Denis Villeneuve. Che pur di non tralasciare nulla, inserisce tutto. Alla faccia di Lynch e Hebert. Ingozza, appesantisce. E nella scena finale Zendaya con la sua Chani Kynes confessa: “È solo l’inizio”.
Rimane quindi corretto percepire Dune – Parte uno come la lunga preparazione a quello che si aspetta sia un prossimo film fatto e completo. O almeno è così che speriamo di trovare Dune- Parte due.
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