Mettiamola così: concediamo a Indiana Jones l’onore delle armi. Nato con il primo capitolo del 1981 e giunto alla fine biologica della saga con il quinto film, Indiana Jones e il quadrante del destino di James Mangold, l’archeologo più famoso del cinema va in pensione. Letteralmente. Non ci sarà un altro Indiana Jones con il volto di Harrison Ford. E nemmeno – piccolo spoiler e sospiro di sollievo – con quello di Shia LaBeouf.
Dopo l’arca, la legge del tempo
Indy è tornato – la battuta ricorre nel film – per dirci, sostanzialmente, una cosa: anche se hai trovato il Sacro Graal, recuperato le pietre di Sakkara scoperchiato l’Arca dell’alleanza, invecchiare resta un’esperienza orribile. Lo ribadisce nel film lo stesso Indiana Jones, ma lo sappiamo anche da soli: a cinquant’anni – l’età che hanno oggi i bambini che scoprivano Indy nei primi anni Ottanta – non si è più freschi come rose.
E allora, invecchiare. La prima volta che Ford appare nel film, rapito e incappucciato dai nazisti, ha quaranta credibilissimi anni, digitalmente ringiovanito dalle stregonerie del deepfake. Un’operazione stupefacente, quella del team degli effetti speciali (praticamente un esercito, la voce più estesa dei titoli di coda) che ci illude per i primi venti, adrenalinici minuti con una partenza di pura azione in medias res, nella migliore tradizione della saga.
Harrison: come reinventarsi?
Ma appunto è un’illusione. “Volevo che Indiana Jones, un uomo che ha sempre contato sulla giovinezza e sul vigore, qui sentisse il peso della vita – ha spiegato Ford a Cannes, accolto dagli applausi dentro e fuori dalla sala cinematografica – Volevo vederlo che cerca di reinventarsi, che prova ad avere una relazione vera con qualcuno”.
Quando la storia comincia per davvero, l’archeologo Henry Jones è un signore di ottant’anni anni il giorno della pensione, solo e senilmente rancoroso, che tiene frusta e cappello sotto al letto e beve scotch al bancone di un bar guardando l’allunaggio in televisione. Nell’avventura ci si butta controvoglia, quando la giovane Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), figlia di un suo collega, si mette in testa di ricomporre un potente artefatto, diviso a suo tempo in due parti. Una la possiede Jones, l’altra la bramano i nazisti: mettere insieme i due pezzi del disco, un’antica macchina costruita da Archimede, permette a chi lo impugna di viaggiare attraverso le epoche storiche. Si torna sempre allo stesso punto, l’inconfessabile desiderio di manipolare il tempo. Trent’anni fa il miraggio era quello del Graal, la vita eterna. Oggi per Indy l’obiettivo è un altro: tornare indietro, possibilmente per sempre.
Spunti soprannaturali
Lo spunto soprannaturale, una costante della saga, è l’innesco di una storia che procede per binari collaudati, citazioni, situazioni “alla Indiana Jones”: inseguimenti sfrenati a bordo di veicoli improbabili (un tuk tuk, una Cinquecento e persino un cavallo), viaggi da una parte all’altra del mondo (Italia, Grecia, Marocco), la caccia al tesoro tra i cunicoli (insetti inclusi), l’ossessione per i serpenti. E a dispetto dell’età del protagonista, Indiana Jones e il quadrante del destino è forse il titolo più carico d’azione dell’intera saga: persino troppa, come se la muscolarità di Jones potesse ancora misurarsi dal numero di incidenti provocati, paracaduti aperti, veicoli fatti esplodere durante la ricerca dell’artefatto.
Una missione in cui l’archeologo finisce sempre più spesso col trovarsi un passo indietro alla sua giovane spalla, motore attivo della storia, cui il copione destina le battute migliori del film – quelle, si direbbe, “alla Indiana Jones”. L’applauso a scena aperta, alla prima a Cannes, era arrivato per Helena: un pugno ben assestato, di quelli che – in tutti i sensi – fanno la storia.
Non sarà però la brava Waller-Bridge a ereditare frusta e cappello: gli ultimi secondi del finale, che chiude assai decorosamente la saga, contengono un messaggio preciso. La vecchiaia sarà anche orribile, ma il segreto per sopportarne il peso è uno: non appendere mai il cappello al chiodo. “Sono felice dell’età che ho – ha già avuto modo di dire Ford – È stato bello essere giovane, certo. Ma a quest’ora avrei potuto anche essere morto. Invece sono qui. E lavoro ancora. E voglio continuare a farlo, perché è la mia vita”.
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