Alla faccia di Barbie stereotipo. Dell’operazione da marketing, della pubblicità nemmeno tanto occulta, della corsa pazza al merchandising, del femminismo infiocchettato in salsa Mattel. Nell’estate del botteghino bollente della bambola più amata al mondo, attorno al film Warner Bros rischia di esplodere una nuova guerra fredda. Con tanto di terremoto geopolitico di non poco conto.
Nella Russia di Putin il film di Greta Gerwig è stato sospeso dalla casa madre, ma galoppa in clip su Telegram e nelle proiezioni pirata. Dilagano le feste a tema, il rosa Barbie è ormai un colore antagonista. Come a dire arcobaleno, pacifismo, anticensura, fine dell’incubo e delle ostilità. Barbie simbolo democratico e libertario, testimonial eccentrica di un occidente di libertà e progresso, con il file del film si contratta nel mercato di contrabbando, in inglese o in georgiano.
Il Moscow Times ha raccontato la storia di un ragazzo russo ventunenne che ha pagato 30 mila rubli (più di 300 euro) per varcare il confine col Kazakistan e vedere la prima ad Astana. A rafforzare l’epica sul “popolo russo di Barbie”, nuova frontiera della dissidenza anti autocrazia. Questo mentre Maria Butina, membro del Comitato per gli affari internazionali della Duma, si è detta “categoricamente contraria” alla comparsa del giocattolo della Mattel nei negozi in quanto entrerebbe nella categoria delle bambole che “riproducono persone transgender o promuovono relazioni omosessuali”.
Un patto Usa-Cina?
In Cina il film è regolarmente distribuito, con un lancio promozionale che ha perforato lo schermo della censura. C’è una teoria che parla di patto propagandistico Cina-Stati Uniti e che, attorno a un fotogramma della pellicola, sta scatenando un terremoto tra Vietnam e Filippine.
Tutto per colpa di una mappa che appare in una scena del film, in cui si ragiona sul rapporto tra Barbieland o e il mondo reale. Alle spalle di Barbie, c’è una cartina di fantasia che rappresenta un continente che ricorda l’Asia. La mappa però presenta una contestatissima linea tratteggiata che ricorda la Nine-dash line, la Linea dei Nove Tratti (ma attenzione, in Barbie sono solo otto) che simboleggia una disputa finita nel 2016 davanti al Tribunale internazionale dell’Aia. Secondo la linea riproposta nel cartone, il Mar Cinese meridionale apparterrebbe alla Cina. Si oppongono a questa versione molti dei paesi asiatici, come Vietnam e Filippine, forti anche della sentenza del 2016 che non lascia spazio alle interpretazioni.
Sentenza mai riconosciuta da Pechino, che aveva anche costruito avamposti in zona, su alcune isole disabitate. Ecco che Barbie riaccende il conflitto. Il Vietnam blocca l’uscita del film in sala, come era accaduto per Uncharted di Tom Holland, che presentava una mappa simile, ritenuta illegale. Insorgono anche le Filippine (che pure bannarono il film d’azione di Holland), ma scelgono la strada “riformista” e chiedono espressamente a Warner Bros la modifica del fotogramma, fino al compromesso di farlo uscire con la mappa sfocata. Hollywood, però, è travolta dalla scandalo e sconta l’accusa di colludere con il progetto espansionistico cinese, in cerca di un nuovo equilibrio internazionale, con il silenzio assenso della Casa Bianca.
Sarà un caso, ma – per dire dell’aura che circonda il film – sinanche la premio Nobel per la Pace Malala Yousafszai ha pensato bene di esternare sulla pellicola di Greta Gerwig: “Questa Barbie ha un premio Nobel. Lui è solo Ken”, ha twittato Malala, postando un’immagine di lei all’interno del box rosa che pubblicizza il blockbuster campione d’incassi. Con lei il marito Asser Malik, imprenditore e General Manager del Pakistan Cricket Board.
Barbie simbolo ebraico
Intanto il film è difeso con orgoglio dalla comunità ebraica, con Barbie simbolo jewish per almeno due ragioni. La prima è legata alle origini della sua creatrice, Ruth Handler (interpretata dalla attrice ebrea Reha Perlman). La sua famiglia emigra negli USA nel 1916, per fuggire dall’ondata antisemita in terra d’origine, la Polonia. Ruth sposa un altro ebreo immigrato, Izzy Handler, con cui in piena ondata nazista, nel 1938, iniziano a produrre giocattoli di legno e fondano la Mattel. Il resto è storia. Ebreo è anche il marito di Greta Gerwig, principale autore dell’audace sceneggiatura di Barbie, Noah Baumbach.
I problemi, però, travolgono la pellicola nel mondo arabo. In alcune province del Pakistan il film è stato fermato: “Contenuti discutibili”. In Libano si nega una censura ufficiale, ma l’uscita del film è stata rinviata tre volte, ancora senza motivazione, e cresce la tensione tra i cittadini che temono che il continuo posticipare la trasmissione della pellicola sia solo un pretesto per vietarne la visione.
Non bambole, ma potere
Forse è il minimo che poteva succedere a un film che non parla di bambole, ma di potere. Non si accontenta affatto del femminismo da supermarket, ma va ben oltre, fino a sovvertire col sorriso il dualismo tra patriarcato e matriarcato. Ricorda quella citazione di Germaine Greer, scrittrice e giornalista australiana (proprio come Margot Robbie, la Barbie del film), ripresa nell’incipit dell’album di Sinead O’ Connor Universal Mother (track 1, un mini comizio: Germaine). Correva l’anno 1970 e l’autrice de L’eunuco femmina scandiva il senso del Barbie-macello: “L’opposto del patriarcato non è il matriarcato, è la fratellanza. Le donne dovrebbero rompere questa spirale di potere e trovare il trucco della cooperazione”. Ecco di cosa parla davvero Barbie: superare il delirio della superiorità di genere. Ed ecco perché un live action per ragazzi, in tutto il mondo, sta scatenando il putiferio. E meno male.
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