A un certo punto, in Oppenheimer, un personaggio prevede per il protagonista un futuro momento di unanime ammirazione nei suoi confronti, ma lo avvisa: tutte quelle persone che diranno cose belle di te, non lo faranno per te, lo faranno per se stesse. Frase deprimente per lui, e un po’ deprimente anche per chi ne estendesse il valore a molto di quello che osserviamo fuori dal cinema.
Logica da social network
In questi anni l’impressione che quasi tutto quello che la gran parte delle persone fa lo faccia per se stessa, si è assai estesa, benché la ricerca di affermazione di sé e la vanità siano fattori millenari per le azioni degli umani, e non sempre disprezzabili nei risultati, anzi. Ma i social network e bla bla, e persino il “populismo” cosiddetto con il suo dirci che meritiamo di più, che andiamo bene come siamo, che ci stanno rubando quello che ci spetta, rendono sempre più frequente quella sensazione lì: che ci sia quel bisogno, quella priorità, quella descritta dal personaggio di Oppenheimer, in quasi tutto quello che facciamo. Lo facciamo per noi stessi. E soprattutto siamo sempre più incapaci di nasconderlo.
Uno hype chiamato Oppenheimer
Oppenheimer è un bel film, naturalmente. Su cui è stato costruito uno hype promozionale di tale dimensione che il suo unico limite è non poter corrispondere alle aspettative create: nessun film avrebbe potuto, probabilmente. Ma una buona parte degli apprezzamenti più smodati sembrano alludere non tanto a qualità universali del film stesso ma a una antica conoscenza del regista da parte di chi li esprime, a un culto fedele nei confronti dei suoi film, a una sorta di complicità. Al riconoscere tratti, allusioni, citazioni, ammiccamenti: quel modo di costruire la storia, quella scena che ne ricorda un’altra, quell’idea che richiama qualcosa. Al riconoscere. E riconoscersi.
Come Moretti
Una cosa simile è appena successa con le celebrazioni dell’ultimo film di Nanni Moretti, dedicate nella loro quasi totalità non al fatto che fosse di per sé un bel film, ma che fosse un film di Nanni Moretti. Con le canzoni di Nanni Moretti, con le scarpe, con loro che cantano in macchina, con le citazioni di altri film e registi, con attori – e non attori – familiari. È stato bello, per molti vecchi fan di Moretti, riconoscerle, riconoscersi, accorgersi capaci di capire cosa Moretti stesse dicendo a loro. Le stesse cose di sempre.
Questa cosa sta diventando – più di prima, a me pare – un frequente metro di giudizio del cinema (e di altre creazioni): i film ci piacciono per noi stessi.
Ci piacciono perché ci lusingano, perché ci dicono “questa cosa tu la sai, sei uno dei nostri, la sai da prima degli altri”: persino in Barbie arrivano messaggi un po’ per tutti e che vengono colti e persi – ciascuno – da porzioni le più varie del pubblico, in modo da sfruttare il meccanismo con efficacia industriale: il film per convertiti alla setta diventa film per convertiti a una decina di sette diverse. Quelli felici di cogliere la citazione di 2001 Odissea nello spazio, quelli amanti delle canzoni delle Indigo Girls, quelli che riconoscono Allan (io: sì, sì, no); persino una quota di maschi più compiaciuta che imbarazzata di riconoscersi anche nei tic più scemi dei maschi: il culto del Padrino, il frigobar.
Il “proprio pubblico”
Tutto questo è comunque divertente, per i destinatari, e se soddisfa le nostre vanità e i nostri protagonismi rendendoci ancora più convinti di essere speciali lo fa solo perché si sta adeguando a una domanda: si potrebbe discutere di che cinema sia quello che si adegua troppo a una domanda a scapito di creazioni artistiche e culturali più universali o sperimentali, che prescindano dall’individuazione di un “proprio pubblico” e dall’inerzia su ciò che è stato già detto e fatto. Non lo scrivo per modo di dire: stando attenti a non volersi riconoscere nelle proprie ragioni e nella propria partecipazione alla discussione, si potrebbe discuterne.
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