Pam pam, pam pam pam pam, pam pam pam pam… è senza dubbio il tema più celebre delle serie televisive. Un fiammifero si infiamma e le note di Lalo Schifrin rimbalzano su un montaggio rapidissimo che anticipa le immagini dell’episodio a venire. Perché Mission Impossible è in origine una serie degli anni Sessanta creata da Bruce Geller, che ha marcato una generazione con le avventure dell’IMF (Impossible Mission Force), un team di esperti assoldati da Jim Phelps per svolgere operazioni classificate top secret per conto della CIA. Mission Impossible è satura di codici, di messaggi che consegnano la missione e si autodistruggono in cinque secondi dopo aver informato l’agente di turno, di gadget stravaganti, di bottoni rossi e verdi, di maschere che eludono i sistemi di sicurezza del nemico e di guest star che fanno a gara per interpretare il ‘cattivo’ della settimana. La serie durerà sette anni e avrà un seguito vent’anni più tardi (1988-1990), entrando per sempre nell’immaginario collettivo. Per adattarla sul grande schermo, la Paramount sceglie Brian De Palma e la sua intenzione è presto detta: vuole fare di Mission Impossible una hit e di Tom Cruise una action star.
Nessun dramma introspettivo, nessuno sguardo critico sull’America, nessuna tragedia faustiana, sarà un film d’azione in purezza al servizio dei suoi tic. Il colpo di genio dell’autore, che forgerà l’intera saga, è tutto in un twist che prende in contropiede le attese del pubblico. Al cuore del glorioso modello c’è una squadra interscambiabile gestita da Jim Phelps ma De Palma la condanna a morte e trasforma Phelps nel cattivo della storia (Mission: Impossible. 1996). Il punto di vista del film passa a Ethan Hunt, semplice agente che il regista promuove a eroe, solo e contro tutti. Come se James Bond diventasse improvvisamente il villain dei suoi film e il destino del mondo ricadesse sulle spalle di un’assistente di Q.
Questa rivoluzione copernicana permette di fare di Tom Cruise l’elemento fondamentale come testimonia efficacemente la campagna marketing del film. Il volto dell’attore occupa quasi interamente la locandina. Non importano i paesaggi esotici, né gli effetti speciali, né le femme fatale, né le esplosioni. La sola cosa che conta è Cruise. Il film spenderà il suo nome e non quello della serie.
Asso quattro volte: poi la svolta
La saga di Mission: Impossible arriva in un momento cerniera della sua carriera: l’attore si era scrollato di dosso a fatica il personaggio di giovane prodigio, asso dell’aviazione in Top Gun, asso del biliardo ne Il colore dei soldi, asso dello shaker in Cocktail, asso delle corse in Giorni di tuono, per assumere ruoli più seri (Rain Man) o più grevi (Nato il quattro luglio). Alla fine di questo processo di maturazione, Cruise decide di passare a una velocità superiore producendo film di cui non sarà soltanto la star ma soprattutto l’attrazione principale.
Insomma Mission: Impossible contro Mission: Impossible. Se la versione televisiva comprende un team con un capo, dei caratteri, degli specialisti, una ripartizione di ruoli, un equilibrio di forze, il film con Tom Cruise è l’esatto contrario. Il divo divora tutto, lo schermo, il reale, il film, l’affiche. A ogni passaggio, a ogni missione non lascia che briciole per gli altri, è James Bond e gli Avengers insieme.
Tom Cruise è soprattutto Ethan Hunt, uno tra gli altri il tempo di un attacco, poi gli altri muoiono, compreso Jim Phelps (Jon Voight), mentore che fa da ponte con la stagione d’oro della serie. Ethan resta orfano al centro del tradimento di De Palma che mette la saga su altri binari e la ricostruisce sul corpo di Tom Cruise, una silhouette che corre in permanenza, come una firma, e porta il suo destino nel nome “hunt” (cacciare). Ma Ethan è alternativamente il cacciatore e il cacciato, un personaggio senza passato, ancora tutto da inventare.
Tom Cruise trova la chiave di Ethan Hunt qualche anno dopo sul set di Jack Reacher, una sorta di ri-modellaggio a posteriori di quello che lo costituisce: un tipo arrogante, molto sicuro di lui che interpreta qualcuno che lo spettatore è sicuro di (ri)conoscere molto bene. L’equazione funziona, il pubblico apprezza e incoraggia. Hunt smette di essere un eroe neutro e Christopher McQuarrie lo fa (ri)vivere nello sguardo degli altri, amici e nemici. Se l’eroe di De Palma doveva cavarsela da solo, quello di McQuarrie non può esistere senza quelli che fanno corona e senza quelli che lo affrontano.
McQuarrie è un discepolo dei miti pop e l’ultima sequenza del suo Jack Reacher è un modello di mitologia applicata. Un sospettato di omicidio, già assolto, parla terrorizzato di Reacher in sua assenza e ne fa un ritratto preciso, quello di un uomo che se ne fotte della legge e segue le sue regole per inchiodare colpevoli e ingiustizia. Le sue parole scorrono sulle immagini di un pullman in transito, la macchina da presa scivola lungo i sedili fino a trovare Tom Cruise, un uomo normale, che niente in apparenza distingue dagli altri. Ricordiamo che McQuarrie è il creatore di Keyser Söze, figura mitica e insospettabile de I soliti sospetti, rivelato alla fine del film con lo stesso stratagemma.
Eroe (stra)ordinario
Artificio che impone allo stesso modo l’attore nell’immaginario occidentale e più specificatamente in quello maschile. Come nessuno Tom Cruise ha saputo democratizzare la nozione di eroismo, massimizzando l’effetto empatia o identificazione. Dopo di lui, diventare un eroe sembra alla portata di tutti. Cruise dispone di attributi fisici comuni, non ha la morfologia sproporzionata di Schwarzenegger o il corpo gravoso e ingrato di Stallone, è piuttosto un uomo ordinario, ma un uomo ordinario perfezionato per la prodezza e il successo, ed è proprio questa ordinarietà a renderlo eccezionale agli occhi del pubblico, che ha compreso che non c’è più differenza tra quello che accade sullo schermo e quello che è avvenuto sul set, che Ethan Hunt non esiste davvero, che dietro a lui c’è soltanto Tom Cruise.
Attore e personaggio sono diventati un mostro a due teste, si sono vampirizzati a vicenda e c’è da scommettere che la caduta dell’uno porterà alla caduta dell’altro, il sottotitolo “Fallout” del penultimo episodio giocava proprio su questa dimensione crepuscolare e sulla natura interdipendente di queste due entità. Insomma tutto quello che avete visto fino ad oggi e continuerete a vedere in Mission: Impossible – Dead Reckoning Parte 1 sembra vero perché è vero, al punto da diventare argomento di promozione per la saga e l’opportunità per Cruise di dimostrare che le imprese di Ethan Hunt sono le sue.
Nella missione numero sette questo principio culmina in un climax che sarà ricordato come uno dei picchi più spettacolari della saga (la moto in caduta libera). Se Brad Bird aveva alzato l’asticella con la scalata del Burj Khalifa in Protocollo Fantasma, McQuarrie lo riafferra intrecciando mirabilmente due idee di cinema d’azione, che sono anche due concezioni di quello che può essere un film Mission: Impossible: un’esperienza vintage e classica, materializzata dall’Orient Express, affollato di memorie hitchcockiane e bondiane, o una versione più contemporanea, incarnata da Tom Cruise che concepisce le sue acrobazie come pezzi di bravura tecnica e promozionale destinati principalmente a Internet e slegati da qualsiasi intenzione drammatica.
A McQuarrie l’arduo compito di raccordarli al film, di produrre un momento d’estasi in cui l’ipotesi teorica e la macchina di precisione burlesca producono un orgasmo cinematografico.
Umano, troppo umano
Non era nelle intenzioni iniziali trasformare Mission: Impossible nel ricettacolo di un nuovo desiderio, in una vera visione di cinema, quasi una filosofia di vita. Tom Cruise a metà degli anni Novanta non è propriamente un attore d’azione, non lo è almeno fino al giorno in cui non sfonda un acquario a Praga (Mission: Impossible) o non scala una parete nell’episodio di John Woo (Mission: Impossible II).
La sequenza non è imprescindibile per l’intrigo, Ethan Hunt è semplicemente in vacanza, ma quell’ ‘ascensione’ a mani nude è il momento in cui tutto cambia. L’azione assume una forma di gratuità totale dove attore e personaggio si fondono, imbrigliandosi al di là della missione impossibile: Roy Miller è la versione leggera e romantica di Ethan Hunt (Innocenti bugie), Jack Reacher è la versione secca e brutale, Nick Morton la versione in formaldeide confrontata coi Mostri della Universal (La mummia). Scorrere la filmografia per credere, Cruise è diventato Hunt e viceversa dentro film in costante tensione tra classicità e modernità, action movie che nutrono la leggenda che il divo, l’ultimo divo di Hollywood, si sta costruendo.
Tom Cruise, ultimo baluardo
A sessantuno anni, Tom Cruise è diventato l’ultimo baluardo di un cinema d’intrattenimento esigente e artigianale, in cui la presenza moderata di effetti visivi digitali mette in risalto la verità di una performance fisica senza artifici. Riportare l’umano, o il sovrumano, al cuore del blockbuster era già la missione di Top Gun: Maverick, con la resistenza dei suoi piloti da caccia ai droni con cui li volevano sostituire, in Dead Reckoning il mondo è minacciato da una nuova forma di intelligenza artificiale, divenuta ‘cosciente’ e capace di accedere a qualsiasi sistema operativo, manipolando fatti e dati a piacimento.
Tom Cruise contro un ruggente e onnisciente buco nero? L’idea è perfetta e al passo coi tempi. Non solo perché l’IA è ormai argomento corrente ma soprattutto perché Dead Reckoning esce in un momento in cui lo sciopero degli sceneggiatori sta bloccando Hollywood, quella mostruosa e in divenire che se ne frega delle (vecchie) star, delle acrobazie analogiche, delle belle storie, di vacanze romane ‘in sella’ a una Topolino elettrica, delle notti bianche veneziane o di un’indomabile locomotiva keatoniana lanciata sull’orlo del precipizio, dove il genio di Tom Cruise lavora e rischia la pelle. Vedere l’incarnazione della star old school combattere il nuovo nemico giurato di sceneggiatori e cinefili è un meta-piacere senza pari.
Il settimo capitolo, il più depalmiano
Il settimo capitolo, il più depalmiano, misura allora le nostre paure contemporanee ma ci imbarca lontano, su un contro-blockbuster, che possiamo scommetterci avrà la meglio sul blockbuster degli infiniti mondi possibili, a grosso budget e a sfondo verde, perché il ‘Tom Cruise movie’ riposa sul valore del suo protagonista e sulla consapevolezza della fine, di un mondo finito. Senza frustrazioni, Dead Reckoning ci rimanda al prossimo capitolo, alla parte 2, a un sogno che si consuma come una miccia e va bene così.
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