C’era una volta il Nome dell’Autore. Era una garanzia di qualità. Era un’indicazione di stile e di campo. Era la promessa di un mondo – il mondo creato da quell’autore – e insieme la certezza che quel mondo (quella capacità di dare una forma specifica al mondo) ci avrebbe sorpreso ancora una volta. In molti casi era anche, come si direbbe oggi, un brand. Una formula magica che suscitava attese immediate e apriva molte porte. Da Fellini a Ferreri, da Antonioni a Leone, per restare in Italia, i produttori, i distributori, i festival, e last but not least gli spettatori, sapevano cosa aspettarsi. Ecco, tutto questo oggi va scomparendo. Nell’era dello storytelling globale, la figura dell’Autore con la A maiuscola, nata con i primi grandi divi del muto (da Chaplin in giù), perfezionata da Frank Capra (“Il nome prima del titolo”) e reinventata dalle nouvelles vagues anni Sessanta, tende a sbiadire e a ridimensionarsi. Stretta in una morsa che vede da un lato avanzare lo strapotere dei produttori (marchi, più che persone), e dall’altro le ambizioni degli sceneggiatori.
Siamo noi i veri creatori, sussurrano e talvolta gridano oggi gli inventori delle storie, i registi devono solo eseguire ciò che abbiamo immaginato e scritto. Soprattutto se parliamo di serie. Noi gli ultimi garanti del prodotto finale. Noi l’alfa e l’omega di quei mondi possibili in cui lo spettatore deve immergersi senza farsi troppe domande. Lo sciopero degli sceneggiatori americani sta lì a ricordarcelo. Senza il nostro lavoro la macchina si blocca. Vero. Vogliamo compensi proporzionati alla diffusione finale del nostro lavoro. Giusto. Siamo il primo anello di una catena produttiva gigantesca. Vero anche questo. E il mondo sembra dar loro ragione, come si vede da tanti piccoli segnali continui.
La Quinzaine ribattezzata
La storica Quinzaine des réalisateurs di Cannes, per dirne una, si è ribattezzata Quinzaine des cinéastes, suona più inclusivo. Writers Guild Italia e l’associazione 100autori hanno appena scritto una letteraccia al Sindacato dei giornalisti cinematografici, reo di aver invitato i suoi membri a votare le serie candidate ai Nastri d’Argento sottolineando, abitudine o miopia, il nome dei registi più che quello degli sceneggiatori. Intanto però, nell’alluvione quotidiana di mail e comunicazioni su cinema e tv, i nomi dei registi tendono a scomparire, come fossero una variante trascurabile, a vantaggio di sceneggiatori, produttori, showrunner. Per non parlare dei menu delle piattaforme streaming, sempre così fantasiosi, che propongono i loro titoli tacendo quasi sempre accuratamente i nomi dei registi, anche se sono grandi autori consacrati.
Ma quel che è peggio, gli autori stessi, quelli che meriterebbero davvero questo appellativo, hanno vita sempre più difficile, soprattutto in Italia bisogna dire. I grandi nomi emersi nei decenni passati sopravvivono, intendiamoci, anzi sfruttano meglio che possono il loro capitale di prestigio e potere. Ma gli altri? Quelli che si sono fermati sotto la linea del grande successo incontestabile? Quelli che magari meriterebbero più sostegno e attenzione? Quelli che continuano instancabilmente a cercare forme, temi, tagli differenti da quelli dominanti, ma una volta fatto il loro bravo passaggio al festival spariscono nella marea di titoli della stagione in corso? Possibile, per fare solo un esempio, che un film sotto ogni riguardo eccezionale come Bentu, di Salvatore Mereu, esca dai David con una sola candidatura e nemmeno un premio?
Sfide d’immaginazione
Eppure il nostro miglior cinema si è sempre nutrito di questo. Di diversità, immaginazione, sfide, anche folli. Tra i nomi più richiesti nei festival stranieri, ma questo in Italia lo sanno in pochi, ci sono registi sicuramente estremi o “difficili” come Alice Rohrwacher, Alessandro Comodin, Michelangelo Frammartino, protagonisti di personali e retrospettive in giro per il mondo. Quest’anno tutti festeggiano la terna in concorso a Cannes, Bellocchio, Moretti, Rohrwacher, ma nessuno sottolinea la vistosa assenza di nuovi autori dalla Quinzaine e dalla Semaine de la Critique, luoghi fondamentali per far nascere il nuovo e il diverso. Un nuovo e un diverso che in Italia sembrano non avere più spazio. Come se potessimo farne a meno.
Quattro “puri folli”
Eppure il cinema ha sempre avuto bisogno divisionari e sognatori. Di talenti irriducibili alle regole del gioco. Come ricordava Fabrizio Gifuni nel suo coraggioso discorso di ringraziamento ai David, citando quattro “puri folli” come Antonio Capuano, Giuseppe Bertolucci, Claudio Caligari, Davide Manuli. Forse dovremmo chiederci questo: quanti altri Caligari, quanti Capuano, quanti Manuli ci sono oggi, più o meno invisibili, nel nostro cinema? Quanti talenti stiamo lasciando al palo, quanti autori che meriterebbero di crescere resteranno nel limbo?
Tanti anni fa, evocando il suo incontro proprio con Capuano, Fabrizio Bentivoglio usò un’immagine bellissima per definire la sceneggiatura di Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, storia di un prete anticamorra innamorato di un ragazzino di 13 anni, figuriamoci proporlo oggi! Il copione di Capuano, disse Bentivoglio, era così pieno di voci, di idee, di immagini, di contraddizioni, che ballava da solo sul tavolo, per questo ho accettato. Ecco: le sceneggiature dei professionisti che oggi vogliono più potere e più quattrini, ballano sul tavolo?
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