“Avevo 26 anni quando ho deciso di fare questo festival. Era una follia, una scommessa enorme. Portare il pubblico a Berchidda, nel mio paese natale, un luogo che non aveva nessuna attrattiva turistica. Vedere il documentario è come guardare un figlio diventato adulto. È stato emozionante”. Paolo Fresu racconta così a THR Roma com’è stato ripercorre trentacinque anni del suo festival in Berchidda Live – Un viaggio nell’archivio Time in Jazz, film concerto diretto da Gianfranco Cabiddu, Michele Mellara e Alessandro Rossi presentato al Torino Film Festival e realizzato scavando in più di 1.500 ore di materiali d’archivio, in gran parte inediti.
Il ritratto di un festival vivo e pulsante, un appuntamento che si rinnova ogni estate dal 1988 e in cui è transitato il meglio della musica, non solo jazz, nazionale e internazionale e dove sono cresciute generazioni di pubblico ai piedi del monte Limbara per vivere un’esperienza fatta di musica, cultura e natura.
Trentacinque anni condensati in un’ora e mezza. Cosa l’ha stupita maggiormente nel vedere il documentario?
In primo luogo non immaginavo che la qualità della musica fosse così alta. Sono materiali che risalgono a molti anni fa, anche prima dell’avvento del digitale. E poi rivedere musicisti che non ci sono più – Gian Maria Testa, Ornette Coleman, Ezio Bosso e tanti altri – oltre a persone molto care dell’organizzazione. Rivedere il mio papà per un attimo o un pezzettino del mio matrimonio. Ma, soprattutto, tutto quell’aspetto legato ai giovani di quegli anni. Una sorta di Woodstock in cui arrivavano migliaia di giovani dalla Sardegna e non solo.
È una riflessione interessante sul fatto che quell’idea di coinvolgimento giovanile non esiste più in quella maniera. Oltre ad essere anche una riflessione sul concetto della musica stessa nel nostro presente che è completamente cambiata rispetto al passato. Ma Berchidda Live non vuole essere uno sguardo sentimentale né tantomeno conservatore. Perché il jazz, per antonomasia, è la musica che guarda avanti. E noi vogliamo continuare a guardare avanti.
Lei ha realizzato un documentario in un luogo dove solitamente la cultura fatica ad arrivare. La considera un’azione politica?
Assolutamente sì. Uso spesso la parola politica volutamente. Per quanto oggi l’accezione sia spesso negativa, soprattutto nel nostro paese. Il nostro è un festival che indaga e investe sulle potenzialità di un territorio. Apparentemente Berchidda non aveva ambizioni turistiche. Oggi le ha perché gli altri, venendo lì, ci hanno fatto comprendere questa cosa. È un investimento importante e, oserei dire, anche un po’ una sfida. E tutto ciò che sfida qualcosa è un atto politico forte.
Oggi è un festival che ha un’attitudine estremamente green, lavora sulle diversità e sulle uguaglianze. I temi hanno una connotazione di carattere sociale. Abbiamo preso coscienza della sua valenza politica, ma quando è iniziato non c’era ancora questa consapevolezza. Sapevamo solo che di Berchidda non volevamo fare un festival puramente musicale, perché ce n’erano già tanti. Bisognava costruire qualcosa di diverso e di unico.
Quali erano gli elementi che lo rendevano tale?
Il territorio, la gente, una storia fatta di lingua, di musica tradizionale. Tutte cose che potevamo offrire e che si potevano innestare in un linguaggio contemporaneo a quello del jazz. Il nostro festival dimostra anche quanto i borghi di cui oggi si discute tanto – visto che la gente và a vivere nelle grandi città perché nei piccoli paesi apparentemente non c’è nulla – invece possano essere straordinariamente gravidi e creativi. Se lo avessimo fatto in un altro luogo non avrebbe avuto lo stesso successo.
Da Bombino a Stefano Bollani a Berchidda ha suonato praticamente chiunque. Ma c’è un nome che credeva impossibile e che invece è riuscito a portare sul palco?
Ornette Coleman, uno dei padri del jazz moderno. Era il mio sogno e alla fine ce l’abbiamo fatta. Spesso chiamiamo i musicisti e li prendiamo dalle loro case in qualsiasi parte del mondo. Chissà cosa gli passa per la testa quando arrivano lì e vedono questo paesino piccolissimo. “Ma dove mi avete portato? (ride, ndr).
Nel film dice che la tromba è femmina e che va tenuta in un certo modo. Un metafora importante anche in relazione ai nostri tempi.
Sono fortemente convinto che la musica abbia un forte significato sotto il profilo sociale e che sia capace di smuovere le cose. Non può cambiare il mondo, ma sicuramente può contribuire a renderlo migliore. C’è un concetto di bellezza che si cela dietro che, se permeasse di più le nostre società, probabilmente non assisteremo a tutto quello che sta avvenendo. Nel 2000 facevamo un festival, L’altra metà del cielo, totalmente dedicato all’universo femminile quando ancora le donne nel jazz erano relativamente poche. Ora è un po’ cambiato, ma c’è ancora molto molto da fare.
Altre iniziative legate al sociale?
Due anni fa abbiamo realizzato un altro festival, Rainbow. Parlavamo di uguaglianze, diversità, tematiche LGBTQI+. L’anno scorso Berchidda era dedicato al tema del futuro. Abbiamo chiamato l’edizione Futura, prendendo spunto dalla bellissima canzone di Lucio Dalla. Ma, al di là di tutto, il tema delle donne, del pianeta, del rispetto, della condivisione, dello sviluppo sostenibile, del racconto di un territorio si sviluppano tutte attraverso la musica. E dimostrano quanto l’arte sia preziosa e fondamentale per le nostre comunità. Dovrebbe essere proprio uno degli elementi fondanti in Italia.
Il nostro è il paese dell’arte e della cultura ma purtroppo ci crediamo troppo poco. Una cosa è certa: la musica ha permesso di far scoprire i territori come quello di Berchidda e del nord della Sardegna. Ha un alto potere attrattivo che bisogna ancor di più sviluppare. Noi proviamo a farlo da anni e il festival è stato d’esempio per molti altri che fanno concerti immersi nella natura.
Se Berchidda fosse una melodia, quale sarebbe?
Più che una melodia penso sia una sinfonia che è fatta di tante melodie, linee, strumenti, temi che si rincorrono e che tornano. È una manifestazione complessa che ambisce a non essere solamente un mero festival dove c’è un palcoscenico e dove il pubblico la sera torna a casa. Il nostro è un grande progetto culturale. Non c’è solamente il jazz. Ma c’è il jazz che si relaziona con tutte le musiche del mondo, con le altre arti, le presentazioni dei libri, il cinema, l’infanzia con Time to Children. Tante linee melodiche che si intersecano, che a volte camminano parallelamente e a volte si toccano.
Qual è il suo rapporto con il cinema? Le piacciono le biografie dedicate ai musicisti?
Non sempre. Ogni tanto diventano eccessivi, un po’ patinati. Una delle cose più belle che ho visto è un documentario, Keep on Keepin’ On di Alan Hicks. La storia di Clark Terry, un grandissimo trombettista che, quasi in fin di vita, racconta cos’è il jazz a un ragazzo cieco. Ho talmente amato quel documentario che ho poi portato quel ragazzo americano a Berchidda (ride, ndr), abbiamo proiettato il film sul palco principale e dopo lui ha suonato. Mi piacciono i registi che danno attenzione alla musica, qualsiasi questa sia. Le colonne sonore di Ennio Morricone, Federico Fellini e Nino Rota, Peter Greenaway e Michael Nyman, Pedro Almodóvar e Fernando Iglesias. Non lo dico da musicista, però mi disturba sempre un po’ che i nomi dei compositori compaiano alla fine dei titoli di coda, dopo tutti. Anche se ovviamente sono tutte persone fondamentali in una macchina così complessa come quella del cinema, sia chiaro.
Parlando di grandi registi, lei ha lavorato con Ermanno Olmi in Torneranno i prati.
Un film silenzioso. Perché quando c’è la guerra l’unica cosa che parla è il boato della guerra stessa. Dopo sei o sette minuti di silenzio totale, in cui c’erano solamente i rumori della vita in trincea, si sente la prima nota del brano che avevo scritto, interpretata dal bandoneón di Daniele di Bonaventura. Proprio in quel momento appaiono i crediti della musica. Chapeau! Devo dire che fu un momento di grande signorilità e attenzione verso la musica.
Se dovesse descrivere il jazz in una parola, quale sarebbe?
Libertà. E dietro alla libertà c’è una quantità di parole enormi.
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