L’esordio alla regia di Camilla Filippi: “Con il mio viaggio nella malattia racconto la forza della vita”

Un documentario che evita "la pornografia del dolore", il fenomeno della migrazione sanitaria e gli abbracci ai genitori di bambini oncologici. L'attrice ci parla de La casa di Andrea - di cui THR Roma presenta il trailer in anteprima esclusiva - che arriverà fuori concorso ad Alice nella città. Anche la sua opera seconda affronta la disabilità: "Un tema dal quale sono fuggita per una vita. Ma non si può scappare da quello che si è”

“Scusi, mi è arrivata una raccomandata e poi il corriere. Tutti insieme!”. Camilla Filippi ci tiene a precisare il perché di quei tre minuti di ritardo rispetto all’orario concordato per l’intervista con THR Roma. Volto popolare di cinema e serialità, da La vita facile a Christian, ora l’attrice, scrittrice (La sorella sbagliata, Harper&Collins) e artista visiva è pronta per aggiungere un altro tassello al suo percorso. Lo fa sedendosi dietro la macchina da presa, affiancata da Andrea Bacci, per La casa di Andrea, debutto alla regia presentato fuori concorso nella sezione Panorama Italia di Alice nella città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema che si terrà dal 18 al 29 ottobre.

Camilla Filippi. Foto: Mirko Morelli Styling: Other Agency Hair&Makeup: Giulia Luciani @SimoneBelliAgency Look: Aberta Ferretti scarpe Tod’s

Camilla Filippi. Foto: Mirko Morelli Styling: Other Agency Hair&Makeup: Giulia Luciani @SimoneBelliAgency Look: Aberta Ferretti scarpe Tod’s

“Ho iniziato un percorso della vita in cui dò senso a tante cose che mi appartengono. Sono felice perché il mondo che ho raccontato potrà avere un po’ più di luce”, racconta Filippi del progetto legato all’associazione Andrea Tudisco Onlus che da anni fornisce accoglienza gratuita a bambini oncologici e ai loro genitori. In attesa di vederla in Pensati sexy, film Prime Video diretto da Michela Andreozzi, Camilla Filippi è già a lavoro sul suo secondo documentario, Il regalo per la pensione, le cui riprese termineranno a gennaio. Una storia autobiografica sempre legata alla disabilità e dedicata allo zio. “È una tematica dalla quale sono fuggita per una vita. Ma non si può scappare da quello che si è”.

Stare davanti la macchina da presa iniziava a starle stretto?

Parto da un presupposto che dovrebbe essere quello di ogni persona. Il mondo è pieno di strade interessanti. Penso sia importante non limitarsi mai nella vita. È la cosa che insegno ai miei figli. Se ci credi, ti impegni e provi, riesci a fare tutto quello che vuoi. Per me tutto è realizzabile.

Perché ha scelto questa storia per il suo debutto alla regia?

Sostengo l’associazione Andrea Tudisco Onlus da sette anni. E più volte mi sono ritrovata a stare con i bambini ospiti della struttura. Frequentandola mi sono accorta che quando lo raccontavo, le persone tendevano ad avere paura. Mi dicevano. “Non ce la farei mai”. È comprensibile. Ma penso che la paura sia un sentimento sano. Tutto quello che non conosciamo ci spaventa. Quello che non è sano è non provare ad entrare in contatto con quello che non conosciamo e quindi andare oltre le nostre paure. Vivendo quel posto mi sono detta: “La vita è più forte della morte”. Ovviamente ero spaventata e quindi ho chiamato un mio amico che fa molti documentari, Andrea Bacci. Abbiamo raccontato non solo la forza della vita, ma anche un tema che è forse troppo poco trattato: la migrazione sanitaria.

Cosa comporta?

All’interno delle case dell’associazione arrivano bambini da tutto il mondo. Non a caso i due protagonisti sono Lorenzo, che viene dalla Calabria, e Alain, che viene da Cuba. Questi genitori lasciano famiglia, lavoro e tutto il resto ritrovarsi in una città o in un paese sconosciuto per le cure del proprio bambino. Quasi sempre sono le madri ad accompagnarli. Per questo abbiamo costruito anche una casa per i papà affinché potessero avere un luogo in cui stare quando vengono a trovarli. Eppure il documentario non ti rimanda una tristezza, ma una forza incredibile di vita.

Camilla Filippi, Lorenzo e Bollicina sul set diLa casa di Andrea. Foto di Gabriele Stabile

Camilla Filippi, Lorenzo e Bollicina sul set diLa casa di Andrea. Foto di Gabriele Stabile

Già dal trailer si percepisce l’emozione dei genitori nel raccontare quello che vivono? Crede che prendere parte al documentario sia servito loro per condividere quello che affrontano?

Per i genitori è sempre più difficile rispetto a un figlio. Sono stati molto generosi a condividere con noi le loro emozioni. Devo essere onesta: quando scoppiavano a piangere entravo sempre nell’inquadratura e li abbracciavo. Perché penso che nel momento in cui una persona diventa troppo fragile la cosa migliore da fare non sia nemmeno parlare, ma far sentire che non si è soli.

Ho uno zio che ha avuto una lesione cerebrale con il forcipe e una zia che era spastica. Entrambi fratelli di mia madre, morta quando era molto giovane. Dico sempre che mi hanno regalato occhi diversi per guardare il mondo e mi hanno insegnato a stare dalla parte giusta, quella umana. Penso che quando una persona stia vivendo un momento di forza e felicità abbia il dovere morale di mettere a disposizione la propria gioia e la propria felicità per sostenere persone in difficoltà.

Che tipo di approccio avete scelto per la regia?

La casa di Andrea è un documentario classico, fatto di interviste. Anche perché avevamo la difficoltà nel raccontare un’intimità così profonda e complessa di esseri umani che non eravamo noi. Non potevamo fare altro che adottare questo approccio, perché permettono alla persona che hai davanti di scegliere e di pesare le parole. Abbiamo scelto un modo che tutelasse chi era davanti alla macchina da presa. Non volevamo in nessun modo violentarle. Abbiamo scelto di montare in modo che non ci fosse pornografia del dolore.

Con Andrea Bacci come avete suddiviso il lavoro?

L’approccio di Andrea è più tecnico e formale, io invece sono una splendida cialtrona (ride, ndr). Però insieme eravamo perfetti perché io ero tutta pancia e lui era la forma. Sono due cose che devono andare di pari passo, l’ho capito facendo il documentario. C’è stato un momento durante le riprese in cui ho visto che il padre di Lorenzo si stava commuovendo. Senza dare lo stop mi sono alzata, ho preso in braccio il bambino e l’ho portato via. Non volevo che vedesse suo padre in un attimo di debolezza. È molto complicato rimanere neutri su una narrazione che ha a che fare con i sentimenti.

Camilla Filippi sul set di La casa di Andrea

Camilla Filippi sul set di La casa di Andrea. Foto di Gabriele Stabile

Sta lavorando già a un altro documentario, Il regalo della pensione. Una storia personale che l’ha riportata a Brescia da dove se n’era andata per inseguire il sogno di diventare attrice. Com’è stato ritornare?

Quando te ne vai lasci sempre indietro qualcuno, che sia un genitore che diventa vecchio, un fratello che si deve preoccupare di un genitore – nel mio caso uno zio – oppure gli amici. La famiglia nel senso più ampio del termine. Ma a un certo punto il tempo viene sempre per farti pagare il conto rispetto al fatto che te ne sei andato. Quando sono partita odiavo la provincia. Sono scappata da quella situazione, non dicevo a nessuno che mia madre era morta e i miei zii erano disabili perché detestavo che qualcuno potesse avere pena nei miei confronti. Ero molto arrabbiata. È una tematica dalla quale sono scappata per una vita. Ma non si può scappare da quello che si è.

Poi?

Crescendo il tempo ha decimato la mia famiglia da parte materna. Siamo rimasti io, mio fratello e mio zio. Così quando mio fratello mi ha chiamato e mi ha detto che nostro zio sarebbe andato in pensione è arrivato il senso di colpa per essermene andata. Ho pensato fosse il momento di tornare lì e pagare il conto. Era giusto farlo perché quando arriva il tempo della pensione devi poterti dire di aver fatto tutto quello che era nelle tue possibilità per avere un rapporto umano giusto.

Quando mia madre è morta aveva 52 anni. Io ero molto giovane e ho passato il suo ultimo mese a fare il possibile per diminuire quello che proviamo tutti quando ci viene a mancare qualcuno. Un senso di colpa e frustrazione perché avresti voluto dire e fare delle cose. Siccome la sua morte mi ha insegnato che il “se avessi” è un verbo di merda, mi sono detta: “Finché siamo tutti qua, abbiamo la possibilità di usare il presente”.

Crede che il documentario, in qualche modo, abbia aiutato suo zio?

Ha iniziato involontariamente un processo. Ha toccato delle tematiche che non aveva mai affrontato prima. È praticamente non vedente perché la lesione ha fatto sì che il cervello non riesca a codificare l’immagine. Ha sempre ricondotto tutta la problematica della sua vita al fatto di non vedere. Per la prima volta ha detto: “Se non mi avessero fatto nascere in quel modo, avrei avuto una vita come quella degli altri”. E questa consapevolezza è nata durante le riprese.

Martin Castrogiovanni e il piccolo Lorenzo in una scena di La Casa di Andrea. Foto di Gabriele Stabile

Martin Castrogiovanni e il piccolo Lorenzo in una scena di La Casa di Andrea. Foto di Gabriele Stabile

Recentemente ha interpretato Giulietta Masina in Io e Lei, documentario di Sky Arte.

Giulietta è nata 1921. Due anni fa è stato il suo centenario e non è stata celebrata da nessuno. In un paese in cui il patriarcato è sempre lì in agguato, per quanto stiamo lottando perché ci sia una giustizia, lei rimane sempre “la moglie di”. C’è un aspetto nel documentario che mi piace tantissimo. Viene detto: “Tutti si chiedono cosa sarebbe Masina senza Fellini. Però nessuno si chiede cosa sarebbe stato Fellini senza Giulietta”.

È stata una grandissima attrice. Non ha cercato di seguire l’estetica di quel periodo storico, non si è mai mostrata diversa da quello che era. Una donna con un’umanità incredibile che traspariva dai suoi occhi. Ha un dolore, una vita, un’umanità dentro che è esattamente lo specchio di ciò che era. Credo onestamente che un attore, per quanto bravo, non riesca a fregare la macchina da presa, non la puoi tradire. Bisogna essere coraggiosi per mostrare la propria umanità.

Il suo film preferito con Masina?

Le notti di Cabiria. Tempo dopo l’uscita del film, Giulietta raccontò che mentre camminava per strada alle terme di Caracalla incrociò delle prostitute. Loro la vedono e la fermano. La festeggiano come una di loro, come se fosse stata veramente una prostituta che ce l’aveva fatta. In qualche modo, ai loro occhi, si era riscattata. Una cosa è incredibile. Penso dia un senso alto e poetico al lavoro dell’attore.

Quella camminata finale, quel suo sguardo in macchina – all’epoca rivoluzionario – da cui è uscita tutta l’umanità, il dolore ma anche la speranza di potercela fare nonostante Cabiria avesse toccato il fondo. Ecco, per me quello è il massimo che ci può essere. Mi dispiace molto che questo Paese non l’abbia celebrata come sono stati celebrati Vittorio Gassman, Alberto Sordi e tutti gli altri.