“Sono al lavoro su due lungometraggi di finzione. Uno è l’adattamento di un libro che ho molto a cuore, di cui presto sveleremo il titolo. Ho scritto la sceneggiatura con Chiara Barzini. L’altro, dal titolo provvisorio Une Famille Parfaite, è una coproduzione italo francese, in sviluppo al Torino Film Lab”. Adriano Valerio è al lavoro su nuovi progetti, ma il suo ultimo documentario, Casablanca, è stato presentato nelle sezioni Notti veneziane delle Giornate degli Autori.
La storia è quella di Fouad, figlio dell’Imam di un quartiere popolare di Casablanca. È in Italia senza documenti da dieci anni, in attesa di cure mediche. Daniela, invece, proviene da una famiglia pugliese dell’alta borghesia. Entrambi, senza esitazione, affermano di essersi salvati la vita reciprocamente. Tuttavia, con il passare degli anni, Fouad si stanca di aspettare i documenti, stremato da un ambiente cui sente di non poter mai appartenere. Tornerà a Casablanca, anche se questo significherà non rientrare più in Italia?
Ha seguito i protagonisti di questa storia per un lungo lasso di tempo. Ha mai provato il desiderio che la vicenda si concludesse, per poter iniziare il montaggio?
C’è stato un momento verso la fine, dopo le ultime riprese, in cui ho capito che era arrivato il momento per cominciare a montare. Ho sempre provato a rispettare il corso degli eventi, da quando ho iniziato a lavorarci nel 2016. A un certo punto però ho sentito il bisogno di chiudere. Anche se sono personaggi affascinanti e la loro storia è complessa e incredibile, il ritorno di Fouad a Casablanca era drammaturgicamente la chiusura giusta.
Come vi siete conosciuti? Come ha convinto Fouad a lasciarsi riprendere per tutti quegli anni?
Il mio primo lungometraggio si chiama Banat – Il viaggio. L’ho presentato a Venezia. Mentre accompagnavo la distribuzione del film, nel 2016, mi sono ritrovato in un bar a Gubbio. Lui mi ha chiesto una birra e abbiamo cominciato a chiacchierare. Mi ha raccontato la sua storia e l’ho trovata molto toccante. Era il momento in cui lui doveva sposarsi con Daniela. Di base sono a Parigi, ma in quel periodo vivevo a Roma. Così sono tornato per incontrarlo a Gubbio, e per conoscere Daniela. Quasi subito abbiamo cominciato a filmarli, perché sentivo che c’era qualcosa di veramente speciale nelle loro unicità di personaggi, e ancora di più in questa storia così atipica d’amore e misericordia.
Cosa le interessava delle loro storie?
Mi hanno permesso di entrare nelle loro vite. Ho provato a capire perché. C’è un libro che adoro, L’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, in cui in un villaggio – un po’come Gubbio – si muovono e vivono personaggi che sono archetipi: l’ubriacone, la prostituta, il tirchio. Gente che in questo “villaggio” veniva stigmatizzata, nonostante avesse delle profondità incredibili. Fouad è figlio dell’Imam di un quartiere popolare di Casablanca, lei di un’alto dirigente pugliese con una passione per l’esoterismo.
Entrambi vengono dal mare, hanno delle vite intense e una grande profondità. Penso che quello che chiedevano a me e, in qualche modo, al cinema, fosse di riscattarli, di restituirgli tridimensionalità. Che è esattamente ciò che accade in Spoon River. Dopo che sono morti, il poeta si prende la briga di raccontare le loro vite. E capisce che c’era molto di più, dietro a quei nomignoli.
La reazione della comunità in cui vivevano qual è stata?
È stato tutto molto complesso. Nel 2017 abbiamo fatto un cortometraggio, Mon amour mon ami, invitato alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti e poi al festival di Toronto. È andato benissimo. Alcune persone però si sono indignate per il fatto che, attraverso il cinema, quei due potessero avere un minuto di celebrità e di ribalta sul tappeto rosso. E sono diventati ancora più cattivi nei loro confronti. Per me è stata una sconfitta.
Sente una la responsabilità nel raccontare storie come quelle di Fouad e Daniela?
Non voglio sottolineare eccessivamente il valore politico del film. Però per me c’è un dato molto importante. Sono stati fatti molti film su personaggi marginali, immigrati e sottoproletariato. Penso ai fratelli Dardenne, a Ken Loach. Hanno mostrato ila loro lotta per la sopravvivenza, cioè come riuscissero ad andare avanti nonostante non avessero nulla.
Ma è importante non fermarsi lì, e riconoscere che il bisogno di amare e di sognare è, in qualche maniera, altrettanto primario quanto quello del cibo o della casa. Non basta raccontare la sopravvivenza, dobbiamo costruire una dimensione visionaria e onirica per raccontare in maniera più complessa questi personaggi. Questo per me è un gesto politico.
Cosa crede che li leghi?
Si sono trovati. Sono de persone che vengono da mondi diversi e vivono una misericordia laica incredibile, una compassione. Si salvano la vita, poi litigano, si lasciano. Fouad torna a Casablanca, ritrova famiglia e amici, ma alla fine chi può capirlo davvero? C’è solo una persona che ha vissuto come lui l’isolamento, l’umiliazione, la dipendenza.
Quello che hanno trascorso loro in quei tre anni, in quella casa fatiscente, tra cous cous, danze e demoni, è qualcosa di una profondità abissale, che li terrà uniti per sempre. Loro sono la salvezza l’una dell’altro, hanno costruito un’isola che li protegge dalla cattiveria che c’è intorno, ovunque siano. Però non possono separarsi. E per lui è un problema, come racconta nel film, perché la sua famiglia d’origine è a Casablanca.
Nel suo documentario non mancano momenti teneri e carichi di humor.
Mi sembrava fondamentale, quando si racconta una storia così dura. Sentirli parlare è uno spettacolo. Lui ha un italiano incerto, però sa essere molto preciso. Lei ha una lingua molto forbita, ma si perde nei suoi meandri mentali. Quando sono andato a incontrarli la prima volta ero affascinato dalla storia. Quando li ho sentiti parlare mi sono completamente innamorato della loro dialettica.
Ci sono molte scene notturne, non facilissime da gestire. Come ha lavorato con i suoi direttori della fotografia?
Ho avuto la fortuna di essere accompagnato da due geni, Diego Romero Suarez-Ilanos e Jonathan Ricquebourg. Hanno dato dignità e bellezza anche a quello che canonicamente bello non è. Lavoravamo con pochissimi effetti, abbiamo girato tutto con il 32 mm. Hanno una grande capacità tecnica, ma anche istintiva e umana.
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