“Mettiamola così: a volte a Milano i miracoli accadono”. Si mette a ridere Caterina Caselli quando sintetizza di come sia riuscita a portare l’amico e collega Paolo Conte in concerto alla Scala. Una serata indimenticabile diventata ora un docufilm diretto da Giorgio Testi e prodotto da Sugar Play, Paolo Conte alla Scala, Il Maestro è nell’anima, presentato al Torino Film Festival prima di arrivare in sala dal 4 al 6 dicembre con Medusa. Un film concepito da Sugarmusic come un progetto più ampio che comprende anche un album e un podcast prodotto da Sugar Play in collaborazione con Chora Media entrambi in uscita il 24 novembre.
Un viaggio quello del docufilm dietro le quinte che intreccia musica, ricordi e confidenze del più avanguardistico degli autori italiani i cui brani superano le barriere del tempo e arrivano intatti fino a noi. Così come quelli di Caselli – protagonista al TFF di una masterclass – voce, volto e intuito della musica italiana. Prima sul palco, poi come talent scout di artisti come Elisa e Madame. “Il mondo digitale ha portato velocità. Invece una volta c’era più tempo” ricorda l’artista. “I testi di quelle canzoni sono come le poesie. Sono veri. Una poesia che hai scritto 100 anni fa, se la trovi nel cassetto e la leggi, sembra scritta ieri. Sono parole che non invecchiano, che si rapportano nella società nella quale vivi.
Signora Caselli, da quanto tempo aveva in mente l’idea di portare Paolo Conte alla Scala?
L’ho conosciuto nel 1968 quando cantai Insieme a te non ci sto più. C’è stato un periodo nel quale abbiamo lavorato strettamente, abbiamo fatto due dischi bellissimi che rimangono nella storia. Tra l’altro lo vedevo in concerto e mi dicevo: “È un fuoriclasse, dovrebbe esibirsi in un teatro importante”. Avevo in mente la Scala, devo dire la verità. Mi ricordo una sera in macchina con Dionne Warwick. Ci siamo passati proprio davanti e Johnny Porta, la persona che all’epoca si occupava della parte promozionale internazionale, le disse: “Questa è La Scala, Dionne. Ti piacerebbe cantare lì?”. Lei rispose: “It’s a dream”. Ma io già da allora pensavo che Paolo Conte avrebbe dovuto cantare lì.
E poi?
Certe volte le cose si pensano ma poi non si realizzano. È passato tanto tempo, Paolo ha inciso molti altri dischi. Andai a un suo concerto a Milano – cosa che ho sempre fatto perché più lo si ascolta più lo si vuole ascoltarle e vedere – e alla fine dell’esibizione mi ricordai immediatamente di quel mio pensiero, di quel sogno che avevo e che non era stato realizzato. Ma mettiamola così: a volte a Milano i miracoli accadono (ride, ndr). Il 19 febbraio eravamo tutti lì. È stato un trionfo meraviglioso. Ho già rivisto il film quattro volte e tutte le volte mi faccio prendere dalla musica e dai testi che sono qualcosa di straordinario. È unico. Non solo in Italia, nel mondo.
È stato difficile convincere la Scala? O con un nome come quello di Paolo Conte le porte si sono aperte più facilmente?
Credo ci sia stata una considerazione anche da parte del mondo culturale della grandezza di questo artista. Ci siamo mossi con solo con la Scala ma anche con il ministero della cultura a Roma. C’è stato un comune intendimento. La tenacia vince sempre. Come le dicevo i miracoli accadono, basta crederci.
C’è un legame d’amicizia che la lega da tanto tempo a Conte. Secondo lei cos’è che vi ha avvicinato, in cosa vi siete riconosciuti?
È un paradosso. Ci ha avvicinato Insieme a te non ci sto più. Ma noi non ci siamo mai lasciati in realtà (ride, ndr).
Qualcosa di completamente diverso dai brani dell’epoca.
Sono d’accordo. Pensi a quella frase stupenda che dice: “Si muore un po’ per poter vivere”. Non si può pretendere tutto nella vita. È una conquista e quindi ci sono le lacrime e i sorrisi. La canzone racchiude poi anche una riflessione sul fatto che “Non sei la persona che credevo tu fossi” e quindi “Arrivederci amore, ciao. Le nubi sono già più in là”. Bellissimo. E poi il capoverso è stupendo perché quella canzone strutturalmente non ha la struttura classica delle strofe.
La musica e i testi di Paolo Conte hanno la capacità di superare il tempo, le generazioni. Così come le sue. Secondo lei perché quelle parole, quelle melodie, sono rimaste intatte?
Guardi, le dico una cosa. Intanto quelle parole scritte sono sincere e anche pensate. Adesso c’è tanta fretta. Ogni giorno in Italia escono 60 nuove canzoni. Invece una volta c’era più tempo. I testi delle canzoni sono come le poesie. Sono veri. Una poesia che hai scritto 100 anni fa, se la trovi nel cassetto e la leggi, sembra scritta ieri. Sono parole che non invecchiano, che si rapportano nella società nella quale vivi. La parte emozionale arriva subito. La musica quando è ispirata, non deve essere marketing. “Funziona questo! Fai una cosa simile”. No! L’ispirazione prima di tutto. Insieme a te non ci so più, ad esempio, è veramente un capolavoro. Come tutte le canzoni di Paolo Conte. Nel rivedere il docufilm io volevo entrare dentro lo schermo. Perché quella musica, quei suoni, quei testi ti attraversano. Ci sono delle frasi killer.
E crede che oggi la musica abbia quell’apertura verso il prossimo come c’era ad un tempo?
Non si può generalizzare. Dipende sempre dall’artista, dalla sua sensibilità, dalla verità nella quale nuota. Non deve mettersi in testa di piacere per forza. Deve essere sincero con se stesso. E deve cogliere quello che i suoi sentimenti, la sua vita gli dettano di esprimere.
Lei è una grande appassionata dei Beatles.
Molto, specie di John Lennon. Anche Paul McCartney. Ma Lennon mi piaceva di più (ride, ndr). Anche i Rolling Stones mi sono sempre piaciuti tantissimo. Fanno parte della rivoluzione. Ricordo che a 14 anni vestivo come mio padre. Poi, invece, con i Beatles, è arrivata anche la moda, la minigonna. Cè stata una rivoluzione epocale, straordinaria. La libertà intesa come tale. E il fatto di pretendere anche di essere donne e di essere considerate al pari dell’uomo.
Ha ascoltato il loro ultimo brano, Now and Then?
Non ancora, perché voglio avere il tempo per ascoltarlo bene. Ma lo farò assolutamente.
Al Torino Film Festival è stata protagonista di una masterclass dove ha parlatp anche di colonne sonore. Alla Sugar gli date molto spazio. Ma se dovesse scegliere una, la preferita, quale sarebbe?
Non mi metta in questo imbarazzo! Ce ne sono diverse, non potrei dirne una (ride, ndr). Penso ad artisti come Piero Umiliani, Armando Trovajoli con Aggiungi un posto a tavola , Piero Piccioni, Nino Rota, Riz Ortolani, Bruno Nicolai, Franco Micalizzi, Louis Bachalov, Nico Fidenco, Stelvio Cipriani e, attualmente, Raphael Gualazzi. Abbiamo un catalogo strepitoso perché la Sugar ha acquistato la CAM (casa discografica della fine degli anni Cinquanta, ndr) che ha raccolto tutte le più belle colonne sonore che si potessero pubblicare.
Alcuni di questi brani sono presenti anche ne La primavera della mia vita, film di Zavvo Nicolosi con Colapesce e Dimartino prodotto dalla Sugar così come Una vita, cento vite di Renato De Maria e ora il docufilm su Conte. Qual è il vostro obiettivo?
Vogliamo raccontare la storia di alcuni artisti e compositori. Perché ci sono delle storie nascoste che sono meravigliose. Raccontare quello che c’è dietro. È una conseguenza di ciò che ci ha lasciato in eredità il fondatore della Sugar, Ladislao Sugar. Partiva dal concetto che un bravo editore deve difendere, divulgare, promuovere e portare ricchezza all’opera dell’autore. Tutto quello che facciamo adesso, con gli strumenti che ci sono oggi e che ieri non c’erano, è per rendere visibile tutto il lavoro fatto nel passato e rivolgerlo al pubblico. Facendo proprio quello che diceva mio suocero. Insomma il disco rimane il menù, il pranzo è tutto questo. Live compresi.
Lei con la Sugar ha visto cambiare il mondo discografico. Dal cd alla cosiddetta musica liquida nata con le piattaforme. Secondo lei quali sono i punti di forza e i difetti di questo passaggio?
Il mondo digitale ha portato velocità. Da due decenni a questa parte tutto è cambiato in modo incredibile. Anche la musica ne ha risentito. Oggi la maggior parte delle persone l’ascolta attraverso l’iPhone. È diventata digitale, ma noi continuiamo ad essere analogici. Ci rapportiamo più con la lentezza della natura piuttosto che con la velocità del mondo digitale. Io sono analogica. Tra l’altro, oggi ci sono dei ragazzi giovani come mio nipote che comprano i 33 giri.
Perché questo? Perché in fondo la registrazione analogica, pur essendo forse un po’ sporca, ha qualcosa di caldo, qualcosa che è più vicino a te. Le emozioni ti arrivano di più. C’è meno compressione. Al di là del discorso della distribuzione della musica attraverso il digitale, cosa di cui ovviamente non possiamo più fare a meno, alla base c’è sempre l’artista con le sue ispirazioni. Io prediligo il vinile ma presuppone anche del tempo che bisognerebbe dilatare. Invece adesso, purtroppo, siamo portati ad essere frettolosi.
In Una vita, cento vite, afferma che non è tanto importante avere una voce potente, ma avere un’unicità. È questo che l’ha guidata nel suo lavoro come talent scout?
Assolutamente sì. Non serve avere una voce eccezionale. Anche quella ovviamente, però non è la qualità principe per un grande successo. Sono altre le cose. La materia prima sono sempre le canzoni. Poi chi ha la fortuna di dare l’imprinting attraverso una voce distintiva ha un vantaggio enorme. È lo stesso con Paolo Conte. La sua voce è un’unica. Io le canzoni di Paolo Conte le voglio sentire da lui.
Ha parlato della rivoluzione dei Beatles e dei Rolling Stones. Ma anche lei è stata rivoluzionaria. Nel modo di cantare, di presentarsi sul palco. È un’icona. Ci si è mai sentita o ha lasciato che fossero gli altri a pensarlo?
Sicuramente gli altri. Io ero me stessa. E secondo me bisogna cercare di essere lo più possibile. Anche perché altrimenti rischi di creare un gap tra te e il personaggio.
Ha sentito di essere un modello per tante ragazze che, all’epoca, avevano paura di uscire fuori da binari prestabiliti?
Credo di essere stata aiutata un po’ dal fatto che nasco in una famiglia povera e in una zona d’Italia dove la donna, per esempio, andava a lavorare in bicicletta. C’era già una certa libertà, fra virgolette. Ho visto il film dei Paola Cortellesi ed è stato un colpo al cuore. Ho rivisto le storie di mia nonna. Voglio applaudirla insieme a milioni di persone che l’applaudono quando termina il film perché ha fatto veramente un capolavoro. È un film bellissimo che porta in evidenza tante cose. Tra l’altro sono nata il 10 marzo 1946, un mese dopo il decreto che permetteva alla donna di votare per la prima volta in Italia. E chi lo sa, forse credendo nella fisica quantistica, ero già legata a tutto questo (ride, ndr).
Nel 1966 cantava Nessuno mi può giudicare. E invece oggi le donne continuano ad essere giudicate, picchiate, ammazzate. Dobbiamo continuare a cantare più forte?
È un discorso molto delicato. Quella canzone contiene due cose fondamentali. Una che è la verità è senza tempo e che la libertà di scelta è di tutte e di tutti. Poi, chiaramente, siamo tutti colpiti da una situazione terribile. C’è tanto lavoro da fare. A scuola ma ancor prima in famiglia. Mi immagino certi genitori che magari lavorano tutto il giorno. Quando arrivano a casa sono stanchi. Manca il dialogo con i figli. C’è bisogno di un cambiamento e una riflessione sul linguaggio che tendiamo ad usare. Ma, come sempre, i cambiamenti sono difficili da mettere in pratica.
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