Davide Ferrario è uno di quei registi di cui guardare sempre in controluce e in prospettiva la cinematografia, per scoprire una tendenza alla sperimentazione e al cambiamento sorprendenti, intrecciati, nel contempo, a percorsi che la intersecano, come quelli letterari, ad esempio, che lo hanno portato a una trilogia ancora da compiere, partita con La strada di Levi (dedicata a Primo Levi), proseguito con Umberto Eco – La biblioteca del mondo e che sembra si chiuderà “con Italo Calvino e proprio il pubblico statunitense all’annuncio ha risposto benissimo”.
Il regista di Tutti giù per Terra, Figli di Annibale, Guardami, Dopo mezzanotte, Tutta colpa di Giuda, dopo l’anteprima al Festival di Roma e una distribuzione mirata nelle sale italiane (Bologna, Roma, Firenze, Bergamo, Milano, Torino, Padova, Treviso, Alessandria e Bra) a marzo 2023 con un incasso di più di 25.000 euro e quasi 4300 spettatori, è arrivato negli Stati Uniti il 30 giugno proprio con il film dedicato al grande intellettuale italiano scomparso nel 2016. Con risultati clamorosi: dopo la prima settimana ha raccolto più della metà degli incassi italiani in una sola sala, la mitica Film Forum al Greenwich Village, distribuito da The Cinema Guild. Quindicimila dollari e spicci dopo una settimana, più di 9.000 nel solo fine settimana di esordio, con tanto di presentazione del regista, “le sale erano piene”. E in questa settimana al Film Forum si continua a sognare, con ben cinque spettacoli giornalieri (mai avuti qui in Italia).
Un grande successo internazionale quello di Umberto Eco – La biblioteca del mondo, prodotto da Rossofuoco e RaiCinema e distribuito da Fandango Sales in 18 paesi: anche in Canada (da Films We Like), Spagna (Filmin), Portogallo (Films4You), Germania, Austria e Svizzera Tedesca (mindjazz), Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Islanda, Lettonia, Estonia, Lituania (NonStop Entertainment), Bulgaria (Beta Film), Messico e Argentina (Mirada Distribution). E dimostrato anche dalla selezione al 57° Karlovy Vary International Film Festival nella sezione Horizons.
Davide, ci racconta la favola del suo ultimo documentario?
Il film è stato presentato lo scorso ottobre, al festival di Roma. Poi io che l’ho prodotto ho fatto un accordo con Fandango, per i diritti. Sia per l’Italia che per l’estero. In Italia è uscito a marzo, con una strategia “on the road”, fatta di singole proiezioni in giro per il paese, andremo avanti fino a settembre. Nel frattempo, a partire dalla Berlinale, hanno cominciato a venderlo fino ad arrivare a quasi 20 paesi.
E il 30 giugno è uscito negli Stati Uniti…
Lo so, è una chicca, è difficile in generale per un film italiano, per un documentario ancora di più. Sono andato lì per accompagnarne l’uscita e sono stato investito dall’entusiasmo del pubblico – le sale erano piene – e della critica, penso alla bellissima recensione del New York Times. Una bella favola per un film super indipendente.
Cos’è che, secondo lei, ha fatto sì che il suo documentario abbia conquistato l’estero?
La risposta più semplice e naturale è: Umberto Eco. Un intellettuale iconico, in Italia e nel mondo, uno scrittore conosciuto ovunque, anche se in questa trasferta nordamericana tanti, anche giornalisti, mi hanno confessato il contrario, che si sono fatti sorprendere anche dal fatto che fosse l’autore de Il nome della rosa. Ma è vero che il suo nome lo hanno sentito tutti, almeno una volta nella vita. Credo aiuti poi che è un bel film e che stia funzionando, dopo ogni proiezione, negli Stati Uniti come in Europa, il passaparola. E anche la promozione, la scelta della sala: c’è una concomitanza di tanti fattori. Forse il cinema italiano dovrebbe essere comunicato meglio. Poi, ovvio, dipende dalla qualità dell’opera.
A volte sottovalutiamo troppo il pubblico?
Questo capita spesso, a me era capitato qualcosa di simile sempre a New York, 10 anni fa, quando era uscito in America sempre con lo stesso distributore La strada di Levi, progetto diversissimo da questo ma che si incentrava su un grande protagonista della nostra letteratura. Ricordo ancora che nella seconda settimana incassò più della prima, arrivò fino alla penultima tappa degli Oscar. Se trovi qualcosa di interessante e originale, il pubblico ti premia.
Le viene voglia di cimentarsi nel mercato statunitense?
Guarda, io tre anni fa ho girato un film a Malta con Harvey Keitel e Malcom McDowell, Blood on the Crown (sui moti d’indipendenza di Malta contro l’Inghilterra nel 1919): è una delle vittime della pandemia, si è perso nello streaming. Purtroppo il virus ha cambiato un po’ delle cose che c’erano in ballo. Avevo persino una casa a Los Angeles, prima del Covid c’erano molte proposte che stavano andando a buon fine.
Chissà che il documentario su Umberto Eco non possa aiutare a riprenderli…
Sicuramente, non perdo le speranze, anzi. Però è anche vero che per un over 60 come me l’oggetto cinema è diventato qualcosa di profondamente diverso rispetto a quando ho esordito, quindi è tutto più difficile. Ma due o tre progetti ci sono e conto di riuscire a farne emergere almeno uno.
La casa a Los Angeles ce l’ha ancora?
La casa a Los Angeles ce l’abbiamo ancora, sì.
Già è qualcosa. Da lei a Placido, da Eco a Caravaggio, non trova che nella nostra cultura e nel nostro immaginario ci sia un pantheon di personaggi straordinari, realmente esistiti, che noi non sfruttiamo abbastanza? Abbiamo gli Avengers dell’Arte, non dovremmo raccontarli di più?
È chiaro che la cultura italiana non ha praticamente rivali al mondo, ma dipende un po’ cosa ci fai con quell’immaginario lì, perché è un attimo che inciampi in Open to Meraviglia così come è possibile dare il via a operazioni più sofisticate. Ma, ripeto, al grande nome devi affiancare visione e approccio originali: io, per esempio, non avrei mai fatto un film su Umberto Eco in quanto tale. È capitato che avessimo lavorato insieme l’anno prima della sua morte, per un progetto, una videoinstallazione per la Biennale d’Arte di Venezia con lui protagonista. Fu allora che vidi per la prima volta la sua biblioteca e gli chiesi subito di girare una scena con lui che camminava in mezzo ai libri, la stessa che apre adesso il film. “La memoria del mondo”, come la chiamava lui. Perché non dimentichiamo che questo è un film su quella biblioteca di 30.000 volumi (di cui 1.500 rari e preziosi) e contestualmente anche sul suo proprietario. Devi sempre avere una chiave per raccontare le cose.
D’accordo, nessuno vuole l’album delle figurine. Ma perdoni l’insistenza, tendiamo a ignorare questo immaginario così ricco
Dipende anche dal fatto che sono confronti impari, è una sfida che si deve avere il coraggio di affrontare con immodestia. Eco resta Eco, io resto io. Non voglio fare il paragone, non è mia intenzione. Però se ti confronti con questi devi provare a giocare al loro livello. Perché altrimenti fai uno sgarbo per prima cosa a loro. Se ti accontenti di produrre un documento senza provare a giocare nel loro stesso campionato, rimani sconfitto in partenza, se ti lasci intimidire sei come un rocker che va sul palco e ha paura della gente. Devi saper giocare con Umberto Eco, se vuoi inquadrarlo, in tutti i sensi. E infatti credo che il punto fondamentale di quest’esperienza sia stato che entrambi, con l’altro, ci siamo divertiti molto. Altrimenti non mi avrebbe neanche mostrato la biblioteca, che era un privilegio che riservava a pochi.
Chiudiamo con un piccolo gioco: chi vorrebbe raccontare, nel prossimo documentario?
Io ho un personaggio, un film di cui esiste una sceneggiatura: la Frida Kahlo italiana, Amalia Guglielminetti, la non-amante di Guido Gozzano (la loro fu un’amicizia spirituale ed epistolare, di fatto, ma appassionatissima, ndr). La grande storia di non amore tra loro è letteralmente scomparsa dalla letteratura italiana. Come è successo a lei. Nessuno ricorda che nel 1910 lei era più famosa di lui, e di Gabriele D’Annunzio: era una rockstar e un personaggio femminile fantastico, avanti su tutto. E non è l’unica, ci sono tante donne che vorrei raccontare che, in quanto tali, sono scomparse dai radar della storia, dei musei, delle antologie. Gli uomini sono molto più bravi a marcare il territorio, a pisciarci sopra, le donne volano più alto, sono più generose. E poi nonostante la sua storia sia incredibile e interessantissima, non è che susciti chissà quale fregola nei produttori. Che poi uno dice, fai Lidia Poet, solo per assonanza con quell’epoca e quei costumi arriva fino ad Amalia Guglielminetti, no?
E se dagli Stati Uniti una major le chiede un film di finzione su Umberto Eco lo fa?
No, e credo nessuno potrebbe avere quell’idea, un personaggio così complesso è riduttivo portarlo dentro un biopic. Ma ho parlato con il figlio, invece, delle sue tante opere mai adattate per il cinema. E lì mi divertirei tanto a pescare diverse storie e portarle sul grande schermo.
Si candida come regista della saga dell’Eco Universe?
Magari. Mi piacerebbe davvero molto. C’è del materiale narrativo incredibile lì. Ora però scusami devo salutarti. Devo entrare in sala.
Che cosa vede?
Il vento soffia dove vuole di Marco Righi, che è qui in concorso a Karlovy Vary. Me ne ha parlato ieri e sono molto curioso.
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