“Ci sarà un festa al Lido per il documentario. Verrà anche qualcuno dei miei ex”. Il titolo del documentario in questione, diretto da Chloé Barreau, è Frammenti di un discorso amoroso. Presentato alle Giornate degli Autori nella sezione Notte Veneziane – prodotto da Groenlandia e distribuito da I Wonder Pictures – il lavoro della registra francese è la ricostruzione della sua vita basandosi esclusivamente sulle interviste delle persone che l’hanno amata.
Diviso tra Parigi e Roma, Frammenti di un discorso amoroso intreccia testimonianze intime e materiali privati che si mischiano per svelare i percorsi universali del sentimento amoroso.
La prima, ovvia, domanda. Come hanno reagito i suoi ex quando sono stati contattati?
Conoscendomi non erano affatto sorpresi (ride, ndr). Mi conoscono, sanno che filmo tutto, conservo tutto. Sono consapevoli che faccio film usando i miei materiali privati. Se lo aspettavano che prima o poi gli arrivasse una proposta del genere.
Hanno tutti risposto con positività?
Non è stato facile per alcuni. C’è una persona che ha rifiutato. Ma il documentario è stato l’occasione per riappacificarci. L’ho ritrovato. E questa per me è la cosa più importante. Inizialmente pensavo accadesse il contrario: che avrebbe accettato ma che non avremmo recuperato. È successo l’opposto e francamente preferisco questo che averlo nel film.
Non è stata lei a fare le interviste. Aveva bisogno di questa distanza perché loro si sentissero completamente liberi di poter far riaffiorare i loro ricordi?
Ci sono due motivi. Uno è registico perché mi sembrava importante che loro raccontassero la storia a qualcuno che non la conoscesse, così da per poter dare informazioni di luogo e tempo. Non ci sarebbero stati abbastanza elementi descrittivi altrimenti. L’altro motivo ovviamente era perché si sentissero liberi di parlare e anche di dire cose scomode. Non mi interessava fare un confronto delle versioni o una reunion. Dal punto di vista narrativo pensavo molto allo spettatore, a come avrebbe recepito la storia. E sentir parlare in un modo molto classico di un personaggio fa diventare loro stessi i personaggi. In questo modo si riuniscono i pezzi del puzzle.
Ha iniziato a filmare e collezionare ricordi da giovanissima. Si è interrogata da dove arrivi questa forma di ossessione?
Ho scoperto recentemente che quello di cui soffro si chiama scopofilia. La pulsione scopica, così la chiama Jacques Lacan, riguarda le persone che hanno un piacere libidinoso nell’inquadrare, guardare, incorniciare. C’è chi gode dello sguardo. E questo è proprio quello che mi contraddistingue. Ho sempre sentito la necessità di inquadrare, trattenere il momento, fotografando e filmando. Però non avevo velleità artistiche, non volevo diventare regista. Era più per trattenere il presente o forse perché mio padre è uno storico. Conserva tutto, ha archiviato la sua vita e quella della sua famiglia. Mia madre, invece, era una bravissima fotografa e mi ha passato la sua passione.
In un periodo storico che si è affidato al digitale, alla tecnologia, al cloud per archiviare, lei è orgogliosamente analogica?
A casa ho 50 hard disk, non so quante casse di fotografie e lettere. Sono molto feticista degli oggetti, delle tracce fisiche. La smaterializzazione del mondo, dell’area digitale è una cosa che mi mette un’ansia enorme. Non mi piace, non mi è mai piaciuto. Appartengo all’analogico. Per me carta, libri, cd e tutti gli oggetti sono insostituibili. Non riesco a farne a meno. La moltiplicazione del mezzo in qualche modo lo desacralizza anche un po’. Abbiamo così tanti scatti che invece basterebbe stamparne uno. Tra l’altro la carta invecchia benissimo e stanno ricominciando a archiviare su carta perché hanno troppo paura del rischio dei bug. Io non ho mai usato il cloud e non lo userò mai. Mi sembra una specie di purgatorio.
Crede che quello della regista fosse segnato nel suo destino?
Con la montatrice, Marina De Pedro, abbiamo cercato, in modo sottile, di raccontare come sottotrama la nascita di una vocazione. Cioè la storia di una ragazza che, senza averne coscienza, accumula immagini che poi diventeranno un film. È come se avesse una pre-coscienza ma senza che sia consapevole. Ancora una volta: nessuno è stato sorpreso intorno a me. Già avevo fatto delle cose con i miei materiali di repertorio e poi l’amore è sempre stata la mia attività principale. Non ho fatto molto altro nella vita! È chiaro che le due cose si sono mischiate (ride, ndr).
Riascoltare le voci di questi amori passati, vedere chi era ancora rapito da lei e chi, invece, era ancora arrabbiato, come l’ha fatta sentire?
Quando si giravano le interviste, la sera stessa me le guardavo da sola con le cuffie a Parigi o a Roma. Era molto emozionante. Alcuni mi hanno fatto piangere. La cosa incredibile è che spesso, mentre li guardavo, sentivo il loro amore e il mio amore. Non è stata una cosa violenta, e tutte le cose che potevano dire di negativo me le aspettavo. È stato rassicurante sapere che in nessun momento ho pensato che la persona di cui stavano parlando non ero io. Però ho tenuto molto le distanze perché sono una regista e questo è un film. E ovviamente c’è una scrittura. Quindi per me loro, dal momento in cui si è fatto il film, diventano dei personaggi. Quando si comincia a riflettere in termini di narrazione dobbiamo raccontare una storia, trovare una drammaticità e una costruzione che sia semplice.
In che senso?
Per me era molto importante mantenere la cronologia. Oggi nessuno lo fa più perché sembra che dobbiamo sempre decostruire tutto. Invece io ho voluto fare una storia cronologica perché viviamo la nostra vita cronologicamente e perché una storia porta naturalmente a un’altra. L’altro motivo è che volevo dare a ognuno un momento in cui c’era solo lui o lei. Come quando sei innamorato, c’è solo quella persona. Sapevo che la storia sarebbe stata un po’ dura, che la donna in me quando sentivo delle cose scomode sarebbe rimasta ferita ma la regista applaudiva. Era ovvio che avessi bisogno di ostacoli, di comprensione, di malintesi.
Ogni storia ha almeno due punti di vista. Ascoltando il loro, cosa si è ritrovata a scoprire di se stessa e di quelle relazioni che magari aveva archiviato nel suo cassetto dei ricordi in un altro modo?
Ho scoperto tante cose. Alcune per una questione di durata non sono nel film. Ma per esempio parlano tutti dei miei genitori. Sono la figlia di un prete spretato e la storia dei miei genitori – ho fatto un film su di loro dieci anni fa (La faute a mon pere, ndr) – è abbastanza scandalosa e romantica. Sono la figlia di una storia d’amore eccezionale. Tutti hanno detto che questo ha probabilmente segnato un po’ il mio destino amoroso nel senso che ho cercato di mantenere molto alto il livello per cercare di superare questo insuperabile esempio. Ho un’attrazione per gli amori proibiti che viene dalla storia altrettanto proibita dei miei genitori. Ma non ci avevo mai pensato prima di fare il documentario.
Il suo documentario è prodotto da Groenlandia attraverso Lynn, divisione dedicata a promuovere il lavoro di registe. Una realtà necessaria?
Assolutamente sì. Questo film non sarebbe mai stato prodotto se non ci fosse stata questa iniziativa. Il documentario l’avevo scritto anni fa e questo progetto rincontrava sempre successo, dovunque lo presentassi vinceva premi ed è stato finalista a Solinas. Però non partiva mai produttivamente. È chiaro che in Italia la situazione è disastrosa dal punto di vista delle narrazioni femminili. L’iniziativa di Giulia Steigerwalt è sacrosanta.
Nel mio percorso produttivo ho incontrato molti dubbi e perplessità da parte degli uomini. Mi si diceva che era un progetto narcisistico e autoreferenziale. Mi hanno scoraggiata e fatta vergognare. Adesso che sono un po’ più grande mi sono detta: “Perché mi devo scusare?”. Siamo cresciuti con Woody Allen e Nanni Moretti. Tutti uomini che fanno film autoreferenziali, privati, personali e che ci piacciono. Perché le donne non lo possono fare?
Parafrasando Raymond Carver, di cosa parliamo quando parliamo d’amore?
Io direi che parliamo di storie. Sono sempre stata consapevole che l’amore era una forma di finzione. Ma una finzione necessaria. Come si dice ne Le relazioni pericolose, è l’arte di aiutare la natura. Quando parliamo d’amore parliamo di storia. È un momento in cui tu, persona, diventi personaggio. Infatti si dice “storia d’amore”. C’è un inizio, una metà e una fine. Il tema principale del cinema di finzione è l’amore. Non ho mai capito perché il documentario non si interessa a questo soggetto.
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