Necessario. Aggettivo ampiamente abusato nel cinema. Ma Il popolo delle donne, documentario diretto da Yuri Ancarani presentato nella sezione Proiezioni speciali delle Giornate degli Autori, è un lavoro profondamente necessario. “È la prima volta che mi viene da invitare le persone ad andare a vedere un film. Perché lo dovrebbero vedere tutti” racconta il regista a THR Roma.
Il film evidenzia per la prima volta il rapporto fra la crescente affermazione sociale delle donne e l’aumento della violenza sessuale maschile. Protagonista è Marina Valcarenghi, psicoterapeuta e psicoanalista con quarantacinque anni di lavoro clinico alle spalle. Da quest’esperienza, ancora in corso, Valcarenghi ha potuto osservare come l’insicurezza femminile sopravviva, nonostante la progressiva conquista di autonomia economica e sociale. Per prima ha introdotto la psicoanalisi in carcere, nei penitenziari di Opera e di Bollate, lavorando per dodici anni nei reparti di isolamento maschile con detenuti in gran parte condannati per reati di violenza sessuale.
Perché ha sentito il bisogno di fare questo documentario?
Quando Marina Valcarenghi parla rimango pietrificato. Ascolto tutto quello che dice all’infinito. È interessante per tutti. È la prima volta che mi viene da invitare le persone ad andare a vedere un film. Perché lo dovrebbero vedere tutti. Ci sono diversi motivi che mi hanno spinto a farlo. È da tempo che l’informazione in Italia è diventata dibattito. Si parla di disinformazione. Ma ormai per far creare hype e interesse si va oltre la qualità dell’informazione stessa. L’obiettivo di educare le persone non esiste. Ho deciso di fare Il popolo delle donne perché nel mio cinema i territori pericolosi sono quelli su cui intervenire.
Ci sono dei passaggi nei quali Marina Valcarenghi riporta delle testimonianze agghiaccianti di uomini che ha avuto in cura sia nel suo studio che nelle carceri. Da uomo sentire quelle parole che effetto ha avuto su di lei? Come se ne esce?
Insieme. Non è possibile dividersi tra uomini e donne. Ho fatto un film in una società dove la cultura femminile e la cultura maschile sono separate. Ed è terribile perché l’unico modo per uscirne è farlo insieme. E questo film è molto utile per iniziare un percorso, un dibattito serio. Come dice Marina, bisogna avere pazienza. Ci vuole tempo, non si fa tutto in una generazione.
Crede ci sia un seme di speranza per il futuro?
La nuova generazione contiene un modo di pensare completamente nuovo e fortunatamente sereno da un certo punto di vista. Però è anche vero che chi stupra oggi sono i ragazzini. Quindi il problema è che c’è una parte di persone che ha un’educazione e un’attenzione che comprende veramente cosa significhi l’apparenza dei sessi. Ma c’è anche un’ondata di giovani legati a un’educazione e a un atteggiamento pericoloso. È vero che mandare i ragazzi in carcere è completamente diseducativo. Ma allo stesso tempo se ogni volta che un giovane viene denunciato per qualcosa un giudice lo ritiene poco importante si crea un problema. Marina incita la rivoluzione. Finché ci sarà una ragazza che denuncia, poi ce ne saranno due, dieci, cento, mille.
Si è confrontato con altri uomini?
Per un mio interesse di ricerca personale e artistico sono passato dal paese capitale mondiale del patriarcato che è Arabia Saudita, passando da Haiti, luogo legato allo schiavismo, per poi tornare vicino casa e guardare il comportamento del branco in situazioni come Atlantide. Ho una consapevolezza lucida del modo di pensare di un certo tipo di uomini. Nello stesso tempo io ho una frequenza diversa. E frequento uomini poco competitivi. È stato molto faticoso trovare amici maschi che non avessero questa nevrosi della competizione.
La scelta dell’ambientazione e la regia molto semplice sono state scelte perché pensava fosse necessario concentrarsi più sulla parola che sull’immagine?
È così tanto quello che dice Marina. Il lavoro è stato quello di creare un ambiente a togliere. Un po’ la caratteristica che porto sempre dal mondo dell’arte al mondo del cinema. E come al solito diranno: “Ma questo non è un film”. Era già accaduto per Atlantide.
E l’opinione della critica la ferisce?
No, mi diverte molto.
Lei è anche insegnante. Come si è confrontato su questo tema con i suoi studenti?
Parlo molto con loro, mi danno molto. Tra l’altro mi hanno aiutato a girare questo film. Ho un continuo dialogo con diverse generazioni. E c’è una cosa che secondo me un ragazzo non si potrà mai immaginare. Il fatto, cioè, che quando cammina e c’è una persona dietro di lui possa non sentirsi al sicuro.
Avendo questo confronto con loro cosa ha notato?
Il problema è che la violenza maschile è strettamente proporzionale all’insicurezza femminile. E le ragazze devono ancora imparare a gestirla. Siamo in un momento un po’ delicato. O fai un passo avanti o uno indietro e ti fai proteggere da un uomo. Che è poi quello che ti picchierà in casa. Si deve parlare di insicurezza. Nella militanza femminista questo può essere visto come un punto debole. Invece ciò che bisogna fare è lavorare insieme e demolire i cliché di uomini e donne.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma