“Difficile mondo”. Una frase pronunciata con il sorriso sulle labbra da una ragazza straniera ospite in una delle due strutture psichiatriche della periferia di Roma raccontate da Francesco Munzi in Kripton. Le storie di sei giovani che hanno deciso volontariamente di ricoverarsi e che combattono con disturbi diversi. Prodotto da Cinemaunici con Rai Cinema, il documentario Kripton – in sala dal 18 gennaio con ZaLab – esce nell’anno che segna il centesimo anniversario dalla nascita di Franco Basaglia, lo psichiatra che ispirò l’omonima legge rivoluzionaria nell’ambito del trattamento dei pazienti affetti da malattie mentali.
Nel documentario Munzi osserva la quotidianità dei protagonisti – filmata nell’arco di tre mesi -, tra crisi, passi in avanti, confronto con medici e familiari e domande esistenziali che ci riguardano tutti. “Nei microcosmi che ho rappresentato, dove sicuramente si fa uso di psicofarmaci, ho trovato anche delle oasi di cura e quindi di dialogo e scambio che mi sembrano – e lo dico da profano, anche se ritengo sia difficile contestare questa verità – il principale modo per curare il disagio. Ascoltare, sentire la voce di chi ha difficoltà ad esprimerla”, racconta il regista a THR Roma.
Com’è stato avvicinarsi alle persone e alle storie che racconta?
Avevo il desiderio di esplorare cinematograficamente la materia – che è interiore – per riuscire a tradurla, a portarla sullo schermo. Non avevo nemmeno le idee troppo chiare di quale tipo di lavoro avrei fatto. Ho iniziato in maniera molto semplice, contattando alcune strutture e comunità psichiatriche e laddove ho trovato una certa apertura mi sono fermato. Non è che abbia avuto un metodo. È venuto tutto piuttosto naturalmente, c’è una parte istintiva e una parte di ragionamento. Ma il rapporto è iniziato quando ho sentito una fiducia e quando gli incontri cominciavano ad essere belli. A quel punto ho capito che c’era materia per un documentario.
Filma anche momenti molto intimi o di tensione. Com’è stato per i ragazzi ospiti della struttura avere a che fare con la macchina da presa che, in un certo modo, li scrutava?
È molto difficile generalizzare perché, nonostante nel documentario l’effetto sia un po’ ipnotico perché si passa dall’uno all’altro con molta continuità, con ognuno di loro c’è stata una storia e un approccio differente. Credo anche che utilizzino la telecamera in maniera piuttosto differente. E parlo di “utilizzare” perché loro stessi si sono in qualche modo avvicinati. C’è chi si rappresenta di più, come è il caso di Marco Antonio, che sceglie lui cosa dire e cosa non dire. Un mattatore libero, quasi come fosse un attore. E questa cosa coincide con il suo stato psichico.
Ma c’è anche chi, invece, ha lasciato libertà piena alla macchina presa, anche di non guardarla e rendersene conto. Infatti in alcuni casi sembra che l’operatore sia invisibile. Siamo diventati una parte integrante della comunità, degli strani operatori alternativi. L’elemento comune tra tutti è stata l’idea della collaborazione. Si stava facendo un progetto insieme. C’era un rapporto abbastanza paritario. Erano anche protagonisti della produzione e del lavoro.
Utilizza del materiale d’archivio molto evocativo emotivamente sebbene slegato dalla materia trattata. Da dove nasce l’idea?
Il documentario è uno strano mix tra cinema ed osservazione pura. Siamo stati tanto tempo con loro. Abbiamo osservato e aspettato che le cose capitassero. E quindi c’è quello stilema lì. Poi sentivo, forse da ancor prima di iniziare, che c’era bisogno di un’altra lingua nel documentario e l’ho trovata strada facendo perché il potere evocativo, suggestivo – proprio della soggezione – dell’archivio ha una grande potenza se uno trova le immagini adatte. In quel senso quella appartiene alla mia soggettività, da autore. È la mia interpretazione, la mia chiave, quello che sentivo andava detto in un’altra forma e che non usciva dalle parti realistiche del documentario. Assonanza, inconscio, evocazione. Mi sembrava che completasse il lavoro, che fosse fondamentale in qualche modo.
Per buona parte del documentario non vediamo mai il volto dei dottori o del personale delle strutture. Fino a quando, durante un colloquio, c’è un movimento di macchina che inquadra uno dei medici per poi tornare su una delle pazienti. È stata una scelta consapevole?
Abbastanza consapevole. Volevo capire dove mi portavano loro. All’inizio era importante provare a immedesimarmi, ad entrare dentro la loro soggettività. Volevo che fossero loro i protagonisti assoluti e l’esterno – gli adulti, la famiglia, i medici – fosse guardato da loro. Dopodiché sono loro stessi, a un certo punto, che ci hanno portato a svelare anche l’altra parte. Quindi ho inaugurato quello che immaginariamente chiamo “il secondo capitolo del film”. Quello sulla cura e sulla terapia, che è qualcosa di molto intimo, condiviso con i dottori. Nell’ultima fase entrano anche i familiari, perché mi serviva dare altre profondità alle storie stesse, laddove trovavo il materiale giusto. Però il punto di vista per me resta sempre quello loro.
Lei di questi genitori racconta anche la frustrazione e la rabbia. Un aspetto inedito. Una volontà di andare oltre la rappresentazione monodimensionale?
Ho scoperto e conosciuto gran parte della materia e delle dinamiche filmandoli. Non c’è stato un prima e un dopo. Il film è nato facendolo e quindi scoprivo delle realtà ognuna diversa dall’altra. Non avevo nessuna idea preconcetta. Non volevo dimostrare nessuna tesi. Anzi, ero ansioso di capire io stesso. Ho messo in scena quello che capivo man mano, cercando di mantenermi il più possibile senza paraocchi, senza dare giudizi.
Il mio punto di vista l’ho espresso nel rapporto, nella relazione. Devo però confessare che c’era per me un interesse, non ideologico, non tanto a capire com’erano i genitori rispetto al problema, ma quanto a raccontare i rapporti che ci sono tra il contesto familiare e il disagio mentale. Quella prospettiva mi interessava particolarmente e un po’ esce fuori dal documentario.
In uno dei momenti più emozionanti di Kripton una delle pazienti, Benedetta, pronuncia una frase, “Difficile mondo”, ma sempre con il sorriso in volto. Lei cos’ha capito in più del mondo stando a contatto con loro?
Che è complicato. È molto difficile dare le tesi, dare delle verità, delle formule. Quello che mi ha insegnato questo documentario, anche rispetto alla malattia mentale, è la difficoltà e l’importanza della cura che vuol dire – come ci dice anche la scena finale – di parlare, stare insieme, condividere, rompere un po’ l’isolamento.
La cosa bella di Benedetta è che lei piano piano si è fidata di noi come testimoniano le immagini. All’inizio è una figura lontana che non si poteva avvicinare, potevamo riprenderla solo da lontano. Poi si è avvicinata. Quel parlare di piccole cose con il dottore – degli alberi, del sole, del vento – ci sembrava un’indicazione indiretta, ma molto importante, sulla rottura delle barriere tra quest’area così difficile, che nonostante i progressi sembra ancora molto fuori dalla società, e l’importanza di includerla, di farla diventare più quotidiana e più normale. Per vincerla.
I ragazzi hanno visto il documentario?
Sì, quasi tutti. La reazione stata è molto bella. La temevo molto, soprattutto da parte dei familiari. Invece è stato un momento molto liberatorio. Per loro è stato molto importante vedersi all’esterno. Hanno confermato la fiducia che mi avevano dato e questo è tra i principali risultati del film per me.
Alla fine del film ci sono dei cartelli in cui si afferma come, solo nel 2022, 3 milioni di persone hanno sofferto di disturbi mentali di diversa natura e che spesso sono i medici di base o specialisti privati a fare prescrizioni. Crede che sia un modo per nascondere la polvere sotto il tappeto e che servirebbe, parallelamente a un percorso farmacologico, un supporto terapeutico?
Penso di non avere le competenze per rispondere. Ma sembra che i dati ufficiali che abbiamo pubblicato ci dicono che il fenomeno è diffusissimo e non se ne parla abbastanza o nella maniera corretta. Sempre i dati parlano di risorse alla sanità, dalla parte del dipartimento della salute mentale, ulteriormente tagliati in controtendenza con l’aumento del problema stesso. È molto difficile capire quanto sia tra noi la malattia mentale.
In questo senso anche la diffusione degli psicofarmaci penso segnali questo. Nei microcosmi che ho rappresentato, dove sicuramente si fa anche uso di psicofarmaci, ho trovato anche delle oasi di cura e quindi di dialogo e scambio che mi sembrano – e lo dico da profano, anche se ritengo sia difficile contestare questa verità – il principale modo per curare il disagio. Ascoltare, sentire la voce di chi ha difficoltà ad esprimerla.
Con Futura, insieme ad Alice Rohrwacher e Pietro Marcello, avete provato a raccontare il futuro di una generazione di ragazzi. Poi è arrivato il Covid.
Abbiamo iniziato a girare venti giorni prima che chiudesse il mondo.
Crede che quello stop forzato alla vita possa influenzare il loro futuro?
Sono un cineasta. Con i miei mezzi cerco di captare un’area del tempo, quello che sento e quello che so. Facendo Futura, un lavoro completamente diverso da Kripton perché era un viaggio su numeri più ampi, abbiamo catturato il momento della pandemia. Dove però probabilmente alcuni problemi già erano in luce e c’erano già da prima.
La difficoltà di immaginare un futuro, una specie di mondo fermo che deve essere sempre per forza perfetto, performativo, sano, bello, giusto e in cui la fragilità non è contemplata. Mi sembra che, anche se sono dei lavori molto diversi, Krypton invece prenda la parte e cominci ad ascoltare le persone fragili. Sicuramente l’isolamento della pandemia sui ragazzi che vivono di scambio è stato terribile. Però non credo che sia l’unica causa dell’impennata della sofferenza mentale.
Oltre alla sala, quale spera sia il percorso del suo documentario per raggiungere un pubblico più vasto possibile? Anche per cercare di togliere con lo stigma che avvolge la malattia mentale e la lascia ai margini.
Spero che abbia una vita cinematografica, perché guardarlo in sala ha una concentrazione e una densità di visione sempre più forte. Però mi auguro che abbia la maggior diffusione possibile. È un argomento che offre tanti tipi di considerazioni sulla materia. Non solo medici ma anche riflessioni filosofiche, sociali, politiche. Tocca tanti temi e credo che ognuno di noi si possa fare un documentario del proprio personale viaggio, andando anche al di là del tema stesso della malattia mentale.
Sono passati dieci anni da Anime nere. Sta pensando di tornare al film di finzione?
In questi dieci anni ho fatto dei documentari (Assalto al cielo, Futura, ndr) e ho lavorato con Niccolò Ammaniti a una serie, Il miracolo. Cerco di fare film che mi piacciono e che ho urgenza di raccontare. Adesso sono in fase di scrittura. Spero nel minor tempo possibile di tornare al film di finzione.
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