Chris Clark è un eco-guerriero, uno scozzese fuori dall’ordinario che nel cuore della foresta amazzonica ha creato il suo personalissimo “Avamposto del progresso”: un modello di società utopica basato sull’equilibrio perfetto tra natura e tecnologia, gestito e preservato dagli abitanti della foresta. Ma la situazione peggiora di anno in anno e un nuovo grande incendio minaccia di distruggere l’Avamposto.
Chris decide allora di giocare d’azzardo, opponendo alla spettacolare distruzione della foresta un evento altrettanto spettacolare: un concerto dei Pink Floyd dentro l’inferno verde, così da convincere il governo brasiliano a istituire una riserva. Ma veramente possiamo salvare la foresta, noi, i figli dello stesso modello capitalista che la sta distruggendo? Se lo domanda Edoardo Morabito, regista del documentario L’avamposto presentato nella sezione “proiezioni speciali” delle Giornate degli Autori.
Com’è stato vivere nel villaggio ed entrare in contatto con i suoi abitanti?
Ci son stato pochi giorni, poco più di una settimana. Ed ero protetto, ospite pagante e dunque un turista a tutti gli effetti. Si percepivano tensioni nell’aria ma tutto scorreva liscio e a parte i racconti di Chris, la realtà sembrava divertente. Con qualcuno degli abitanti c’è stata immediata simpatia e comunicazione, nonostante i problemi dati dalla lingua – non parlo portoghese – tanto da farmi pensare che un siciliano e un abitante della foresta potessero riuscire a comunicare attraverso il canale comune del colonizzato, anche se a diverse latitudini. Naturalmente le cose non erano così semplici. Io ero quello bianco, l’occidentale, quindi tutta la realtà sì modificata a mia immagine e somiglianza. Mi trattavano bene.
Perché il modello sociale immaginato da Chris non sta più funzionando?
Chris dice che ha provato a costruire un modello di capitalismo illuminato. Ma il capitale non è forse un mostro che corrompe anche nelle profondità più remote del pianeta? Credo che lui si rendesse conto di aver contribuito alla fine dei Guardiani della foresta, e questo non faceva che aumentare il suo disagio. È stato lui a creare le prime scuole lungo il fiume – l’associazione ha pagato i maestri per anni, prima che il governo iniziasse a farlo. Ed è stato lui a portare il benessere che a quanto pare ha ubriacato alcuni.
Grazie alle donazioni europee, Chris ha portato allo Xixuaù infermerie, scuole, pannelli solari, internet e ha addirittura debellato la malaria. Ma diceva che: “Gli Indigeni sono i perfetti guardiani della foresta, i Caboclos no (i meticci dell’Amazzonia, ndr) per loro ci vuole un progetto”. Ed è per questo che ha investito gli abitanti del villaggio del ruolo di Guardiani della Foresta. E poi, per auto-sostenersi e non diventare “come le scimmie allo zoo a cui i turisti lanciano le noccioline”, hanno iniziato a lavorare con il turismo ecosostenibile, facendo crescere il benessere locale.
E poi?
Gli anni passano, le generazioni al villaggio si susseguono e il sogno originario si è sbriciolato. Alcuni studiosi suggeriscono anche che i Caboclos siano popoli non stanziali e dunque non predisposti a organizzazioni strutturali, a progetti a lungo termine. Ad ogni modo Chris aveva capito che bisogna puntare su una sostenibilità economica che si basi sul principio della salvaguardia del paesaggio. Insomma che la foresta, se vuole sopravvivere, bisogna che abbia una propria economia, che diventi anch’essa in qualche modo un prodotto, per rientrare nel modello economico che ci domina. Perché “o ci integriamo, o scompariamo”. È questo l’atroce assioma.
Gli effetti del cambiamento climatico sono palesi. Eppure in tutto il mondo, Italia compresa, sono molti i leader politici che tendono a minimizzare o negare la realtà. Cosa può cambiare se chi ci governa non è in grado di attuare politiche efficaci?
Niente. Per salvare il pianeta bisogna fermare le destre che usano il negazionismo per proteggere gli interessi delle oligarchie economiche. Se da un lato infatti c’è il loro populismo, per cui raccontano balle perché sono più facili da digerire e le politiche a lungo termine non sono molto popolari presso l’elettorato; dall’altro c’è l’ormai famoso spostamento della sovranità nazionale dallo Stato verso compagnie petrolifere, finanza, industria e l’economia tutta.
Proprio in questi giorni è uscito un interessantissimo studio che Greenpeace ha svolto su come i giornali in Italia non trattano l’argomento del cambiamento climatico e, quando lo trattano, lo trattano male. È palese come i media siano dipendenti dell’industria dei combustibili fossili e compagnia bella, per via del guadagno che gli deriva dalla pubblicità. Nessuno parla male di chi lo sovvenziona.
É anche colpa dei media, quindi?
La comunicazione, che è stato uno degli aspetti più determinanti per la nostra evoluzione, oggi è il nostro problema maggiore. Il nostro sistema di realtà se ne sta andato a farsi benedire una volta per tutte. Il Metaverso è già qui. Niente è più reale, quando ogni narrazione è possibile. Inoltre, fino a quando non ti bombardano casa o non ti si allaga il salone, niente ci riguarda veramente. Penso spesso all’immagine del bambino siriano di due anni morto su una spiaggia greca. Sembrava che il mondo finalmente dovesse cambiare. Dopo due giorni nessuno se ne ricordava più.
Negli ultimi mesi si è iniziato a parlare di “eco ansia”. Che opinione si è fatto?
Ho molta ansia. Ho una figlia di 9 anni e i primi anni è stata dura. Vivevo col senso di colpa per averla messa al mondo in questo mondo al collasso. Il pensiero che quando lei avrà la mia età non potrà mangiare niente che provenga dal mare, era dolorosissimo. O che la metà dei mammiferi che oggi lei studia a scuola collezionando figurine, per allora non esisteranno più. Poi l’ansia mi è passata perché ho pensato di aver fatto solo il mio dovere, ho piantato il mio albero e insomma se il mondo fa schifo saranno pure affari suoi. Questo è il suo tempo e le toccherà di lottare affinché diventi migliore. Ogni generazione ha avuto la sua guerra.
In compenso oggi ho l’ansia per gli incendi e cataclismi vari. Penso che si debba ascoltare ogni sintomo di disagio che ci racconta chi siamo, perché è da li che si parte sempre: dal dolore. E l’ansia bisogna guardarla in faccia, reclamarla come proprio dovere d’esistenza, per riuscire a fare qualcosa. Però penso anche che del discorso ambientale bisogna farne una questione di desiderio, non solo di dovere o di punizioni bibliche. Non si dà rivoluzione senza desiderio. È dalla qualità del nostro desiderio che dipendono le sorti del pianeta.
Sono sempre più frequenti le dimostrazioni di attivisti che prendono di mira musei, monumenti o edifici per attirare l’attenzione sui problemi climatici. Considera queste azioni necessarie o controproducenti?
Beh è davvero molto curioso che le persone a cui stanno a cuore le sorti del pianeta siano diventati i nostri nemici. È la criminalizzazione del dissenso, ormai sempre più capillare. Magari a volte sbagliano strategia, è chiaro che se si mettono sul raccordo anulare a sbarrare la strada a gente che è sclerata perché passa ore al giorno in auto, non possono sperare nella loro empatia. Peccheranno di ingenuità, ma hanno tutta la mia solidarietà, tanto più se fanno cose innocue con vernici lavabili. Il loro messaggio è più importante del linguaggio. Anzi, rispetto alle forme del passato, mi sembra che queste siano forme di dissenso molto innocue.
Abbiamo dimenticato come si manifesta veramente. Il loro è un discorso simbolico e per niente violento. Ovviamente credo che l’arte e la cultura umanistica siano l’unico antidoto possibile all’ecatombe attuale (mentre la società della tecnica ha fatto fuori i filosofi, che tanto avrebbero potuto aiutarci a capirci qualcosa) ma se il mondo finisce, o quantomeno diventa un luogo orribile in cui vivere, non ci sarà opera d’arte in grado di salvarci. Ed è interessante rifletterci.
L’uomo sta distruggendo il mondo. Le crede nel futuro? Pensa che la generazione dei Fridays for Future possa invertire la rotta?
Come si fa a non credere nel futuro finché si è vivi? Sarebbe innaturale, come smettere di sognare la rivoluzione anche se sai che non verrà più. È la cosa più ragionevole in cui credere, mettiamola così. E la rivoluzione è dei giovani. Certo, è un fatto che per la prima volta nella storia noi non programmiamo più, nemmeno per i nostri figli, non abbiamo più un’idea di futuro. La contemporaneità è in crisi: ciò che credevamo giusto, il nostro modo di vivere, è tutto sbagliato.
Rispetto al passato oggi c’è questa angoscia inedita della fine del mondo naturale, ma l’apocalisse è stata sempre dietro l’angolo e la giovinezza se ne frega delle contingenze storiche, ha da fare la sua rivoluzione, è un fatto biologico. Va da sé che, come sempre, è dai movimenti che bisogna ripartire, anche se non sarà un movimento ad invertire la rotta, ma le scelte politiche che appunto latitano. Dovremmo ascoltare di più questi ragazzi e metterci un po’ da parte. Perché è loro il mondo che abbiamo distrutto, non più il nostro.
C’è stato un momento in cui ha pensato che la direzione che gli eventi stavano prendendo non le avrebbe permesso di portare a compimento il tuo progetto?
Molti momenti. Questo film è morto più volte. Ho cominciato a seguire Chris nel 2016. Per l’esattezza ho fatto solo dei sopralluoghi filmati nel suo villaggio in Amazzonia e, quando dopo un anno è venuto in Europa per la morte del padre, l’ho ripreso per un’altra settimana. Poi, mentre cercavamo di mettere in piedi il progetto, Chris è morto. Nel poco tempo in cui ci siamo frequentati siamo diventati molto amici e questo mi ha paralizzato a lungo. Ma la sua storia mi accompagnava come una realtà parallela che non riuscivo ad abbandonare. E una notte ho riguardato il materiale, che nel frattempo era diventato “il mio archivio personale” su Chris.
Considerare il girato come archivio mi ha permesso di ricominciare a lavorarci. Avevo un film ma dovevo scriverlo daccapo, e con me dentro. La voce narrante avrebbe permesso una narrazione con il poco materiale che avevo a disposizione e avrebbe messo in scena il nostro rapporto durante questo viaggio, sia fisico che immaginifico, in cui il sogno di Chris si sovrapponeva al mio in un gioco di specchi e desideri capace di dare forma all’idea chiave del film: vivere per un’idea, mia o di un’altro poco importa.
C’è un aspetto che l’ha messa in crisi di questo progetto?
La cosa difficile era trovare il tono per questa nuova scrittura basata sul nostro rapporto. E il film l’ho trovato quando ho montato il video messaggio iniziale, dove racconto di aver trovato il suo “messaggio nella bottiglia”. L’assurdità di quell’incipit mi ha dato la chiave per riuscire a raccontare quella che in fondo è la storia di un’amicizia lungo i confini del mondo, geografici e mentali.
Lavorare sul film documentario è come dare forma a una nuova lingua, perché si basa sui diversi materiali a disposizione che vanno ascoltati e fatti “suonare”, una scrittura dialettica, per così dire, che non vive di imposizioni ma ha un suo movimento organico da intercettare. Doppiamente faticosa perché ero contemporaneamente montatore e regista, personaggio e voce, e quindi dovevo pure scrivere i testi che più tardi, da montatore, mi sarei censurato per chiedere al me regista di scriverne altri.
Oggi quali sono i tuoi sentimenti nei confronti di Chris?
Lo amo alla follia, contraddizioni e stramberie comprese. Mi piaceva l’idea di essere lui. Per questo l’ho mangiato, digerito e ora fa parte di me. Viveva per un’idea, totalmente e contro ogni evidenza, e questa per me è pura poesia. Aveva trovato un luogo incontaminato e l’idea romantica di volerlo conservare per sempre era diventata da allora la sua ossessione. La sua vita era legata al destino dell’umanità e lui era il mio antidoto al disincanto.
Ma soprattutto l’occasione per fuggire dalla buia sala di montaggio in cui vivo recluso molti mesi all’anno. Chris era un grande artista: creava sistemi di realtà dentro i quali si perdeva, la creazione del villaggio è situazionismo puro. Per lui vale il caro, vecchio motto de la fantasia al potere, che è ciò di cui abbiamo bisogno oggi. Perché è venuto il momento di capire che è necessario ripensare la realtà, dati i catastrofici risultati della nostra azione sul mondo; che sognare, come avrebbe detto Chris, significa agire in prospettive cosmiche e che dobbiamo nutrici dell’impossibile.
Com’è finita?
Temer ha firmato il decreto per la creazione della riserva del Basso Rio Branco, giusto in tempo prima dell’arrivo di Bolsonaro. E anche se questo non cambierà le sorti della foresta, né tanto meno quelle del pianeta, intanto 650.000 ettari di foresta vergine sono stati messi in sicurezza. Almeno per un po’. E ringrazierò sempre Chris per avermi regalato, in mezzo all’immane tragedia che stiamo vivendo, un lieto fine, seppur modesto.
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