La foresta polacca come il Mediterraneo: “un luogo di morte per chi fugge”, una prigione in cui si entra senza sapere come (e se) uscire. I profughi non lo chiamano bosco ma “giungla”, quell’intricato labirinto di conifere – il “Puszcza Białowieża” – che separa la Polonia dalla Bielorussia. “Un posto dove sopravvivono solo lupi e bufali, e dove d’inverno la temperatura scende sotto zero di almeno venti gradi. Chi entra in quella foresta ha poche possibilità di uscirne, da solo”.
A raccontarlo è Kasia Smutniak, l’attrice polacca naturalizzata italiana, che ha scelto la Festa del Cinema di Roma per presentare oggi in Italia il suo esordio alla regia Mur, documentario-reportage prodotto da Fandango con Luce Cinecittà, selezionato allo scorso Toronto Film Festival e nelle sale italiane da domani (in Polonia a dicembre).
Un viaggio on the road che parte da casa dei nonni della regista, a due passi dal muro del cimitero ebraico del ghetto di Litzmannstadt (uno dei ghetti ebraici più grandi d’Europa), per attraversare il cosiddetto “green border”, la boscosa frontiera che ha intrappolato, dal 2021, migliaia di profughi in fuga dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Africa. Proprio là sorge uno dei muri più imponenti d’Europa, 186 chilometri d’acciaio per sei metri d’altezza, eretto dall’(ex) governo polacco per arginare la fuga dei migranti: “mur” in polacco significa muro. E la storia di Smutniak parte proprio da là: dal muro del ghetto a quello della Fortezza Europa.
“Sono nata dieci anni dopo la caduta del muro e quell’episodio, anche se non l’ho vissuto in prima persona, ha determinato ciò che sono oggi. Quando ho sentito che nel mio paese stavano costruendo il muro più costoso del continente, per fermare i migranti, la notizia mi ha scossa, cambiando la mia idea di un’Europa aperta e accogliente. Prima di quel momento, come tutte le persone che lasciano il proprio paese d’origine, provavo una specie di senso di colpa per quel che stava accadendo nel mio paese. Ma non mi permettevo di intervenire, di criticare, di partecipare. Quel che è successo mi ha spinta ad agire”.
È proprio il muro al cuore del racconto, e non i profughi, che Smutniak sceglie di non mostrare (se non brevemente, in immagini di repertorio o sui telefonini dei volontari): “Non mostrarli è stata una scelta. Volevo conservare il punto di vista delle persone che, come me, non sono in prima fila, ma in seconda o terza. Spettatori che leggono le notizie, ma non prendono parte attivamente a ciò che accade. Mi sembrava il punto di vista più vicino al pubblico. E quello più sincero”.
Come Agnieszka Holland con il suo Green Border, anche Smutniak si addentra nel cuore di tenebra del suo paese (e dell’Europa): diversamente da Holland, sceglie lo strumento del documentario, sviluppato con l’aiuto di un’autrice (Marella Bombini, anche lei nel film) e di una rete di volontari che operano sul territorio.
“Ho visto e seguito fin dall’inizio il progetto di Agnieszka, che ha girato un anno dopo di me – ha raccontato Smutniak – In pratica diciamo la stessa cosa, i nostri film sono compatibili: raccontano, con strumenti diversi, lo stesso periodo storico, le stesse persone e gli stessi luoghi. Siamo ‘partner in crime’. L’ho incontrata due volte, la prima alla Mostra di Venezia. Le ho chiesto se girare il suo film l’avesse cambiata e cosa le fosse rimasto addosso. Non ha saputo rispondermi. E adesso non so dirlo nemmeno io”.
Smutniak, che in quei luoghi era già stata nel novembre del 2021, accompagnando il giornalista Diego Bianchi in un reportage per la trasmissione di La7 Propaganda Live, in Mur rivela – oltre che una spiccata sensibilità per la regia – anche ottime doti da reporter: riprende e registra tutto ciò che vede (spesso di nascosto), entra in contatto con le reti degli attivisti, si mette in gioco in prima persona partecipando alle operazioni di recupero dei migranti nella foresta.
Guida macchine, pilota aerei, convince le guardie di frontiera ad accompagnarla fino al muro: “La verità è che mi hanno sottovalutata perché sono una donna. Donna, attrice, italiana, privilegiata. Spesso ho avuto accesso a luoghi in cui nessun reporter uomo avrebbe mai avuto il permesso di fare riprese. Si sono rilassati tutti, hanno abbassato la guardia. Per loro non ero pericolosa. Del resto io non volevo essere pericolosa: volevo solo raccontare una storia”.
Stasera il film sarà festeggiato con una grande festa a Roma, su un barcone lungo il Tevere. Si celebrerà l’arrivo in sala di Mur, ma si brinderà anche all’esito delle elezioni in Polonia: la vittoria dell’opposizione moderata ed europeista capitanata da Donald Tusk, secondo Smutniak, potrebbe rappresentare un nuovo inizio per tutta l’Europa.
“Tralasciando chi ha vinto, anche se si tratta comunque di un dettaglio molto importante, il dato fondamentale è il 74% dell’affluenza alle elezioni. In Polonia hanno votato per la maggior parte donne e giovani tra i 18 e i 30 anni. Siamo abituati a pensare che i cittadini non possano incidere sulla politica, ma la verità è che siamo addormentati e impigriti. Siamo la generazione arrivata dopo le grandi rivoluzioni, e tutto ci sembra inutile. Invece, in un paese come la Polonia, i giovani si sono risvegliati – ha spiegato Smutniak – Spero che il vento del cambiamento si espanda: se ce la facciamo noi in Polonia, a dare l’esempio, sono convinta che anche altrove nel mondo si possano ottenere gli stessi risultati. Il muro polacco non è servito a niente, nonostante i soldi spesi per costruirlo e il disastro umanitario e ambientale che ha provocato. L’ennesima dimostrazione, confermata anche dal nuovo conflitto scoppiato in Medio Oriente pochi giorni fa, che dividere i popoli ha sempre conseguenze devastanti”.
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