Nascondino, l’opera prima di Victoria Fiore, finanziata dal British Film Institute in associazione con Bronx Film e oggi al festival di Bagnoli, è una fotografia della realtà. È nata lavorando con l’associazione Quartieri Spagnoli, “in particolare con Eleonora Dell’Aquila”. Non è Gomorra (“noi non siamo Gomorra”, si legge a un certo punto su un muro) e non è Mare Fuori: è un’altra cosa. È la vita vera così come si presenta ogni giorno. Lontano dai qualunquismi di una critica che fa solo finta di sapere, e dalle semplificazioni della fiction televisiva e cinematografica.
È un ciclo, Nascondino. Inizia e finisce nello stesso punto, quasi con le stesse immagini. E ci dice che non c’è pace, che non c’è soddisfazione; che a volte le cose aspettano solamente di accadere. Non è fato. È cinema-verità. I protagonisti sono bambini, vivono ai Quartieri, a Napoli, e per loro è tutto un gioco. O forse no. Forse non è un gioco: siamo noi che, per dare un senso a quello che vediamo, siamo portati a pensare che lo sia.
Famiglie spezzate
Si comincia con il Cippo di Sant’Antonio, con questa tradizione che molti giornali hanno bollato come criminalità e violenza e che invece raccoglie i giovani del rione e li fa competere l’uno contro l’altro per l’albero di Natale più grande da bruciare. Siamo all’inizio dell’anno, quando il freddo è più intenso e i nasi si fanno velocemente rossi. È proprio qui che, sorridente e attento, vediamo per la prima volta Antonio, chiamato Entoni. Scritto così: con la e e la i.
Entoni è giovane e antico insieme. Come un vecchio costretto nel corpo di un ragazzino. Nei suoi occhi c’è la consapevolezza di chi ha visto tanto, pure troppo, e non riesce a ritrovare un contatto effettivo con la realtà – con la ferocia della vita di ogni giorno. Passa il suo tempo andando in giro con gli amici, lontano da scuola, sugli scogli di Mergellina. Il sole sulla pelle, e l’ombra della salsedine sulle labbra.
Con lui, c’è anche la sua famiglia. A metà, spezzata. E c’è suo fratello, Gaetano. Lui più piccolo, inizialmente introverso. Felice di poter stare a casa a giocare, a ridere. Victoria Fiore è brava nell’alternare più trame e più storie: Entoni, la madre, sua nonna. La strada. I Quartieri e anche le Vele. Questi cellulari che non si spengono mai che scattano in continuazione, flash, selfie, storie. Labbra strette in baci senza schiocco e facce piene di trucco. E poi arrivano il carcere, i giochi che si fanno seri e gli incendi.
Non c ‘è giusto o sbagliato
Le macchine della polizia e dei carabinieri sono come incisi momentanei in un racconto molto più ampio e profondo. Non c’è giusto o sbagliato. E non c’è niente di così banale come il male o il bene. C’è il grigio. C’è l’ottusità della povertà. C’è la mancanza, reale ed effettiva, di occasioni. Che cosa resta, alla fine, di Entoni? I capelli rasati ai lati, lunghi in cima; un disegno di sfumature sulla nuca. L’agilità e la forza del suo corpo. I nervi che scattano al minimo problema. Le parole che si mischiano.
Quando parla in napoletano Entoni è un uomo: svelto, convinto, capace di tenere una presa su sé stesso e sull’ambiente che lo circonda. Quando passa all’italiano, invece, è di nuovo un bambino: incespica, farfuglia; fa fatica a trovare la linearità dei suoi pensieri e a esprimerla.
In Nascondino c’è il mondo nuovo e c’è il mondo passato. Quello delle vedove che a ventitré anni si ritrovano già a dover badare a tre figli. Quello delle case piccole, costrette, tutte uguali, piene di stucchi dorati e di inutili barocchismi. Quello della strada: a cielo aperto, vivo, tra lastroni di pietra lavica e cemento abusivo. E poi il più bello, forse il più libero: quello del mare. Dove ogni cosa, anche se per pochissimo, può tornare alla sua dimensione di gioco.
Uno, due, tre anni
Nascondino è un documentario compatto, curato, colorato e fotografato benissimo (da Alfredo De Juan), diviso in capitoli e scandito dal tempo. Un anno, due anni, tre anni. Durante il Cippo di Sant’Antonio, i bambini si truccano. Si passano le dita sporche di nero sulle guance, sulla fronte, e si fanno guerrieri. Questa è la nostra festa; questo è il nostro trionfo. Pronti alla sfida, pronti alla nostra guerra. La loro infanzia, però, dura pochissimo. È una parentesi. Un pizzico, anzi. E quando meno se l’aspettano, la crudezza dell’esistenza comincia a trascinarli via, a pretenderli. E si finisce a Nisida, nelle case famiglia, lontano dagli amici, dagli affetti e dalla strada.
Anche Entoni viene trascinato in questa spirale. “La felicità”, dice, “è una sensazione di libertà”. E in questa frase c’è l’essenza stessa di ciò che è, di ciò che ha vissuto e che vivrà ancora. Un bambino può essere un adulto? Un bambino può avere le stesse responsabilità dei suoi genitori? E chi, se non i suoi coetanei, possono capirlo?
Chi viene da un altro mondo
Victoria Fiore, con il suo documentario, prossimamente al cinema distribuito da Mosaicon, non vuole rispondere a queste domande. Vuole, al contrario, porle. Sottolinearle. Metterle in evidenza. Perché il rischio, alla fine, è proprio questo: quello che non vediamo, quello che è nascosto, è come se non ci fosse. Come se non esistesse. E allora che senso ha penarsi?
La voce impostata dei giornalisti e dei telegiornali, che ogni tanto si sentono durante il racconto della nonna di Entoni, hanno esattamente questo effetto. Qualcuno che viene da un altro mondo, da un’altra realtà, e che prova a leggere un problema che non conosce, a dividerlo nettamente tra estremi ed eccessi. E a ribadire una diagnosi che è diventata quasi una scusa: è la criminalità, è la povertà; è la rabbia. Ma è pure, ecco, la vita. Finirà mai questo Nascondino?
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