“Il mio rapporto con la Calabria è conflittuale. Da sempre. Me ne sono andato via quando avevo diciotto anni. Ma la verità è che ci torno sempre per fare cinema. È una regione che stringe con le persone un legame particolare, anche con chi rimane. E credo che il suo futuro sia nelle mani di chi, un futuro, riesce a immaginarselo lì”. Parola del reggino Fabio Mollo, 43 anni, che insieme alla collega Alessandra Cataleta ha firmato la regia di Semidei, documentario sulla storia delle due statue bronzee meglio conservate al mondo, i misteriosi guerrieri – noti come “Bronzi di Riace” – riemersi dal mare di fronte alla cittadina calabrese nel 1972, dopo duemila anni sott’acqua.
Presentato nella sezione Notti Veneziane delle Giornate degli Autori, Semidei è “una bellissima lettera d’amore per la Calabria, come l’ha definita Antonio Badalamenti, uno dei produttori”, continua Mollo, che nel film intreccia interviste e documenti inediti, per parlare dei Bronzi ma anche del nostro tumultuoso presente.
Perché questa storia?
Era l’anniversario del cinquantesimo anno del ritrovamento dei Bronzi, e avevamo voglia di raccontarne la storia. Il film lo abbiamo trovato così. Abbiamo iniziato a studiarli e nel farlo ci siamo accorti che – al di là del ritrovamento e del loro inestimabile valore artistico – raccontavano tanto altro. Prima di girare abbiamo fatto quasi un anno di preparazione e studio.
Si è suddiviso i compiti con Cataleta?
Ci unisce una grande amicizia e avevamo voglia di lavorare insieme. Abbiamo condiviso non solo il lavoro pratico, ma anche le riflessioni sul film. Ci interessava unire il cinema sull’arte al cinema nel reale: avere due teste e due sguardi è stato importantissimo.
Nel documentario compaiono molte persone di Riace. Come le ha scelte?
Fin dall’inizio volevamo che ci fosse la voce di una giovane del posto. Carlotta ha una personalità dirompente e carismatica e in una piccola comunità come quella di Riace è impossibile non notarla. Per quanto riguarda Damiano ci siamo fatti aiutare da alcune persone che ci hanno introdotto nella comunità rom, che ci ha accolti benissimo. Damiano spiccava. È stato un attimo: abbiamo capito subito che era il nostro protagonista.
Nel suo film chiunque parli dei Bronzi lo fa con un’emozione quasi mistica. Cosa ha provato quando ha visto le statue per la prima volta?
Essendo nato e cresciuto a Reggio Calabria, i Bronzi fanno parte di me, della mia conoscenza, della mia infanzia. Non ho neanche memoria della prima volta che li ho visti.
Ricordo però una visita con la scuola elementare. In me scattò quasi una forma di protezione nei loro confronti. Ho visto queste statue in tensione e in loro ho letto la fascinazione per la messinscena, per il racconto umano. È una tensione emotiva oltre che fisica. Sono convinto che quell’incontro abbia avuto un suo peso nella mia decisione di fare questo mestiere.
Come ha trovato e usato le immagini di repertorio?
È stato un lavoro importantissimo. Maria Furfaro si è occupata dell’archivio territoriale mentre Daniele Morrone ha lavorato a quello della Rai. Ci hanno aiutato loro e i nostri montatori, Filippo Montemurro e Mauro Rossi, che hanno visionato tutto e ci hanno consentito di lavorare sul linguaggio. Il materiale di repertorio ci dà la misura del tempo. Passato, presente e futuro si mescolano: volevamo sospendere la percezione del tempo e crearne uno solo, unico, di 2.500 anni.
Per le musiche lavorate con Giorgio Giampà e Marta Lucchesini…
Hanno avuto massima libertà: stiamo parlando di due professionisti di grande talento. Quasi tutti i reparti sono “doppi”, è un film fatto con un grande sforzo di collaborazione. Semprte lavorando sul concetto di “tempo unico”, gli ho chiesto delle musiche che venissero dal futuro, da una specie di terza dimensione. Gli ho chiesto di trovare un suono che fosse legato ai bronzi, e la loro fantasia si è scatenata.
Cosa rappresentano per lei i Bronzi?
Degli arcani. Qualcosa che vogliamo conoscere ma che non riusciremo mai a fare fino in fondo. Nei Bronzi c’è un mistero che fa parte dell’uomo, ecco perché ne siamo affascinati. Molte persone sono affette da ‘bronzite’, l’esigenza di tornare ciclicamente a rivederli, a tuffarsi nel mistero. Nel documentario lo sguardo di Damiano è il più puro, perché non ha sovrastrutture, non è viziato da nozioni scolastiche o dalla chiacchiera intorno ai Bronzi. Ha un sguardo tutto suo, unico e personale.
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