Questo articolo venne pubblicato la prima volta nel maggio del 2013 da l’Unità. Nel frattempo Sixto Rodriguez ci ha lasciati. l’8 agosto 2023, dopo una vita dura e straordinaria, ed il 13 maggio 2014 si è tolto la vita – gettandosi sulle rotaie della metropolitana di Stoccolma – Malik Bendjelloul, il regista di Searching for Sugar Man, che l’anno precedente gli era valso l’Oscar come miglior documentario. E che dal 16 ottobre torna nei cinema italiani.
Un’ombra si muove dietro la finestra. La casa è di legno, e francamente sembra andare a pezzi. Di fronte c’è un giardino, desolato: uno dei tanti, in questo quartiere periferico di Detroit, dove la povertà, così come il freddo cane, non è un’eccezione. Finalmente la finestra si apre: è Sixto Rodriguez, l’uomo venuto dal buio che ci sta obbligando a riscrivere la storia della musica. Si muove con timidezza, ma sembra un vecchio indiano, con i suoi lunghi capelli corvini e gli occhiali da sole. In realtà è di origini messicane. Qualcuno, tanto tempo fa, l’ha definito “una specie di homeless”, ma non era vero: faceva il muratore. “Construction worker”, come dice lui con un filo di voce. E’ stato il suo mestiere per quasi tutta la vita: un lavoro duro, ha abbattuto e costruito case. Mattone su mattone.
Ebbene, quest’uomo è il protagonista della “più grande storia non raccontata del rock’n’roll”. Una storia che sarebbe incredibile se non fosse vera, e che si conclude con un film, Searching for Sugar Man, che nel 2013 ha vinto il Sundance festival e l’Oscar per il miglior documentario, e che poi si è espansa con una tournée mondiale (New York, Parigi, Barcellona, Londra, quasi ovunque sold out) e con una valanga di nuovi fan che sembrano folgorati sulla via di Damasco da quando hanno conosciuto i versi e le melodie di Sixto Rodriguez: un epilogo che rende giustizia al più colossale “buco nero” musical dell’ultimo mezzo secolo.
Una storia che comincia con due produttori, Mike Theodore e Dennis Coffey, che in un locale fumoso e malfamato di Detroit vedono questo strano tipo che suona la chitarra acustica con le spalle rivolte al pubblico. Da lì nascono due dischi, registrati tra il ’69 e il ’71, Cold Fact e Coming from Reality, e sorge il primo, incommensurabile, paradosso: sono due capolavori, ma nessuno se ne accorge. Zero. L’America non prende nota: come dire, “non pervenuto”.
Clarence Avent, ex manager della sua casa discografica (la Sussex, di derivazione Motown), dirà, molti anni dopo: “Quante copie ha venduto? Forse sei…”. Ora, è vero che sono gli anni dei Beatles e di Hendrix, di Stevie Wonder e dei Doors, ma probabilmente qui fa la sua parte una forma di sottile razzismo: Rodriguez viene ignorato perché è percepito come un “latino”, a quei tempi è altro il sentire dominante. In realtà, quei due dischi spalancano mondi: le sue canzoni sono uno straordinario melange a metà strada tra Dylan, Cohen e il soul, il talking blues e il folk, con incursioni “acide” e qua e là persino orchestrali. A tutt’oggi Theodore e Coffey, quasi con le lacrime agli occhi, non se ne fanno una ragione: “A parte Dylan, forse nessuno ha la qualità di scrittura di Rodriguez”.
Ed è vero. Testi formidabili, folgoranti e visionari. “Ho perso il mio lavoro due settimane prima di Natale. Ho parlato con Gesù al bar, e il Papa mi ha detto che non è affar suo”. Storie suburbane, spesso struggenti, storie prese dalla strada, schegge di verità che Sixto (si chiama così perché fu il bambino numero sei della sua famiglia, venuta dal Messico per trovare un futuro all’ombra delle grandi fabbriche d’auto di Detroit) riesce a trasformare in fiumi di poesia, squarci di vita presi tra i derelitti, tra i poveracci, le prostitute, i lavoratori della “motor city”.
Storie come quella di Sugarman, ritratto di un pusher all’angolo della strada della stessa forza di I’m Waiting for the Man dei Velvet Underground, o cavalcate di parole irriverenti come The Establishment Blues, evidente omaggio a Ma’, I’m Only Bleeding di Dylan. Feroci eppur ironici pamphlet come A Most Disgusting Song: “Mentre la mafia ti procura le droghe, il governo ti fornisce le alzate di spalle, la guardia nazionale ti procura le pallottole, loro siedono lì, tutti soddisfatti”. Su tutto, la sua voce: dolce, suadente, chiara come un ruscello di montagna, riconoscibile a migliaia di chilometri di distanza. E gli arrangiamenti: strani, maliosi e obliqui, con sottili fremiti soul sotto in tappeto di chitarre acustiche.
Ma questa è solo la prima parte della storia. L’altra comincia dall’altra parte del globo: in Sudafrica. Le versioni differiscono: c’è chi parla di una ragazza americana che porta un disco di Rodriguez al fidanzato sudafricano, qualcun altro cita la storia di un dj, tal Holger Brockmann, che suona Cold Fact alla radio… com’è come non è, i dischi di Rodriguez cominciano a circolare vorticosamente nel paese dell’Apartheid. Per i giovani bianchi non conformi al regime le sue canzoni diventano gli inni di una liberazione (allora) impossibile, e Sixto una specie di superstar: “A quei tempi nelle nostre collezioni non potevano mancare Beatles, Simon & Garfunkel e Rodriguez”. Però di quest’ultimo non si sa niente di niente.
Comincia allora a circolare la leggenda: si è suicidato sul palco, sparandosi un colpo alla testa… anzi no, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco. Insomma, il mito cresce di giorno in giorno, nonostante la censura: Sugarman viene addirittura “graffiata via” dai vinile, per impedire che venga suonata nelle radio. Il mito cresce, e con lui il mistero.
Il bello è che, laggiù a Detroit, Rodriguez è all’oscuro di tutto. Vive quasi nell’indigenza: le “royalties” non gli sono mai arrivate. Le ambizioni artistiche sono messe da parte, lui è sempre un “construction worker”. Finché qualcuno, in Sudafrica, non decide di fare delle ricerche: un fan impeninente, Steven “Sugar” Segerman (sì, il soprannome che gli è rimasto appiccicato tutta la vita lo deve proprio a Sixto), e il giornalista musicale Craig Bartholomew vogliono sapere “com’è morto davvero Rodriguez”.
Per cominciare, scoprono che in America non lo conosce nessuno, cosa che li stupisce moltissimo: per loro è “molto più famoso dei Rolling Stones”. Ma altri progressi non ne fanno: dall’America collezionano solo dei no e dei telefoni muti. Passano gli anni e Segerman decide di mettere in piedi un sito dedicato a Rodriguez. Ed è con immenso stupore che un giorno trova, nello spazio dedicato ai commenti, il messaggio di una ragazza che dice, molto semplicemente: “Io sono la figlia di Sixto Rodriguez. Rodriguez non è affatto morto. Ecco il mio numero”.
Il resto della storia è, a suo modo, altrettanto leggendario. Segerman all’una di notte riceve la telefonata di Rodriguez: “Devi venire in Sudafrica, qui sei più celebre di Elvis”, gli dice il fan. Quando Sixto e le due figlie, nel 1998, atterrano a Città del Capo non credono ai loro occhi: ad aspettarli ci sono una limousine e centinaia di fotografi. Gli amici sudafricani organizzano un tour di alcune date: palasport pieni come uova, fan che piangono di commozione e conoscono a memoria tutte le canzoni, autografi, interviste, radio.
Ma quando Sixto torna in America, ricomincia tutto come prima: compreso il lavoro nei cantieri e una vita “molto, molto semplice”, come racconta la figlia Regan. Sarà Searching for Sugar Man, il documentario di un filmaker svedese di padre algerino, Malik Bendjelloul, a cambiare definitivamente la storia, nel 2012. L’abbiamo detto: il Sundance, l’Oscar, fan in tutto il mondo e una nuova tournée. Lui, che per tanti anni solo ogni tanto aveva preso in mano la chitarra, suona e canta da dio, come se non avesse mai smesso: oggi Sixto non è più un’ombra di Detroit. Oggi è Rodriguez.
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