“Siamo pronti”, urla un leader religioso, con gli occhi chiusi, gocce di sudore sulle tempie, seguendo un qualche ritmo interiore. E la comunità ripete, con la stessa enfasi, quasi in trance: “Siamo pronti”. “Per combattere. L’omosessualità”. E ancora: “Padre. Preghiamo per una nazione libera dall’omosessualità”.
Siamo in Uganda, un paese dove l’omosessualità è illegale, ed essere gay, lesbiche o trans vuol dire essere perseguibili e perseguiti tanto dalla comunità quanto dallo Stato. L’ Anti-Homosexuality Act (AHA) sancisce la pena di morte per “omosessualità aggravata”. Ci sono ronde definite “underground” o segrete che nascono apposta per cercarli e se possibile ucciderli: lo racconta ridendo un promotore di quest’iniziativa. Scovarli è un vanto e un divertimento. Un capro espiatorio su cui riversare il bisogno di violenza e rivalsa.
E poi c’è la polizia che picchia, arresta, tortura. E i media che rincarano la dose per essere sicuri che alla fine la sentenza sia spietata.
Andare via è l’unica soluzione. Qualcuno ci riesce, qualcuno ottiene l’asilo, altri lo aspettano per mesi o anni interminabili. Out of Uganda è il documentario vincitore del MiX festival di Milano “Per aver acceso un faro su una doppia violenza istituzionale: quelle delle autorità politiche e religiose del Paese di origine, che violano i diritti umani fondamentali rivendicando persino l’uccisione delle persone lgbtq+, e quella anonima degli apparati burocratici nei Paesi di accoglienza, che pur rappresentando un rifugio non sempre riescono a dare salvezza alle persone Lgbtq+ perseguitate”. Girato da due registi svizzeri, Rolando Colla e Josef Burri, racconta la vita di chi resta e di chi parte.
In Uganda, c’è la storia di una casa, solo cinque posti letto, in cui possono vivere o piuttosto rifugiarsi, in qualche modo ricostruirsi se non una famiglia almeno degli affetti, persone transgender. Si chiama Icebreakers Uganda, fa quel che può e la sua esistenza è già un miracolo. La regola è che gli ospiti lì dentro possono fare quello che vogliono, essere chi sono, ma fuori devono imparare a essere irreprensibili, normali, se vogliono aver salva la pelle.
Proprio lì vive un ragazzo con alle spalle il suo desiderio fin da piccolo di vestirsi da donna, un arresto, un padre che non lo vuole più vedere, il vuoto enorme e la solitudine. E ora c’è questa casa, il sogno di una vita migliore in futuro. E intanto si prostituisce per mettere via qualcosa e crearsi prima o poi gli strumenti per quel futuro.
Ci sono anche donne appassionate di diritti umani e giurisprudenza che si fanno in quattro per difendere persone che la legge ugandese ritiene fuori, dalla legge e da ciò che è tollerabile, da ciò che ha diritto di esistere.
Infatti poi c’è la Svizzera, perché chi può da lì va via. Una ragazza lesbica racconta di esser dovuta partire quando si è resa conto che nel suo paese che avrebbe dovuto sentire come casa non era più al sicuro. E patisce l’attesa di un visto in questo posto così lontano e così pieno di neve.
C’è chi è lì da tempo, non riesce a concentrarsi su niente, nemmeno a imparare bene la lingua, in testa non entra più niente: non si riesce a pensare a niente che non sia quel diritto di asilo, che ci sarebbe, lo millantano queste nazioni occidentali, ma non arriva mai e lui indietro non potrebbe mai tornare – là c’è la pena di morte.
Chi ha ottenuto l’asilo cerca con fatica e speranza di ricostruirsi una vita: essere lontani da casa è lacerante ma poter essere se stessi è liberatorio e quasi, quasi, per degli istanti, si può sperare in qualche spiraglio di felicità. Perché essere felice quando puoi essere normale? è il titolo di un memoir della scrittrice inglese Jeanette Winterson e questa è la risposta di sua madre quando lei cercava di spiegarle che amare una donna era ciò che la rendeva felice. È qualcosa che in Europa accade ancora. Ci sono luoghi della terra in cui voler essere felici, invece che normali, è un dramma d’infelicità, sofferenza e tortura.
Ma la violenza della burocrazia occidentale, con le sue umilianti attese, la sua freddezza e la sua rigidità, è un’altra forma di tortura, magari non fisica, ma altrettanto prevaricatrice, altrettanto opprimente.
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