Il 16 e 17 settembre c’è stata a Milano la seconda edizione del festival 2084 – Le cose da salvare. Un piccolo festival per i tempi che corrono, a cura della scuola di scrittura Belville. Lo curano l’autore e traduttore Marco Rossari (uscito pochi giorni fa con l’Ombra del vulcano per Einaudi), Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi: qualcuno avrà letto i loro articoli sulla rivista culturale Il Tascabile, qualcuno li conoscerà per una newsletter che si chiama Medusa ed è diventata anche libro: Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) pubblicato da Nero Editions.
Proprio quella newsletter, e proprio quel libro, sono germinati in questo festival. Si sente: hanno lo stesso sapore, gli stessi colori, la stessa cura e cultura elegante, la stessa discrezione e densità.
Acque intossicate e catastrofi spettrali
Si muovono (la newsletter, il festival) nel mondo attraversato dalla crisi climatica, fra acque intossicate e siccità che secca la gola, pioggia che è veleno, catastrofi spettrali: lì dentro cercano vita, legami, profonde curiosità e meraviglia. A 2084 si raccontano e si confrontano, o si mischiano e parlano, la scienza l’attivismo, la fantascienza.
La prima edizione di questo “piccolo festival per i tempi che corrono” si era tenuta del giugno 2022 e si intitolava Storie dal futuro: fra gli ospiti c’era stato Amitav Gosh, fra le letture e le atmosfere c’erano stati i pianeti immaginati da Ursula Le Guin.
Quest’anno invece era stato chiesto agli ospiti di raccontare ciò che salverebbero di questo mondo qui, da portare nel mondo che verrà e che certo non sarà più quello di una volta. Se l’anno scorso il salto era stato fatto e ci si muoveva già nel mondo di domani, questa volta si restava con un piede nel presente perché qui accanto a noi, se si guarda bene, qualcosa da tenere, qualcosa che rimane, che saprà riverberarsi nel futuro, c’è ancora.
In fondo al Naviglio
Due giornate, dense di incontri ma un alla volta, sullo stesso palco, con mezz’ora di pausa fra uno e l’altro, in una cascina che si trova in fondo al Naviglio Martesana, l’EastRiver di via Jean Jaurès 22, fra il prato, gli alberi, la ghiaia, una ciclofficina e i chioschi per prendere da bere e mangiare, sedersi ai tavoli e ascoltare un incontro, o mettersi a chiacchierare con i relatori di quello precedente. Lo scorso anno c’era anche un enorme coniglio bianco a macchie nere che si aggira per il giardino come il personaggio di una fiaba antispecista.
Il primo di sabato pomeriggio si intitolava “Io dico l’universo”, con Frank Westerman, autore olandese del catalogo Iperborea, l’astrofisico Amedeo Balbi e Marco Motta, voce storica di Radio3 Scienza: loro avevano deciso di salvare lo stupore perché è ciò che regala quell’irrefrenabile curiosità che spinge l’essere umano alla ricerca, con tutti i pericoli che comporta, come ci ricorda il film su Oppenheimer uscito recentemente.
Parlare di scienza, astronomia, astrofisica, di chi vuole costruire un albergo sulla Luna e dell’India che ci è già arrivata, è una boccata d’aria immensa, la letteratura ha bisogno di scienza, di sguardi ampi, aperti, meravigliati, che portino oltre l’umano e l’oggi. È il bello, se qualcosa di bello ci può essere, dell’Antropocene: spinge a guardare oltre, altrove, da prospettive nuove, al di là della nostra specie. E 2084, così come Medusa, sono voci dall’Antropocene, dove scienza e letteratura di mescolano e parlano.
Lo sguardo ibrido di 2084
Gli incontri seguenti erano più incentrati su dei libri ma restava quello sguardo ibrido. lo scrittore Vincenzo Latronico presentava Elvia Wink, autrice di Narrazioni dell’estinzione (Add editore): loro avevano decido di salvare il vuoto, la conversazione si muoveva fra mistica, metamorfosi e nuovi modi di pensare e guardare, verso quell’alterità che trasmette la vertigine del vuoto (e forse poi si ricollega allo stupore?).
Il diluvio serale ha spinto gli appuntamenti successivi in uno spazio coperto, si ascoltava in piedi, Francesca Coin, autrice de Le grandi dimissioni (Einaudi), che avrebbe salvato il tempo, liberato proprio licenziandosi, fuggendo dal lavoro estrattivista che caratterizza l’Antropocene. Mentre Francesca Coin e con Marco Motta si calavano fra le pieghe della generazione dei venti-trenta-quarantenni, quella delle grandi dimissioni e migrazioni, gli expat che cercano lavoro o senso all’estero e percepiscono nitidamente il tempo che hanno o più spesso non hanno, Rossari lo liberava – il tempo – leggendo alcuni brani da Works di Vitaliano Trevisan.
La prima serata si è conclusa con Ben Lerner e Francesco Pacifico: i due romanzieri salverebbero lo sguardo, quello che serve a interpretare il mondo e a immaginarne di altri, una “tecnologia per rifrangere e espandere la consapevolezza”. A guardarli, e sentirli, un pubblico fittissimo.
Umberto Eco e la sua biblioteca
La domenica mattina si è aperta con il film Umberto Eco – La biblioteca del mondo, introdotto dal regista Davide Ferrario e Andrea Zanni (bibliotecario digitale, social media manager della casa editrice Adelphi e narratore dell’Antropocene), dove era la biblioteca a diventare un “mondo a sé” e i libri (certi libri), forse, a restare. Zanni e Ferrario a quanto pare salverebbero il “finale”, che forse la serialità ci ha tolto (ma non è poi così detto) e che serve a ripartire il tempo: altrimenti come si possono trovare direzioni e utopie?
Dopo di loro Dario Ferrari e Marta Barone salvavano la rabbia; Chiara Alessi e Livia Satriano la forma; Michael Bible e Carlo Mazza Galanti l’innocenza. Ma soprattutto lo scrittore inglese Geoff Dyerr, pubblicato in Italia da il Saggiatore, parlando di finitezza, soglia fra nostalgia e futuro, ha concluso il festival dialogando con Marco Rossari e insieme hanno fatto la scelta più estrema e sconvolgente: salverebbero tutto.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma