“Sono arrivata ieri. Ho visto uno dei film in concorso, Snow in Midsummer. Mi è piaciuto molto. È un film che ti propone diverse interpretazioni del tempo”. Incontriamo Teona Strugar Mitevska, regista di Dio è donna e si chiama Petrunya, nel giardino della Casa degli Autori. La regista, top di piccole paillettes verde e pantalone di raso bianco con un motivo floreale, spegne una sigaretta prima di sedersi al tavolino con THR Roma per parlare di 21 Days Until The End of The World.
Un documentario realizzato durante la pandemia e presentato come evento speciale alle Giornate degli Autori in cui Mitevska si riprende confinata nella sua casa in campagna, fuori Skopje, confidandosi con l’obiettivo della telecamera.
È consapevole che il suo film può essere sfidante per il pubblico? Negli ultimi anni con il proliferare delle piattaforme molte pellicole sono realizzate seguendo i dettami dell’algoritmo. Il suo, invece, richiede una certa attenzione.
Sono assolutamente d’accordo. Penso che sia estremamente importante non prendere il pubblico per stupidi. Penso, al contrario, che sia piuttosto intelligente. Bisogna coinvolgere lo spettatore nella narrazione, spingerlo oltre. E a volte, sì, infastidirlo. Ma tutto è per l’esperienza, c’è uno scopo. È una sfida. Si può perdere molto pubblico lungo la strada, ma quelli che rimangono lo fanno con coscienza. Penso sia il nostro dovere. E il nostro scopo. Dobbiamo fare questo come artisti e cineasti. Dobbiamo fare film impegnativi. Perché se rimaniamo solo nella scatola delle aspettative, come possiamo evolvere? Come possiamo creare qualsiasi tipo di progresso? Credo sia anche una questione di essere coraggiosi o di dare a se stessi l’audacia di prendere un rischio. Se non lo facciamo noi, chi lo farà?
Ha parlato di tempo facendo riferimento a Snow in Midsummer. Ma non crede che anche il suo film ne sia una riflessione?
Sicuramente. Già dal titolo. Sono 21 giorni di noia, silenzio, confusione e introspezione. È sicuramente impegnativo in termini di aspettative del pubblico guardare il nulla in certi momenti e di rimanere attaccati a una certa inquadratura. Prima di vederlo sul grande schermo non me ne ero resa conto perché forse il tempo passa diversamente. Mentre lo guardavo qui alle Giornate degli Autori ho avuto la sensazione che lo stessi guardando per la prima volta. Avevo l’impressione che non fosse il mio film.
Avrà girato molto durante il lockdown. Hai lavorato al montaggio giorno per giorno?
No. Non riesco a lavorare in quel modo. Sono abbastanza lenta, in realtà (ride, ndr). Ho bisogno di riflettere. L’ho montato quando sono tornata a Bruxelles, i miei produttori mi hanno dato una piccola stanza di montaggio durante la pandemia.
All’epoca eravamo tutti circondati dall’idea di morte e dalla morte stessa. Come ha influenzato il suo lavoro?
L’intera esperienza della pandemia e del lockdown hanno messo in luce certe verità su cosa è importante e cosa non lo è. Personalmente, la cosa più importante che ha fatto la pandemia è stata rendermi invisibile. Mi sento inarrestabile ora. Non ho tempo da perdere. Dobbiamo creare, essere coraggiosi e andare avanti.. È essenziale che non ci permettiamo di crogiolarci nel fango che abbiamo creato.
Usa un linguaggio davvero non convenzionale nel film. In alcune lunghe sequenze la sentiamo parlare ma non vediamo il suo viso. Una scelta dettata per andare contro le regole del cinema ossessionato dall’estetica?
Sì, anche se trovo questo film molto estetico. Era molto importante per me incorniciare la bellezza che ritengo debba essere messa in primo piano. Quindi tagliare teste, osservare le mani mentre qualcuno parla. Questo per me è interessante. È quello che mi piace vedere al cinema. Mi sono messa alla prova. Quando fai un grande film ci sono sempre regole su come dovrebbe essere un’inquadratura. Mi sono data carta bianca per fare quello che voglio. Ho davvero inquadrato come mi piace inquadrare.
Quest’esperienza le ha insegnato a non sprecare il suo tempo. Cosa spera che il pubblico possa imparare dal suo film?
Il coraggio. Sono una donna proveniente dai Balcani. Un’artista e una regista. Ho passato il tempo ad aspettare di essere accettata, riconosciuta, finanziata, guardata. Questo film è molto personale e audace. Forse troppo, forse troppo poco. Ma è quello che sono. Per me il coraggio di darmi il diritto di essere così libera è la cosa più bella del mondo. Spero che il film possa spingere chiunque si senta diverso ad essere semplicemente se stesso. Non ci sono regole di creazione. Non ci sono regole su come dovrebbe essere un film, un libro o una poesia. Finché hai qualcosa da dire, il resto seguirà. Al diavolo le convenzioni.
Uno degli aspetti più interessanti del film è come la natura e il mondo in quei 21 giorni continuino ad andare avanti. Il suo film è anche una lezione di umiltà?
Assolutamente. Perché la natura è così bella, potente, dura, crudele. Un giorno vediamo la neve e quello seguente i fiori. Siamo solo una piccola, piccola parte di essa.
Molti film delle Giornate degli Autori sono diretti da registe donne. La ritiene un’opportunità per esprimere punti di vista diversi che spesso la grande distribuzione ignora?
Sì. Faccio film da vent’anni ed è incredibile il progresso che abbiamo fatto. I festival e i programmatori hanno una grande responsabilità nel creare uno spazio per far sentire queste voci e lasciare che emergano. Si tratta di fare un passo alla volta. Quando ho iniziato io mi dicevano: “Il tuo film è interessante ma non sei posizionabile commercialmente”. Ora, invece, i miei film vengono distribuiti. Ed è anche grazie ai festival se questo accade. Perché modificano il corso della storia.
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