A come alieni. Curioso affollamento di extraterrestri quest’anno alla Berlinale, dal ragno gigante di Spaceman che filosofeggia sul senso della vita e dell’amore con il cosmonauta ceco Adam Sandler (mentre la sua astronave entra in una nebulosa che dovrebbe rivelare l’origine dell’universo) ai cavalieri jedi campagnoli con tanto di spada laser di L’empire di Bruno Dumont, fino alla forma di vita mai identificata prima che prende contatto con la bionda Elsa in Meanwhile on Earth di Jérémy Clapin. Solo Dumont si è affacciato agli Orsi, rimane il fatto che sono alieni strani, inattesi, gonfi di metafore. Va bene così.
B come Berlinale. C’è chi dice che è mancato il “grande film” al festival 2024. Può darsi. Va dato atto ai direttori uscenti Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek di aver messo insieme un’edizione molto varia, articolata, dove si è posto l’accento sulla funzione politica del cinema. Non sono mancate delle clamorose ciofeche (per esempio Pepe, che ha garantito l’Orso per la regia a Nelson Carlos De Lo Santos Arias), mentre sono rimasti fuori dalla premiazione film notevolissimi come From Hilde with Love di Andreas Dresen e l’allegro Gloria! di Margherita Vicario. De gustibus, direte voi.
C come “ceasefire now“. Sul red carpet c’era chi si è attaccato cartellini con la scritta “cessate il fuoco adesso”, concetto ribadito da diversi premiati e da Jasmine Trinca. La giurata Oksana Zabuzhko, scrittrice ucraina, ha parlato dell’invasione nel suo paese da parte della Russia come di una “guerra di sterminio”. La direttrice esecutiva Mariette Rissenbeek sul palco del Berlinale Palast ha ribadito che “questo è un luogo di dialogo, nel quale non trovano posto l’odio, la discriminazione, l’antisemitismo o l’anti-islamismo”. Il festival non ha perso la sua vocazione di dare voce a tutte le voci. Di questi tempi in cui qua e là si fa fatica a sopportare la libertà d’espressione e d’opinione non è poca cosa. A prescindere da (legittime) opinioni personali: è proprio questo il senso della libertà d’espressione.
D come dispositivo. Così è stato chiamato il membro (nel senso di organo riproduttivo maschile) di Rocco Siffredi, alla cui vita e alle cui opere è dedicato Supersex, serie Netflix lanciata alla Berlinale con Alessandro Borghi nei panni della più iconica delle pornostar italiane. L’altro sinonimo usato per definire lo strumento di lavoro e di affermazione di Rocco è stato “superpotere”. Chissà perché, ma pare una forma di dissimulazione avere bisogno di cotante concettualizzazioni per parlare di un fallo, di sesso e di pornografia. Un po’ un paradosso, no?
F come fratellanza. È quella di Fabio e Damiano D’Innocenzo, venuti alla Berlinale a presentare la serie psyco-noir Dostoevskij, con Filippo Timi, Carlotta Gamba e Federico Vanni. I due lavorano in simbiosi e scrivono cose come “un temporale feroce come un litigio fra fratelli”: segno che la visceralità dei loro film corrisponde alla visceralità della loro fratellanza.
H come Hilde. Andreas Dresen, il regista, viene definite “una leggenda della Berlinale”, fatto sta che il suo From Hilde with Love è stato clamorosamente ignorato dalla giuria: nemmeno un orsacchiotto gli hanno dato. Peccato, perché la coraggiosa ma antiretorica resistenza di Hilde nella Berlino del Terzo Reich, la sua prigionia e la sua condanna, la bellissima interpretazione di Liv Lisa Fries, fatta di forza e di understatement, le immagini così limpide e livide per raccontare la quotidianità “banale” di un regime, non solo rappresentano un monito all’oggi (“vorrei che il mio film non fosse così attuale”, ha dichiarato Dresen), ma compongono il mosaico di un bellissimo film (che è stato già venduto in numerosi paesi). Complimenti.
I come ippopotamo. È Pepe, il grande mammifero erbivoro africano appartenuto al narcotrafficante Pablo Escobar e premiato per la migliore regia. È un ippopotamo che parla, i giurati ne sono rimasti deliziati. Coraggioso, non diciamo di no. Rischia, però, di diventare l’emblema di un cinema avulso dal mondo degli spettatori reali. Il dibattito è aperto.
M come Mati Diop (e come Martin Scorsese). L’Orso d’oro alla regista francese di origini senegalesi, già titolare del Grand Prix speciale della giuria a Cannes nel 2019, ci racconta il ratto dei tesori del regno di Dahomey: non è la prima volta che vince un documentario, per quanto sui generis, è già successo per esempio con Gianfranco Rosi nel 2016 con Fuocammare. È bello e giusto che i documentari possano ambire a correre in serie A. Finalmente. Così come era l’ora che la Berlinale onorasse la carriera di un titano della settima arte come Martin Scorsese. Meglio tardi che mai.
P come poltrone vuote. Sono quelle dei registi iraniani Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha: a quelle due sedie era rivolta la standing ovation della Berlinale, ché il regime di Teheran ha negato loro il permesso di espatriare. La loro delicata ballata d’amore, My Favourite Cake, è stata considerata perigliosa per la stabilità del regime. Ottimo. Avanti così.
R come Reitz. Il grande maestro dell’epopea di Heimat, qui onorato con la Berlinale Camera, ha consegnato al festival il suo ultimo lavoro, Filmstunde_23, un “piccolo” film (rispetto all’opus magnum con cui ci ha abituato negli scorsi decenni), ma anche uno dei più struggenti visti al festival: un viaggio indietro nel tempo, una lezione di cinema piena di saggezza, che non è solo saggezza di cinema, ma anche di vita, di libertà, di politica senza mettere il petto in fuori, senza una poderosa dichiarazione, senza slogan, senza roboante enfasi. Imparare, prego.
S come sorellanza. Sarà un caso (no, non lo è), ma sono state le donne le protagoniste della Berlinale 2024: la regista Orso d’oro, le protagoniste di una buona maggioranza di film che abbiamo visto al festival, le migliori interpretazioni, a cominciare dalla strepitosa Anja Plaschg di The Devil’s Bath. È una sorellanza de facto della Berlinale, e a nostro modesto avvisto vale di più del palmarés finale. E poi c’è la sorellanza ribelle di Margherita Vicario e della sue musiciste orfane nell’anno 1800 in Gloria!, una sinfonia pop forse troppo allegra per piacere agli accigliati giurati guidati da Lupita Nyong’o.
T come teste (mozzate). Ebbene, quattro donne decapitate in tre film nel medesimo festival forse sono un record: sono la contadina austriaca del Settecento spinta alla follia e un’assassina di neonati in The Devil’s Bath, la madre di un bimbo non si sa se demone o messia la cui testa decolla grazie una spada laser in L’Empire di Bruno Dumont, l’eroina (quasi dimenticata) della resistenza tedesca Hilde Coppi ghigliottinata nel dramma antinazista From Hilde with Love. Coincidenza o tendenza emblematica?
Z come zero. Ovvero zero premi all’Italia: niente per Another End di Piero Messina, niente per Gloria! di Margherita Vicario (bravissime Galatea Bellugi e Carlotta Gamba). Peccato, forse un’occasione persa, e un po’ una fastidiosa abitudine che il nostro cinema solo raramente riesca a bucare i festival internazionali e si permetta di puntare in alto all’Academy (ora si spera in Matteo Garrone che corre per l’Oscar. Auguri). Ma, prego, niente piagnistei. Appuntamento alla Berlinale 2025.
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