“Ho iniziato una maratona di interviste e sto scommettendo sempre su chi mi chiama. Finora sono tutte donne. Sono contenta, ci si capisce meglio”. Dall’altra parte della cornetta Catrinel Marlon, la madrina del 41º Torino Film Festival alle griglia di partenza con una serata inaugurale programmata alla Venaria Reale. “Come la sto vivendo? Cerco di non pensarci troppo. Sto preparando un piccolo intervento di saluto, un pensiero anche su quello che è successo nei giorni scorsi. E poi tutta la serata sarà dedicata a Pupi Avati”, confida l’attrice che al festival esordisce come regista con Girasoli, presentato in anteprima nella giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. “Il film affronta dei temi sociali, familiari, metafisici. Miro a suscitare delle riflessioni sulla follia, sull’amore, sulla condizione umana”, continua la madrina-regista. “E spero che il film sia un’opportunità per aprire un dialogo sulla forza dei legami interpersonali. È un tema molto complesso. La mia voce quel giorno sarà un piccolo tassello”.
Un film – prodotto da Massimiliano Di Lodovico per Masi Film con Rai Cinema, con Mobra Film e Gapbusters, in associazione con Lumina MGR e distribuito da Masi Film in collaborazione con Pathos Distribution – ambientato negli anni Sessanta. Al centro del racconto la storia di un amore impossibile tra due ragazze, la giovane infermiera Anna (Mariarosaria Mingione) e Lucia (Gaia Girace), quindicenne schizofrenica paziente di un ospedale psichiatrico più simile a una prigione che a un istituto di cura. Nel cast anche Monica Guerritore e Pietro Ragusa.
Il suo esordio, scritto a sei mani con Heidrun Schleef e Francesca Nozzolillo, parte da elementi autobiografici. Come avete lavorato per renderli il più universali possibile?
È stato un lavoro veramente complesso. Intanto perché raccontavo una cosa della quale conoscevo il sapore, il colore, l’odore. Una realtà vissuta attraverso mia zia. Le prime due mani con le quali ho collaborato sono quelle di Francesca Nozzolillo, una giovane sceneggiatrice allieva del Centro Sperimentale. Che però, per una questione anagrafica, non aveva nessun ricordo del periodo raccontato, della legge Basaglia, dei manicomi. Inoltre scriveva di tutt’altro e con un taglio più leggero. Quando sono andata da lei e le ho raccontato il tema che volevo approfondire. Inizialmente si è spaventata, non si sentiva adeguata, non sapeva se ce l’avrebbe fatta.
E poi?
Si è fatta trasportare un po’ dai miei racconti. Sapevo che era brava, che aveva talento. Così ho provato ad incuriosirla. Si è messa a studiare la vostra storia. Perché sto parlando di qualcosa che nel mio paese c’è ancora. Non si tratta di veri e propri manicomi ma di ospedali psichiatrici. Ho dovuto studiare anche io perché, girando in Italia, dovevamo portare una storia ambientata in un momento in cui quei luoghi esistessero. E il fatto che abbiamo scelto gli anni Sessanta è perché nel decennio successivo la legge Basaglia inizia la sua rivoluzione. Prima del 1978 c’era una confusione totale, meno controlli. I mariti potevano far ricoverare le mogli con delle scuse. Magari perché avevano l’amante. Venivano rinchiusi lì i figli delle prostitute o di madri malate. È pazzesco. Però mi ha dato l’opportunità di scoprire questi padiglioni in cui radunavano persone recuperabili.
Perché ha scelto i bambini?
È un tema a me caro. Fino ai tre ani sono cresciuta in orfanotrofio. Ci sono tantissime cose che mi hanno portato ad amare quel contesto lì di purezza. Ho voluto trasportare il tutto in una dimensione un po’ più sofferente. Ho scelto la malattia mentale, il manicomio, il 1965 e quel padiglione per avere la possibilità di lavorare con dei bambini che erano anche dei bravi attori. Ci tenevo però che non diventasse troppo pesante, documentaristico. Sarebbe stato molto difficile raccontare le storie di bambini con delle schizofrenie o delle malattie. Ho trovato una chiave più sensibile anche grazie alla storia d’amore.
Il primo giorno sul set?
Ah, me lo ricordo bene. La sera prima non ho dormito (ride, ndr). Abbiamo iniziato le riprese con l’unica sequenza in esterna, sulla spiaggia. È stato piacevole ritrovarsi con Monica e Gaia, due attrici che facevano tanto da sole. È stato d’aiuto. Per quanto possa empatizzare con i bambini, ho sperimentato le difficoltà di lavorare con loro. Forse mi sarei un po’ spaventata. È stata una giornata fortunata. Poi ho avuto un infortunio che mi ha un po’ limitata.
Cos’è successo?
Ho una gamba rotta e non mi sono mai operata. Ho il menisco scheggiato e non ho il crociato anteriore. Ho fatto una manovra sul set e mi sono ritrovata con la gamba gonfia e un ginocchio fuori uso. Sono stata sulla sedia a rotelle. La produzione suggeriva di fermarci, anche solo per una settimana. Ma io avevo troppa paura che il Covid ci potesse bloccare. Era una cosa che non potevo controllare. Perciò ho preferito soffrire e portare avanti tutto. Una settimana dopo il mio infortunio il direttore della fotografia, Fabio Zamarion, si è preso il Covid e siamo stati dieci giorni senza di lui. È stato un po’ complicato. Era un tassello molto importante. Specialmente per me.
Come avete lavorato sulla ricostruzione storica e visiva dei padiglioni?
In fase di scrittura ci siamo accorti che il film costava troppo e siamo stati costretti a tagliare delle scene che portavano a questa chiusura. Quando ci siamo trovati in questa situazione, ho preferito concentrarmi su questo aspetto e dare una sensazione di reclusione, fisica e mentale. La negazione della libertà. Abbiamo avuto un bravissimo scenografo, Tonino Zera, che ha fatto un lavoro straordinario iniziato due mesi prima delle nostre riprese. Il film doveva essere ambientato nell’ex manicomio di Aversa, per questo la maggior parte del cast è napoletano. Ma ci siamo accorti che non si poteva girare lì, incideva troppo sul budget. Così abbiamo scelto di raccontare questo film in un luogo non luogo, a Roma, nell’ex ospedale Forlanini. Siamo stati per due mesi in questi padiglioni sottoterra. C’è stato un lavoro molto faticoso dietro.
Lei è diventata modella per caso, però poi ha deciso di diventare regista. Quando ha capito che voleva raccontare storie?
È successo tutto con la pandemia. Un momento nel quale avevo deciso, non sapendo cosa sarebbe successo l’indomani e avendo una bambina piccola, di fare un passo indietro e stare più vicino alla famiglia, trovarmi un lavoro d’ufficio normale come tutte le persone. Parlando con il mio compagno ricordo che mi disse: “Non rinunciare del tutto. Ti piace l’arte, sei una fotografa, dipingi. Ma perché non ti metti a studiare regia?”. Una cosa alla quale non avevo mai pensato. La vedevo molto più grande delle mie capacità. Anche se, in qualche modo facendo la fotografa da diversi anni sono sempre stata regista del mio set fotografico. Da una chiacchiera è nata questa cosa. Ho deciso di mettermi a studiare online e di collocarmi nel mondo pubblicitario della moda. Mi sarebbe piaciuto rimanere in quel settore creativo e veloce. E poi strada facendo, mangiando ti viene l’appetito (ride, ndr).
Cos’è successo?
Ho iniziato a sognare più grande. Mi sono detta: “Provo a fare un corto”. Ma mentre lo scrivevo avevo già in mente l’idea del lungometraggio. Sempre il mio compagno mi suggerì di farci un corto. Gli risposi: “È una storia troppo bella, deve essere un film”. Sono stata una di quelle persone che con la pandemia ha avuto l’opportunità di fermarsi e pensare a cosa volesse veramente.
Come sta vivendo questo momento?
Mi trovo nella situazione di presentare finalmente una cosa sulla quale ho lavorato per tantissimi anni. Il mio primo film. Ho paura, non lo nego. E mi accorgo di aver toccato un tema su quale in questo momento c’è un’attenzione mediatica molto importante. Ho avuto anche diverse difficoltà nel trovare un distributore per il mio film, perché nessuno ci credeva fino in fondo. Mi dicevano che è molto difficile portare al cinema le persone con un film sulla malattia mentale. Ma oggi è difficile portare al cinema le persone a prescindere. Però quando pensi positivo, le cose si allineano. Quello che voglio trasmettere con Girasoli è quello di cui ha bisogno oggi la società: un messaggio di speranza e di forza che può emergere anche nelle situazioni più difficili. La luce si può ritrovare anche nei luoghi più bui. Spero che il pubblico esca dalla sala con una prospettiva nuova, più compassionevole. Non solo sulla follia, ma anche sull’amore.
Credi stia cambiando l’approccio collettivo verso la malattia mentale?
Prima non se ne parlava. Oggi è diverso, si prova a fare qualcosa. Anche se forse non si fa ancora abbastanza. Però tutti quelli che si mettono in gioco e raccontano anche dei problemi personali come ha fatto Fedez creando una comunità per la donazione del sangue o Robbie Williams nel documentario su Netflix sono degli esempi. Non fai altro che farti amare ancora di più perché hai coraggio di ammettere di aver vissuto un disagio. I giovani oggi hanno più spazio. Però si devono fare avanti e trovare il coraggio di parlare. In passato mi sono trovata in una situazione in cui ho pensato: “Non ne parlo, tanto si sarà qualcun altro a farlo”. E, invece, bisogna esporsi. Non dobbiamo aver paura. Dobbiamo raccontare i nostri disagi e allo stesso tempo provare ad aiutare le altre persone, senza piangerci addosso.
In una sequenza il personaggio di Monica Guerritore viene derisa dai suoi colleghi, tutti uomini. La sua opinione non viene presa sul senso. Qualcosa che ha sperimentato?
Beh, quasi sempre. Sono consapevole di chi sono, di venire dalla moda, di avere anche una fisicità diversa. Però poi, una volta che dimostri di essere capace, la soddisfazione è doppia. Ti dicono che sei bella e brava. Recuperi (ride, ndr). Tra l’altro mi sono divertita ad inserire una battuta nel film – “La follia è femmina” – che se l’avesse scritta un uomo, oggi come oggi, sarebbe stato bruciato. Spero ci si accorga dell’umorismo che ho provato a mettere in quella scena. A volte siamo noi stesse a definirci delle pazze. Ce ne vantiamo, anche se è un tratto che ci attribuiscono gli uomini.
Ha avuto delle ispirazioni cinematografiche per Girasoli? E più in generale ci sono dei registi che ama e che utilizza come delle stelle polari per farsi guidare?
Mentre diceva “stelle polari” ho subito pensato a Terrence Malik che si muove su terreni umani usando l’universo. Un regista a cui sicuramente mi sono ispirata, anche se avrei voluto farlo molto di più. Penso al gioco tra i suoi personaggi e la luce. Quella luce pazzesca che mi sarebbe piaciuto avere anche nel mio film. In una fase di presentazione avevo espresso questo desiderio, ma poi essendo costretti a girare sottoterra abbiamo lavorato con una luce più naturale. Fabio Zamarion, il dio della luce che non a caso lavora sempre con Giuseppe Tornatore, è riuscito a giocarci e dare un senso pittorico, alla Caravaggio, alla luce che passava attraverso le finestre – tutte finte – che si vedono nel film.
Altri riferimenti?
Mi piacciono i film di Lars von Trier. I primi dieci minuti in bianco e nero de L’Anticristo! Anche lì si parla di malattia mentale. Inizialmente anche io immaginavo Girasoli bianco e nero, poi ho deciso di girarlo a colori. Un altro regista che adoro è Abdellatif Kechiche. Ne La vita di Adele racconta la storia d’amore tra due ragazze. Mi è piaciuto tantissimo come l’ha raccontato. Anche se era molto forte. Davvero lo adoro. Ho lavorato con lui qualche anno fa. Era il mio primo film.
Come andò?
Eravamo in Francia. Sono successe un po’ di cose sul set. Ero in coppia con un attore italiano. Era la storia di un regista e una giovane attrice, parlavamo in francese con l’accento italiano. Eravamo credibili. Poi però lui ha lasciato il film. E io sono rimasta sul set a Montpellier per tre mesi. Ho fatto una bella esperienza con tutto il cast mentre la produzione era alla ricerca di un altro attore.
A quel punto cosa fece?
C’è stata una coincidenza molto strana. Avevo preso parte a un altro casting in Romania per La Gomera – L’isola dei fischi di Corneliu Porumboiu. Avevo rifiutato la parte per fare il film di Kechiche. Dopo tre mesi a Montpellier sono tornata a casa piangendo perché avevo perso l’opportunità di lavorare con due registi importanti. Chiamai Porumboiu chiedendo se avevano iniziato le riprese. Mi disse di no perché no riuscivano a trovare la protagonista. A quel punto domandai se potevo avere l’opportunità di fare il provino in Romania. Alla fine mi hanno presa e con quel film siamo andati a Cannes. Nello stesso anno di Kechiche che aveva ripreso il film in mano e aveva riadattato la storia per Mektoub, My Love: intermezzo. Ci siamo ritrovati in concorso l’uno contro l’altro. Era proprio il destino. Fu una situazione molto buffa (ride, ndr).
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